LA DISTRUZIONE DELLA CULTURA

Chris Hedges




Quando scoppia la guerra, la
prima vittima è la verità
.
Senatore Hiram Johnson, 1917

In tempo di guerra lo Stato cerca innanzi tutto di distruggere la propria cultura. Solo quando quest'opera di distruzione è portata a termine, lo Stato può cominciare ad annientare la cultura dei suoi avversari. Durante i conflitti la vera cultura è eversiva. Quando la causa sposata dallo Stato arriva a definire l'identità nazionale e il mito della guerra incita il paese alla gloria e al sacrificio, chi mette in discussione il valore della causa e la verità dei miti è bollato come nemico interno.
In tempo di guerra l'arte assume un significato completamente nuovo. La guerra e il mito nazionalista che la alimenta sono i portatori di una cultura bassa - folklore, drammi pseudostorici, kitsch, poesiole sentimentali, teatro e cinema che magnificano la gloria di soldati pronti a morire nobilmente per la patria nelle guerre passate e presenti. Per questo tutto ciò che ci commuove in tempo di guerra perde ogni attrattiva a conflitto finito. Canzoni, libri, versi e film che in guerra ci avevano riempiti di emozioni appaiono rozzi e imbarazzanti, utili solo a suscitare nostalgia per il vecchio cameratismo.
Gli Stati impegnati in una guerra zittiscono la loro cultura più autentica e umana. Quando questa distruzione è a buon punto si accorgono che la mancanza di freni critici e morali è molto utile nella campagna per sterminare la cultura degli avversari. Distruggendo la cultura autentica - quella che ci permette di discutere e giudicare noi stessi e la nostra società - lo Stato erode il tessuto morale, che viene rimpiazzato da una versione distorta della realtà. Il nemico è disumanizzato, l'universo viene diviso nettamente fra forze della luce e delle tenebre. La causa viene celebrata, spesso in forme apertamente religiose, come una manifestazione della volontà storica o divina. Tutto è dedicato all'esaltazione e glorificazione del mito, del paese e della causa.
In Serbia, le opere di scrittori come Danilo Kis e Milovan Djilas durante la guerra erano pressoché introvabili, ed è ancora difficile reperire i loro libri. In Croazia, nessuno ricordava più la satira tagliente di Miroslav Krleza, autore di un feroce ritratto dei despoti dei Balcani. Scrittori e artisti erano scomodi. Parlavano di tendenze sociali nascoste che venivano ignorate da una nuova genia di sedicenti storici, economisti e politologi nazionalisti.
I simboli nazionali - bandiere, canti patriottici, dediche sdolcinate - invadono lo spazio culturale e lo dominano. L'arte viene contagiata dalla banalità del patriottismo. E soprattutto, l'uso delle risorse culturali di un paese per sostenere lo sforzo bellico serve a mascherare le contraddizioni e le menzogne che si accumulano nel tempo. I simboli culturali o nazionali che non favoriscono la crociata spesso sono estirpati senza pietà.
In Bosnia i signori della guerra lavorarono sodo per far sparire tutte le tracce storiche della pacifica convivenza di diversi gruppi etnici. I simboli del vecchio regime comunista - che aveva come slogan "fratellanza e unità" - furono sfregiati o abbattuti. In Croazia i monumenti ai partigiani caduti combattendo contro i tedeschi nella seconda guerra mondiale e gli elenchi di nomi che dimostravano chiaramente la loro appartenenza a diversi gruppi etnici, vennero fatti saltare in aria. Le opere di Ivo Andric', che aveva scritto pagine di intenso lirismo sulla Bosnia multietnica, furono tagliuzzate dai serbo-bosniaci che ne estrapolarono alcuni brani per giustificare la pulizia etnica.
Tutti i gruppi - i croati, i musulmani e i serbi - si consideravano delle vittime. Ignoravano i propri eccessi e denunciavano quelli degli altri con rozze distorsioni che rinfocolarono le ostilità. Il vittimismo è una componente fondamentale di ogni conflitto. Lo Stato lo fabbrica e lo coltiva ad arte. L'intera vita culturale è assorbita dal compito di divulgare le ingiustizie commesse ai nostri danni, e ben presto diventa poco più di un imbonimento da agit-prop. Il paese è buono, la causa giusta e la guerra nobile è il messaggio inculcato nella testa dei cittadini con ogni mezzo, dai talk show di tarda notte ai programmi di informazione del mattino, dai film ai romanzi popolari. Il paese piomba ben presto in uno stato di trance da cui si risveglia solo a guerra finita. In alcune zone del mondo dove i conflitti restano irrisolti, questa trance può durare per intere generazioni.

 


(Tratto da Il fascino oscuro della guerra, Editori Laterza, Bari, 2004. Traduzione di Maria Giuseppina Cavallo.)



Chris Hedges
è stato per quindici anni corrispondente di diverse testate, tra cui il "New York Times" e il "Dallas Morning Newsd". Insegna Giornalismo presso la New York University e ha ottenuto vari riconoscimenti. L'ultimo, nel 2002, è stato l'"Amnesty International Global Award for Human Rights".

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