La presunta morte della letteratura

Carla Benedetti

 

Qual è l'idea più memorabile espressa dalla critica letteraria italiana negli ultimi decenni?
Questa: che la letteratura italiana da decenni non esprime più nulla di memorabile. Che non solo non ci sono più scrittori dell'altezza di Calvino e di Pasolini, ma che nemmeno potrebbero più esserci, essendo venute meno le condizioni, essendo la letteratura entrata in una impasse storica. E questo è stato detto e ripetuto e teorizzato mentre libri vivi e importanti, che anch'io ho cercato di segnalare in questo giornale, continuavano a uscire in Italia.


Non si sa chi cominciò. Forse Franco Cordelli con il suo Poeta postumo del 1978. ma quel che è certo è che non c'è mai stata nella cultura italiana un'idea più condivisa, che ha messo d'accordo tutti quanti, ex neo avanguardisti ed ex anti-neoavanguardisti, postmodernisti e neo modernisti, cattolici e laici, di sinistra e di destra. L'hanno formulata e ripetuta negli anni Luigi Baldacci, Cesare Garboli, e Giovanni Raboni, da poco scomparsi; Giulio Ferroni, Alfonso Berardinelli, Romano Luperini, Pier Vincenzo Mengaldo e molti altri. Talvolta persino qualche scrittore. L'annuncio è stato fatto talmente tante volte che ormai sembra una gag comica. E hanno detto anche che non ci sono più critici né "intellettuali".
Ma il picco più alto si è registrato in questi ultimi mesi , come in un gran finale di fuochi d'artificio. Ecco un piccolo florilegio dai giornali estivi.


Goffredo Fofi sul Sole / 24 ore: "Trent'anni fa ci lasciarono Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini. Vent'anni fa ci lasciarono Italo Calvino e Elsa Morante … un grande passato. Nessuno ha colmato questi vuoti, nessuno potrà più colmarli". Angelo Guglielmi intervistato sul Venerdì di Repubblica: "Cosa sta avvenendo nella nostra letteratura? Assolutamente nulla dagli anni Sessanta, dai tempi di Calvino e di Pasolini. E anche del nostro Gruppo 63". Alfonso Berardinelli sul Foglio scrive che "gli autori entrati in scena dopo il 1990" sono "mutanti". Persino Piergiorgio Bellocchio, il fondatore di Quaderni piacentini, intervistato sul Corriere fa capire che dopo Volponi non ha più incontrato nessuno scrittore italiano interessante. E lo scrittore Sebastiano Vassalli, anche lui intervistato sul Corriere, ripete amaramente che in effetti questa non è l'epoca giusta per gli scrittori.


Un intero mondo culturale che da decenni ripete lo stesso verdetto: siamo tutti morti. E' impressionante. Un'allucinazione collettiva di cui verrebbe voglia di ridere, se non fosse che non è affatto innocua come potrebbe sembrare. Al contrario agisce e ha agito in modo devastante. Non solo perché non riconosce le energie artistiche, critiche e di pensiero che ancora nascono in Italia, ma soprattutto perché fa loro il deserto attorno. Per anni hanno azzerato le attese e represso gli slanci. Hanno bruciato il terreno della cultura e così spianato la strada ad altre forze che hanno potuto invaderle incontrastate.
Guglielmi: "Nessuno oggi apre nuovi campi dell'immaginazione. Arte e letteratura producono opere tutte uguali". E' vero. La macchina editoriale internazionale occupa il mercato con libri tutti uguali, rendendo difficile la circolazione di quelli che non sono conformi. Ma è di questo che sta parlando Guglielmi? No, sta parlando di un destino epocale. La colpa è del "tempo nostro" che sarebbe addirittura affetto da un'"impotenza generandi", come ha ribadito sull'Unità.


Purtroppo tesi del genere si trovano anche in studi seri, competenti, come quello di Guido Mazzoni (Sulla poesia moderna, il Mulino) che sostiene la necessità storica del declino della poesia nel mondo odierno: "La qualità degli scrittori non ha alcun peso in questo processo... Purtroppo le grandi trasformazioni storiche prescindono dal valore degli individui, che è sempre troppo piccolo per non risultare irrilevante". E se oggi nascesse a Recanati un grande poeta gobbo? Ma no, sarebbe ugualmente irrilevante. E' tipico dello storicismo vedere la storia sotto la lente della necessità. Ma almeno i vecchi storicisti credevano nello sviluppo, in un realizzarsi progressivo dell'essenza umana. Questi nuovi storicisti delusi credono invece nella necessità del declino, dell'impotenza degli individui, e dell'epigonismo. Uno storicismo rovesciato, ancor più paralizzante.


E non parlano del colonialismo culturale, dell'aggressività della nuova industria editoriale (questa sì mutante), o dell'abbandono del campo da parte di critici e giornalisti culturali rassegnati, quando non conniventi con la logica pubblicitaria che sta aggredendo il terreno del pensiero e dell'espressione. E chi dice che non c'è più un Pasolini si guarda bene dall'aggiungere che oggi probabilmente anche a Pasolini sarebbe stato molto più difficile parlare dalla prima pagina di un importante quotidiano. Su "Panorama" Fofi ribadisce la sua diagnosi: Nessuno oggi ha "un coraggio, un'intelligenza un'irrequietudine attiva, una capacità di rischiare paragonabile alla loro", cioè ai soliti Pasolini, Calvino, Morante e Carlo Levi.
Alias del Manifesto ha ospitato un dibattito tra Franco Cordelli e alcuni scrittori più giovani. Discutevano se è vero o no che la letteratura continua. Poiché - come scrivono un po'comicamente i due coordinatori, Andrea Cortellessa e Graziella Pulce - bisogna pur ammettere che "non tutto è già finito: altrimenti faremmo un altro mestiere" sembrava di assistere ad una seduta spiritica. Persone che da anni predicano la condizione postuma della letteratura, e che ora, sentendosi scavalcate da tutte quelle voci che fanno ancora scommesse forti sulla scrittura, tentano con fatica di riposizionarsi. Però senza il vigore rigenerante di una seria autocritica. Senza il coraggio di affermare la forza antagonistica che può esserci in quella cosa che chiamano "letteratura". Sul Foglio Berardinelli così sintetizza il dibattito di Alias: "Fra critici e scrittori non c'è differenza... La critica è un genere letterario e il romanzo è un genere critico".


Andiamo bene. Dopo che si è detto che il romanzo è morto e la critica è morta, si può scegliere dal menù del cimitero la combinazione che si preferisce.


Da tempo mi interrogo su quale sia stata la funzione dei miti di morte che hanno accompagnato la modernità occidentale fin dai suoi albori, a partire da quello hegeliano della morte dell'arte. E poi di quello poststrutturalista della morte dell'autore. E di quello postmodernista dell'esaurimento della letteratura, della fine del nuovo, della fine della storia, della morte del futuro. Disperazioni apparenti e consolazioni segrete. Miti ambigui, ora euforici, ora malinconici, ma sotterraneamente annichilenti. E mai come in questo ultimo periodo se ne è potuta avere la conferma concreta. Quei ritornelli sono serviti a smobilitare e a liquidare. Sono stati utili agli altri, ai veri avversari con cui oggi ci troviamo in un conflitto diretto: la normalizzazione dei generi letterari, la monocoltura del noir e del thriller, il ricatto populistico delle classifiche di vendita, l'enorme spazio dato alla cultura anglofona, l'audience che sostituisce il giudizio, la promozione pubblicitaria travestita da recensione, i testimonial televisivi e i book-jokey che hanno preso il posto dei critici, i tempi stretti imposti dagli uffici stampa editoriali che impediscono la riflessione, le grandi macchine di ottundimento e la colonizzazione dell'immaginario.


L'alveo della cultura, quella semiosfera protettiva in cui si svolgevano un tempo le discussioni, le contrapposizioni, gli scontri di poetiche, è stato smantellato. È una situazione inedita nella storia della modernità. Ma è anche una situazione finalmente aperta, da cui tutto può ricominciare. Perché ormai i veri termini del conflitto non sono più nascosti. Perché è emersa anche un'altra posizione rispetto a quei discorsi di capitolazione ripetuti per decenni. Perché ormai è chiaro che in questo combattimento non sono in gioco solo schermaglie estetico-letterarie basate sul gusto, ma cose di vitale importanza, decisive anche da un punto di vista antropologico.



Articolo tratto dal settimanale L'Espresso, Febbraio 2006.)

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