IL RACCONTO MOZAMBICANO CONTEMPORANEO

Silvia Cavalieri



I. Raccontare l'Africa

Il racconto costituisce uno strumento espressivo particolarmente efficace nel contesto africano, che vi trova uno spazio privilegiato in cui attuare alcune delle sue istanze fondamentali: da una parte per una questione di ritmo e di concisione, che riescono a trovare piena espressione in questo genere; dall'altra perché il racconto permette di mantenere vivo il legame con le narrazioni orali. Quest'ultimo, poi, è un elemento imprescindibile per comprendere la letteratura africana che si configura immediatamente con una connotazione che si potrebbe definire filosofica in quanto riflessione sull'uomo e sull'esistenza e veicolo di trasmissione di modelli.
Da un certo punto di vista si può dire che non vi è soluzione di continuità fra il racconto orale, che coniuga in sé la necessità di trasmettere e conservare valori archetipici con un'istanza ludico-evasiva, e quello scritto, in cui ancora ben evidente è la coesione organica fra l'artista e la sua comunità di appartenenza, il suo ruolo comunque militante nella costruzione dell'identità collettiva: si conserva quella funzione performativa , per cui l'atto di raccontare si pone come un gesto affermativo, in grado d'incidere e di indirizzare il contesto culturale, ma anche socio-politico.
In quanto letteratura che si afferma nella sua forma originale proprio in contrasto con una presenza estranea dotata di una volontà assimilatoria a dir poco prepotente, quella dei paesi africani si costituisce necessariamente come affermazione orgogliosa di un'alterità che trova le sue espressioni più note all'interno del vasto movimento della négritude , conosciuto soprattutto nella sua versione francofona, ma ampiamente diffuso anche nei paesi della cosiddetta Palop ( Países Africanos de Língua Oficial Portuguesa ): Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde, São Tomé e Príncipe.
Con la decolonizzazione e la nascita delle nazioni africane indipendenti, la questione identitaria non perde la sua attualità, visti i gravi fenomeni di «colonizzazione interna», che vedono la sostituzione del dominatore bianco con élites locali che ne ricalcano i modi e le strategie, e le forme surrettizie di neocolonialismo a cui le potenze occidentali continuano a sottoporre l'Africa ancora oggi. Va tuttavia affiorando nella letteratura di questi paesi un interesse per la rappresentazione dell'individuo che nella sua unicità è in grado di arricchire il grande mosaico delle identità nazionali con un contributo originale ma mai disforico rispetto al contesto che lo ha prodotto; una tendenza perfettamente sintetizzata dal titolo, tanto pregnante, della raccolta di racconti di Mia Couto: Cada Homem é uma Raça (Ogni uomo è una razza), del 1990.
Alla base della funzione testimoniale delle narrazioni di questi paesi, per cui lo scrittore si fa portatore di quella che Carlos Fuentes definisce una «soggettività collettiva», si può individuare il trauma della colonizzazione che si riflette anche sulla storiografia, invariabilmente per tanti secoli limitata a un'unica versione in cui i vinti sono stati ridotti al silenzio. Ricorrendo a una memoria coriacea che a lungo si è trasmessa soltanto oralmente, i popoli africani hanno a poco a poco articolato le loro versioni della storia, che nascono già consapevolmente contaminate dall'invenzione o quanto meno dalla rielaborazione che ogni narrazione comporta rispetto ai fatti reali: « A História é uma ficção controlada » è la frase della scrittrice portoghese Agustina Bessa Luís che Ungulani ba ka Khosa, una delle voci più interessanti della generazione postcoloniale in Mozambico, mette in epigrafe a Ualalapi , coinvolgendo polemicamente ogni tipo di storia, anche (e forse soprattutto) quella ufficiale, che si arroga il diritto esclusivo della maiuscola:

«In questa luce, la storia appare veramente come delirio, nel senso etimologico del termine di allontanamento dal solco, dalla ragione; e la memoria è realmente usata come invenzione, ancora una volta nel senso etimologico di scoperta».

Questa riscrittura della storia, che s'impone come elemento dinamizzante contro la visione statica e stereotipata che il Primo mondo ha voluto costruire dei paesi colonizzati, presenta una sua peculiare vivacità linguistica frutto di un innesto che si è rivelato estremamente rigoglioso, quello delle lingue indigene sulle lingue del colonizzatore in cui gli scrittori postcoloniali, salvo rare eccezioni, si esprimono. Nel caso della letteratura mozambicana ci si trova davanti a un portoghese ibridato, sfuggente, non del tutto normato e a tratti giocosamente anarchico, o perché frutto di una consapevole deviazione dallo standard, come nel caso di quegli scrittori di discendenza portoghese che hanno una conoscenza approfondita di quella che è per loro la lingua madre, o perché la mancanza di una totale confidenza con una lingua appresa sui banchi di scuola e talora sentita addirittura come la lingua del nemico - è il caso degli scrittori le cui radici africane sono più antiche - dà luogo a involontarie creazioni linguistiche che veicolano un immaginario estremamente originale, giungendo ad arricchire con nuovi contributi la lingua europea d'origine.
Si assiste così, in ambito lusofono, alla nascita di veri e propri novos portugueses , come potremmo definire, sul modello della più nota espressione new englishes coniata da Salman Rushdie, queste lingue che sbocciano dal terreno africano a partire dal seme comune del portoghese europeo. In questo modo è possibile individuare nella lingua un'area comune fra madrepatria ed ex-colonie che circoscrive lo spazio di un incontro (o, spesso, di uno scontro) che non sarebbe altrettanto realizzabile se tutti gli scrittori postcoloniali con lingua madre non europea decidessero in massa che la propria cultura può essere espressa soltanto nella loro lingua d'origine: si delinea così «la possibilità e la necessità di sovvertire, dall'interno, la lingua degli antichi colonizzatori, trasformandola [...]. La lingua diviene, dunque, il nuovo terreno di lotta per una libertà che resta, tuttavia, da conquistare».  

 

II. Il racconto mozambicano ai tempi del colonialismo

Nel contesto già estremamente recente delle letterature postcoloniali africane, la letteratura mozambicana è una delle più giovani e ancora più giovane è la sua narrativa.
Fino alla seconda guerra mondiale non è infatti possibile individuare un corpus di testi abbastanza allargato e complesso da far sì che si possa parlare di un'istituzione letteraria consolidata, con le sue case editrici, i suoi premi, la sua critica, il suo pubblico di lettori.
Le caratteristiche specifiche dell' Estado Novo , che governò il Portogallo e le sue colonie dal 1926 al 1974, si dimostrarono particolarmente nefaste per la costituzione e lo sviluppo di letterature autoctone autonome nei territori africani: il regime dittatoriale, con la sua censura capillare e sistematica sia nella metropoli che nelle aree periferiche del tanto decantato Impero, impediva il libero fluire delle idee, diversamente da quanto accadde all'interno degli imperi inglese e francese.
Pires Laranjeira, che da oltre trent'anni si dedica allo studio delle letterature africane d'espressione portoghese, individua un primo macroperiodo (di incubazione ) che giunge fino alla fine della seconda guerra mondiale, a sua volta suddiviso in due fasi: una cosiddetta d' incipienza , dall'inizio dell'occupazione portoghese (1498) fino al 1924, anno che precede la pubblicazione di O livro da dor di João Albasini; e un secondo periodo di preludio , che copre gli anni dalla pubblicazione di quest'opera fino al 1945.

È fra il '45 e il '63 che la letteratura mozambicana conquista progressivamente una certa autonomia, prendendo a poco a poco le distanze da quella produzione di palese matrice colonialista scritta per lo più da viaggiatori o coloni portoghesi in un'ottica prevalentemente mirata a stupire il lettore con narrazioni esotiche e folcloristiche e che ha, oggi, un interesse esclusivamente documentario.
In questo arco di tempo si formano a Lourenço Marques, odierna Maputo, una serie di associazioni culturali che riuniscono rispettivamente - e separano, considerato che la società mozambicana è la più segregazionista fra gli stati dell'Africa colonizzata dai portoghesi - i neri ( Centro de Negrófilos ), i mulatti ( Associação dos Africanos , di carattere più popolare, aperta a tutti), i bianchi nati in Mozambico ( Associação dos Naturais ) e gli originari di Goa, in India ( Instituto Goano e Associação dos Operários Indianos ).
Anche nella metropoli questi sono anni di formazione decisiva per quegli intellettuali che guideranno la vita politica e culturale negli anni delle guerre di liberazione, che porteranno all'indipendenza dei territori coloniali e costituiranno il principale elemento corrosivo del regime di Salazar e di Marcello Caetano: la Rivoluzione dei Garofani (25 aprile 1974) fu, in effetti, guidata proprio da quei giovani capitani che seppero dar voce al malcontento diffuso tra i soldati davanti a una guerra ormai insostenibile sul piano interno e nel contesto internazionale. Nel luglio del '44 era stata fondata a Lisbona la CEI ( Casa dos Estudantes do Império ), punto di ritrovo fondamentale per gli studenti originari delle colonie e fucina di elaborazione delle principali ideologie anticolonialiste. È un periodo particolarmente intenso per la formazione di una coscienza di gruppo fra gli umanisti africani, profondamente influenzati dalle poetiche del Neorealismo europeo e nordamericano e, soprattutto a partire dai primi anni '50, della Négritude.
Uno dei primi nomi che emergono nella narrativa mozambicana è quello di João Dias (1926-1949), la cui raccolta Godido e outros Contos venne pubblicata postuma proprio dalla CEI, nel 1952: in Indivíduo preto si stigmatizza ironicamente la lentezza stolida delle gerarchie imperiali che occultano spesso discriminazioni razziste molto gravi. La componente polemica tende evidentemente a prendere il sopravvento sulle istanze di ordine estetico e le considerazioni ideologiche occupano gran parte del racconto, seppur deviate, con un espediente che produce un effetto sarcastico, nel discorso indiretto libero che esprime il pensiero del signor Meireles, responsabile della scelta del nuovo capo di sezione delle ferrovie locali (bianco o nero?):

«Na rua, compõe o macadame uma dúzia de negros com regadores de alcatrão e troncos semi-nus em suas camisas rotas. Talvez alguns, a maioria, se sinta feliz nessa insuficiência de vida: trabalho de besta e arroz. A tragédia do homem só nasce da consciência de se bastar e querer ir além, de ver na felicidade o começo da infelicidade. Os negros porém, deviam ser todos dóceis, activos como máquinas, e com a inteligência necessária apenas a satisfação dos desejos dos brancos. Os que assim não são persistem só para complicar as coisas».

I rapporti fra bianchi e neri sono il punto focale anche in Zampungana di Virgílio de Lemos (1929), ma da un punto di vista completamente diverso che evidenzia come capitasse spesso che i figli dei coloni portoghesi, per lo più di estrazione sociale piuttosto bassa, condividessero, soprattutto nell'epoca dell'infanzia ancora incolume dai pregiudizi, gli stessi spazi e le stesse esperienze in un territorio che si andava definendo all'insegna del meticciato culturale; per quanto separatista, la società mozambicana non raggiunse gli estremi dell' apartheid del vicino Sudafrica:

«Naquela altura nunca dei pelas diferenças que existiam entre nós. Eu era pardacento, com um cabelo louro e encaracolado; minha mãe muito magra de olhos rasgados em amêndoa, cabelo muito liso e um tom de pele igual à umbila da mesa onde habitualmente trabalho; o Benjamin era negro, mas não tanto como a sua mãe e o nosso moleque António que eram pretos de verdade, tão pretos como o "Zampungana".
Para mim as pessoas valiam unicamente pela sua bontade e pela maneira como me falavam ou se dirigiam a minha mãe».

Storie di donne che trasmettono la loro malinconia alle canzoni che cantano e alle storie che raccontanto si trovano anche nei brevi racconti del più noto poeta mozambicano, José Craveirinha (1922), la cui tendenza alla narrativizzazione trapela anche dalla sua opera poetica, a partire da uno dei suoi titoli più noti, Karingana ua Karingana , che è la formula in cui di solito cominciano i racconti popolari, equivalente al nostro «C'era una volta...».
Nel mondo africano, la facoltà di raccontare storie è una sorta di carisma che si distribuisce imprevedibilmente attraverso le diverse caste sociali: come la Negra Rosa protagonista del racconto omonimo di Ruy Guerra che ci viene presentata attraverso un narratore mimetico che ricalca il portoghese elementare e paratattico che la vecchia serva, con una memoria così lunga e tante storie da raccontare, doveva parlare: ridondante e formulaico, come le storie che la balia inventava per i bambini e che l'autore rievoca con evidente rimpianto.

 

 

III. Gli anni della militanza: indipendenza e nascita di una nazione

Ma è con l'inizio della guerra di liberazione contro il colonialismo portoghese (1964) che comincia, non a caso, un periodo di grande sviluppo della letteratura nazionale, all'insegna della militanza politica e della tematizzazione della rivoluzione. La cosiddetta letteratura di guerriglia (detta anche di ghetto ) affina una serie di strategie testuali per dissimulare la sua polemica contro l'imperialismo portoghese: bersagli preferiti diventano l'America del nord e l' apartheid ; si difendono la nazionalizzazione e una nuova fruizione delle zone liberate, si raccontano l'esilio e la diaspora. L'incitazione alla rivolta collettiva viene spesso mascherata dietro l'insofferenza individuale, pseudo-esistenzialista, si rivestono i testi con copertine devianti rispetto ai contenuti, con strategie simili a quelle messe in atto, negli stessi anni, dagli scrittori portoghesi d'opposizione, per eludere la censura salazarista. La guerra di liberazione è a quest'epoca un argomento imprescindibile e diventa molto difficile implicarlo senza creare opere eccessivamente panfletarie, in cui l'istanza estetica non venga completamente soggiogata dall'urgenza militante.
Tuttavia la storia della narrativa mozambicana non subisce una battuta d'arresto: è proprio nell'anno in cui comincia la guerra contro il Portogallo che viene pubblicata l'opera che sancisce la definitiva emancipazione della scrittura letteraria nazionale dalla dilagante preponderanza della poesia: si tratta di Nós Matámos o Cão Tinhoso di Luís Bernardo Honwana, una raccolta di racconti di cui fa parte anche As mãos dos pretos che Nelson Saúte ha scelto come titolo dell'antologia del racconto mozambicano da lui curata, definendolo come forse «il più bel racconto che è stato scritto da sempre nella letteratura mozambicana». Il giovane narratore vuole assolutamente scoprire come mai le palme delle mani dei neri sono più chiare del resto del corpo e raccoglie così una serie di storielle e credenze che dipingono un affresco dei pregiudizi e delle discriminazioni che vigevano nel Mozambico colonialista: il suo professore gli spiega che le palme dei neri sono più chiare perché fino a pochi secoli prima i loro nonni camminavano con le mani appoggiate al suolo, «come animali della foresta», cosicché il sole aveva reso scuro tutto il resto del corpo eccetto quelle; il prete, a catechismo, gli spiega che i neri hanno le mani così chiare perché se ne vanno sempre in giro a pregare, di nascosto però; Dona Dores, paziente, afferma che ovviamente le hanno così per non sporcare il cibo che preparano per i loro padroni, ma il signor Antunes, che porta la Coca Cola al villaggio ogni volta che le riserve finiscono, dice che tutto quello che hanno raccontato al ragazzo non sono altro che fandonie e che le ragioni di questo mistero sono molto ma molto più antiche: quando «Dio, Gesù Cristo Nostro Signore, la Vergine Maria e San Pietro» si riunirono in cielo con molti altri santi e anime di morti decisero di fare i neri: presero dell'argilla e riempirono degli stampi fatti apposta per poi infilarli nei forni celesti ma, siccome non c'era spazio sufficiente e loro andavano di fretta, li appesero ai camini e con tutto quel fumo quegli uomini vennero fuori «neri come il carbone». E le mani? «E secondo te come facevano a tenersi stretti mentre l'argilla cuoceva?», conclude il signor Antunes rivolgendosi al ragazzo e scatenando l'ilarità generale. Ma una volta che questi se ne va, il signor Frias chiama da parte il giovane e con grande serietà gli spiega che tutto quello che sa lui è che il Signore, una volta fatti gli uomini, li spedì tutti a farsi un bagno in un lago celeste: i neri, visto che furono fatti all'alba, arrivarono che l'acqua era freddissima e riuscirono a lavarsi solo le palme delle mani e le piante dei piedi. Ma il ragazzino non è convinto e comincia a consultare dei libri: i neri hanno le mani così perché hanno passato tutto il tempo piegati a raccogliere cotone bianco in Virginia e chissà dove, in giro per il mondo. Dona Estefânia non è d'accordo: l'unico motivo per cui i neri hanno le mani così è che se le sono lavate troppo. Il ragazzino conclude che l'unica ad aver ragione, in tutto quel parapiglia, dev'essere sua madre: Dio aveva fatto i neri perché non poteva farne a meno, ma si pentì in fretta perché subito gli altri uomini se n'erano approfittati e se li erano portati a casa come servi. Dio però, che non poteva più tornare indietro perché ormai tutti si erano abituati a vederli così neri, decise allora di fargli almeno le palme delle mani bianche, per dimostrare che «quello che gli uomini fanno, è fatto da mani uguali, mani di persone che se avessero giudizio saprebbero che prima di essere qualsiasi altra cosa sono uomini. Dev'essere stato dopo aver pensato così che Egli fece in modo che le mani dei neri fossero uguali a quelle degli uomini che rendono grazie a Dio perché non sono neri». La spiegazione sconvolge il narratore:

«Quando fugi para o quintal, para jogar à bola, ia a pensar que nunca tinha visto uma pessoa a chorar tanto sem que ninguém lhe tivesse batido».

La narrativa mozambicana prosegue la sua ascesa: nel 1966 esce quello che è considerato il primo romanzo mozambicano, Portagem di Orlando Mendes, il dramma di un meticcio in una società razzista, e nel 1971 vengono pubblicati i tre numeri della rivista «Caliban».
A un altro dei maggiori poeti mozambicani, Heliodoro Baptista (1944), si deve, agli inizi degli anni '70, la trasposizione in racconti scritti in portoghese di un prezioso patrimonio di leggende orali che riportano alle origini precoloniali e a una letteratura completamente avulsa dal contatto col colonizzatore bianco. L'istanza conservativa di questi miti, in cui la realtà quotidiana pare incontrarsi naturalmente con il magico, secondo modalità che nel lettore occidentale risvegliano reminiscenze della più nota letteratura sudamericana, si collega a un tipo di letteratura che è anche un «atto di sopravvivenza» contro una concezione della cultura che tende a estromettere tutto ciò che c'è stato prima dell'arrivo dei bianchi e che non si è espresso nella loro lingua.

La proclamazione dell'indipendenza nazionale (25 giugno 1975) inaugura la fase cosiddetta del consolidamento , nettamente diversa dalle precedenti: le strutture del potere, della società, dell'economia e della cultura si trasformano radicalmente e questa metamorfosi si riflette indubbiamente anche nel percorso delle letterature. Questo periodo può, a sua volta, essere suddiviso in due momenti: uno estremamente rivoluzionario e militante - tra il 1975 e l'85, in cui si rafforza lo «stalinismo ideologico ed estetico», si celebrano gli eroi della rivoluzione, si esortano gli animi contro gli aggressori esterni e interni. La guerra continua ad avere un impatto decisivo sulla letteratura: dalla guerra di liberazione contro il colonialismo si passa, dopo pochissimi anni, alla guerra civile fomentata dalla Renamo ( Resistência Nacional Moçambicana ) contro il governo della Frelimo ( Frente de Libertação Nacional) , partito leader della guerra anticolonialista. Questo conflitto interno costituisce un enorme trauma collettivo le cui ferite sono ancora aperte:

«O relativo silêncio actual poderá reflectir o facto de que é ainda muito doloroso o confronto com as implicações do conflito. Também pode ser devido ao facto de a literatura ter dificuldade especial em lidar com algumas das mais horrorosas experiências que o homem teve de suportar. Por agora, estes acontecimentos terríveis estão nas mentes das suas vítimas».

Vi è poi una seconda fase che può essere definita di superamento dello stigma coloniale , con le sue implicazioni ideologiche ancora ben patenti, verso la definizione di una vera e propria «postcolonialità estetica», in cui si può distinguere una netta reazione antizdanovista e anticomunista, l'ansia di un democratismo di matrice borghese che si riflette, a livello estetico, in un frammentarismo di forme estetiche che individuano un'area d'intersezione con la letteratura postmoderna (da cui tuttavia il postcoloniale prende consapevolmente le distanze e tiene a distinguersi), all'insegna di una tendenza alla contaminazione e al meticciato culturale che, per molti di questi autori, si prospetta come un'istanza densa di radici etnico-biografiche.
Contro tutte le reticenze e gli scetticismi si va affermando a poco a poco una letteratura nazionale autonoma che conosce il suo culmine nella «decade prodigiosa» degli anni '80. È nel 1982, infatti, che nasce l'AEMO ( Associação de Escritores Moçambicanos ) e nel 1984 comincia la pubblicazione della rivista «Charrua» che esce in otto numeri, curata da una generazione di « novíssimos » fra cui emergono Ungulani ba ka Khosa, Hélder Muteia, Pedro Chissano e Juvenal Bucuane: nuove prospettive per la letteratura impegnata si aprono dando luogo a esiti fino ad allora impensabili nell'ambito dell'istituzione letteraria mozambicana.
L'implicazione socio-politica è ancora molto viva in questi autori: fra i temi ricorrenti si affaccia il contrasto tra città e campagna, tipico di una prima fase nell'evoluzione delle letterature postcoloniali in cui le due realtà assurgono a significati metaforici. In Liberdade... la città presenta tutti gli attributi di una prigione con le sue strade enormi e trafficate, la mancanza di reali contatti, la solitudine, l'individualismo, quella città dove si vuole prospettare come efficienza una burocrazia dai tratti kafkiani che si chiude a cerchio attorno al «povero contadino» Mikas Dunga, (pseudonimo che l'autore, Pedro Chissano (1956), utilizza spesso nelle sue storie) fino a condurlo a un'inspiegabile eliminazione a bordo di un aereo con destinazione ignota mentre lui piange gridando: «Non sono improduttivo». La burocrazia ottusa della nuova nazione mozambicana viene stigmatizzata con grande ironia anche in A Nona Pata da Aranha di Leite de Vasconcelos (1944-1997), figura ormai mitica nell'ambito della cultura mozambicana, dove si distinse soprattutto come cronista e implacabile coscienza critica del periodo postcolonialista: il piccolo Papaíto ha trovato un ragno a nove zampe e la scoperta getta l'intera comunità nel caos; davanti all'insetto il professore di scienze nega categoricamente che un ragno possa avere nove zampe e caccia il bambino dall'aula dicendogli che è proibito portarvi degli animali; il giornalista Juvenal si fa soffiare l'occasione di uno scoop da sotto il naso ignorando che un ragno con nove zampe è in effetti una cosa più unica che rara; il padre, appena viene a conoscenza dell'esistenza del ragno, si affretta ad accompagnare Papaíto dagli organi incaricati di registrare l'evento. Comincia così l'odissea da un ufficio all'altro, fintanto che il padre viene richiamato dai membri del Gruppo Dinamizzatore per la confusione che ha creato. Papaíto viene a sua volta rimproverato dal padre. A questo punto il ragazzino decide di porre fine alla questione schiacciando il ragno davanti ai genitori e agli ospiti curiosi e rapaci che hanno invaso la casa. Lo vediamo nella scena finale con un vecchio barbone suo amico che lo interroga sull'accaduto:

- Aconteceu como planeaste?
- Sim.
- E o teu pai?
- Combinámos que se eu encontrar outra aranha com nove patas não dizemos a ninguém.
- Hum, então ele desconfia?
O Papaíto riu-se.
- Eu acho que ele sabe e está satisfeito.
O velho passou-lhe o frasco.
- Fiz como disseste, dei-lhe moscas vivas.
O Papaíto levantou o frasco para a luz.
Contou as patas da aranha.
Eram nove.

È del 1986 l'uscita del libro di racconti Vozes Anoitecidas che inaugura la parabola di Mia Couto come prosatore, che ben presto si distingue come il fautore principale di una vera e propria rivoluzione stilistico-espressiva nell'ambito della letteratura mozambicana provocando accese polemiche e discussioni animate. Il fulcro del dibattito converge sulla questione della libera creatività della parola, sulla rappresentazione di temi scottanti, veri e propri tabù, quali la convivenza delle razze e il meticciato delle culture.

 IV. Fari nella nebbia. Scrivere nel Mozambico degli anni '90

Nell'ottobre del 1992, con la firma degli accordi di pace a Roma, comincia il periodo della cosiddetta apertura politica del regime che, secondo quanto afferma Nelson Saúte, si traduce fra l'altro in una crisi morale e di valori sempre più intensa caratterizzando una fase da lui definita di cinzentismo - da cinzento , grigio - che, in un contesto come quello africano, in cui la coesione fra l'artista e la comunità è estrema, influenza inevitabilmente la letteratura. Il giovane critico mozambicano delinea una situazione drammatica, di involuzione e individua negli anni '90 un'ondata di riflusso caratterizzata da una drastica riduzione degli spazi espressivi di valore negli organi di comunicazione.
La visione negativa della contemporaneità si racconta, nella prefazione di Saúte, attraverso i toni intensi di chi partecipa in prima persona, come narratore, poeta e critico, della situazione culturale del paese, nonché di chi, in quanto cittadino mozambicano, assiste allo sfacelo politico ed economico in cui il suo paese sta sprofondando e partecipa di un clima in cui le tensioni sociali sono sempre più forti e in cui le condizioni per chi esercita la letteratura con grande consapevolezza etica e intenti militanti si fanno sempre più critiche.
Da un punto di vista periferico rispetto al contesto mozambicano vengono in mente considerazioni non altrettanto pessimistiche, impressioni spurie di chi si sta avvicinando soltanto ora al mondo delle letterature postcoloniali dell'«Africa che scrive in portoghese» e riscontra piuttosto un'estrema vitalità di queste letterature legata anche alla risonanza che esse stanno cominciando ad avere in ambito internazionale. Si sta certamente aprendo un nuovo capitolo in queste aree, all'insegna di una riscrittura degli «antichi miti, sogni, realtà e utopie», che vengono trasposti in ambito letterario e si confondono e si mescolano con i contributi delle religioni importate dai colonialisti nonché con gli aspetti più disparati della nuova società tecnologica che ha invaso anche il Terzo mondo saltando le fasi intermedie e imponendo una nuova sensibilità e un nuovo gusto che non si affermano però sradicando il passato, bensì trasformandolo, creando improbabili convivenze e stridenti contiguità. Si continuano a pubblicare racconti di numerosi autori tra cui emergono Lília Momplé (1935), Raul Bernardo Honwana (1941), Albino Magaia (1947), Aldino Muianga (1950), Marcelo Panguana (1951), Fernando Manuel (1953), José Pastor (1954-1993), Júlio Bicá (1961), Orlando Muhlanga (1963-1996) e Nelson Saúte (1967). Ma sono soprattutto tre le personalità letterarie che, già apparse sullo scenario fibrillante degli anni '80, nel decennio successivo intensificano la loro attività e vedono la loro popolarità crescere fino a raggiungere, almeno in un caso, le dimensioni di un fenomeno internazionale di straordinaria levatura: si tratta di Paulina Chiziane, di Ungulani ba ka Khosa e, naturalmente, di Mia Couto, la cui opera continua a essere diffusa con grande entusiasmo in Italia.
Paulina Chiziane (1955) è stata la prima donna mozambicana a pubblicare nel 1990 un romanzo, Balada de Amor ao Vento a cui ne sono seguiti altri due, Ventos do Apocalipse (1991) e O Sétimo Juramento (2000), che uscirà a breve in traduzione italiana presso l'editrice La Nuova Frontiera di Roma. La sua scrittura si costruisce sull'eccezionale capacità di intessere intrecci in cui trovano posto considerazioni filosofiche, descrizioni di riti magici e misteriosi che si svolgono nelle remote campagne mozambicane dove l'autrice è nata e ha trascorso la sua infanzia, uniti alla rappresentazione impietosa della nuova classe dirigente della nazione che ha preso a modello le stesse strategie tiranniche e di sfruttamento dell'antico colonizzatore. Figlia di genitori non assimilados - suo padre rifiutò sempre l'integrazione culturale, come strategia di resistenza passiva - Paulina apprese il portoghese soltanto in età scolare e per lei esso rimase sempre una lingua esterna ai rapporti della quotidianità. Questa sorta di disagio in relazione alla lingua della sua scrittura non le impedisce - anzi verosimilmente le permette - di sviluppare una poetica estremamente personale, un immaginario inedito per il lettore occidentale raccontato attraverso un impasto linguistico che vede incastonarsi, su un'ossatura portoghese, termini ed espressioni mutuate dalle lingue mozambicane, in particolare il chope, parlato in famiglia, e il ronga, lingua più diffusa a Maputo.
Uno sguardo particolare è dedicato alla condizione femminile affrontata nella sua complessità da una prospettiva spregiudicata che parte dall'esperienza personale e di altre donne, per articolarsi in posizioni originali che sembrano prescindere dalle teorie del femminismo occidentale classico e, al tempo stesso, scatenano le ire dei benpensanti in un paese dove trattare certi temi è ancora altamente rischioso. In As Cicatrizes do Amor un gruppo di donne e uomini si raccolgono sulla sabbia davanti all'oceano nella brezza dell'estate mozambicana. Qualcuno sfoglia un giornale e proferisce ad alta voce il suo sdegno davanti all'ennesimo caso di neonati abbandonati dalla madre; ognuno dice la sua, distribuendo colpe a destra e a manca, fintanto che, aiutata dall'alcool che la rende più audace, prende la parola Maria - nella cornice del racconto si inserisce così un narratore di secondo grado - che confessa la sua storia di dolore: l'abbandono da parte dell'uomo amato con una bambina appena nata, la volontà di non arrendersi, il viaggio disperato fino al Sudafrica per ritrovare l'uomo, gli incontri pericolosi, la malattia della neonata e la volontà ostinata di sbarazzarsene. Maria si confessa in una sorta di danza liberatoria descritta da quello che sembra un coro interno all'azione che introduce nella narrazione un elemento ritmico dalla concretezza visiva e rievoca il carattere antifonico della poesia orale africana in cui un solista e un coro si alternano dando vita vere e proprie performance :

«Retalhos da vida, revolteando as entranhas de quem as escuta. Atenção o que aqui se conta, está a acontecer agora!, em qualquer parte do mundo. E tu bailas, Maria, o streep-tease das batucadas da tua amargura, que a embriaguez revolveu-te a língua. Desatas o lenço e a capulana. Da blusa já levantada, espreitam os seios surrados de mil beijos, desfraldas as cortinas dos teus segredos, és indecente, Maria!»

Gli astanti sono ipnotizzati dalle parole e dal dolore della donna che vuole denudarsi, confessare il segreto vergognoso di aver pensato, in un momento di follia, di liberarsi di quella figlia che adesso è lì con lei e ascolta. Il coro riprende la parola:

«Porque escondes os olhos, Maria? Talvez te envergonhes dos teus actos, talvez te arrependas do teu relato, ou mesmo te revoltas contra a sociedade que te conduziu aos caminhos da tragédia. As cicatrizes do amor rasgaram as crostas e jorraram um líquido sangue que escorre pelas curvas das tuas pálpebras».

Attraverso uno sguardo candido e spietato la Chiziane scombussola i parametri convenzionali di giudizio e al tempo stesso coinvolge il lettore nell'atmosfera surreale, eppure verissima, delle sue storie.
Ungulani ba ka Khosa (1957), con il suo libro d'esordio, Ualalapi , s'inserisce pienamente nella linea di riscrittura della storia ufficiale delle letterature postcoloniali, ricostruendo, attraverso una serie di episodi che possono essere letti anche come racconti autonomi, la saga di Ngungunhane, imperatore del regno mozambicano di Gaza, celebre per la strenua resistenza che oppose ai colonizzatori portoghesi alla fine dell'Ottocento. Quest'opera si pone in realtà come una demistificazione delle versioni correnti sulle vicende di questo personaggio: sia quella coloniale, che ha voluto dipingerlo come un vigliacco traditore; sia quella rivoluzionaria, che invece si è limitata a incensarlo acriticamente come un eroe senza macchia: viene ribadita ancora una volta l'idea fondamentale che ogni racconto è parziale e soggettivo.
La contrapposizione fra la civiltà tradizionale e quella moderna rappresenta una tematica a dir poco ossessiva per questo autore le cui storie - spesso microstorie, perché ogni minimo personaggio, ogni comparsa quasi, è inseguito almeno per qualche riga in cui se ne traccia brevemente il profilo - dietro la complessità tipica della letteratura scritta, ripropongono la struttura del racconto meraviglioso orale a schema discendente in cui il protagonista viene punito per avere infranto le norme della sua comunità.
L'importanza della tradizione orale viene spesso tematizzata e sullo scenario delle sue storie vediamo spesso comparire narratori infradiegetici, nella cornice tipicamente africana delle narrazioni attorno al fuoco, che si esprimono in un linguaggio fitto di proverbi, ideofoni, immagini mutuate dall'universo dei fenomeni naturali e dal mondo animale, che delineano un paesaggio promiscuo in cui non esistono barriere fra reale e magico, fra vivi e morti, fra possibile e immaginario. Questo recupero della sostanza originaria della propria terra, quella cosiddetta mozambicanità su cui tanto discutono i critici, è ben evidente anche nella scelta dell'autore di pubblicare con il suo nome tsonga preferendolo a quello «portoghesizzato» di Francisco Esau Cossa.
La visione delle cose che trapela dalla sua scrittura è quella di un universo caotico - vorremmo quasi definirlo gaddiano - in cui è impossibile individuare una successione lineare degli eventi perché ogni filo si dirama in infiniti altri che s'intrecciano e si complicano in un gomitolo pieno di nodi e sfilacciature. Lungi dal lasciarsi spaventare da questa mancanza d'ordine e di consequenzialità, Khosa vi si abbandona con sentimento carnevalesco, dando luogo a una scrittura barocca, immaginosa, gonfia di vita. Lo vediamo in piena azione, in Morte inesperada , che appartiene alla raccolta dal titolo particolarmente calzante di Orgia dos Loucos (Orgia di pazzi): attorno alla morte di uno sventurato personaggio, Simbine, che mentre aspetta l'ascensore decide inspiegabilmente d'infilare la testa nel vetro rotto della porta, per vederlo arrivare, e non riesce più a estrarla finendo praticamente decapitato dal moderno arnese, fioriscono le infinite vicende di tutti i partecipanti alla scena: il portiere che non era presente sul luogo di lavoro nel momento dell'incidente perché si trovava in un bar vicino a bere l'ennesima birra visto che, per una stregoneria di una vecchia zia, era condannato a rimanere solo per tutta la vita ed era ormai alcolizzato; la madre della vittima che scende le scale ignara per scoprire l'accaduto e di cui si rievocano gli scontri col figlio che rifiutava di studiare adducendo antichi proverbi sulle tradizioni africane; la vecchia che aveva donato al portiere la giacca che questi si stava per dimenticare nel bar e che era appartenuta al marito defunto che in punto di morte l'aveva maledetta intimandole di punirla ogni qualvolta un uomo le si fosse avvicinato. E così via in un caleidoscopio di vivaci comparse che si muovono nell'universo del racconto come tanti puntini colorati, sottratti per sempre all'anonimato.
Mia Couto (1955), il più noto e il più studiato fra gli autori mozambicani della nuova generazione, entra giovanissimo a contatto con i gruppi studenteschi che appoggiano l'azione dei guerriglieri della Frelimo e inizia una precoce carriera giornalistica abbandonando momentaneamente gli studi di medicina per dedicarsi totalmente alla causa rivoluzionaria. Pochi anni dopo l'indipendenza del paese si riavvicina all'ambiente universitario dove entra in contatto con gente della sua generazione, o poco più giovane, che corrisponde alla sua esigenza di rapportarsi in maniera nuova alla sua terra e alle persone:

«E a nova geração está muito menos marcada, muito mais livre, capaz de se relacionar com os indivíduos sem olhar muito à raça».

Il suo primo libro, Raíz de Orvalho , pubblicato nel 1983, è una raccolta poetica polemicamente diversa dallo stile della poesia panfletaria che dominava incontrastata nel panorama letterario del paese: un tentativo di fare poesia d'avanguardia senza fare poesia politica. Lo stesso atteggiamento Mia Couto lo adotta in relazione alle testimonianze di guerra che raccoglie numerosissime, semplicemente parlando con le persone, ascoltando le loro storie e cominciando a trasformarle in racconti che vogliono conservare «la grazia e la scioltezza» del parlato: il suo lavoro sulla lingua riproduce nel suo paese le ricerche stilistiche realizzate da autori come il brasiliano João Guimarães Rosa e l'angolano Luandino Vieira, giungendo a creare un peculiare «sapore mozambicano». Per questo la sua scrittura è considerata un apporto vivificante per tutta la lingua portoghese.
Anche la sua poetica, come in quella di Khosa, è caratterizzata da una dialettica con il patrimonio orale, imprescindibile, a detta dell'autore stesso, per entrare in contatto con l'anima più autentica della terra da cui scrive - un'esigenza avvertita come particolarmente urgente per un mozambicano di recente acquisizione come lui, figlio di portoghesi trasferitisi in Mozambico pochissimi anni prima della sua nascita. Questa relazione è giocata però su differenti piani, non ultimo quello della parodia che lascia irrisolta la questione, ad esempio, del primato fra oralità e scrittura, fra tradizione e modernità. Il suo sguardo attento di cronista della contemporaneità si limita a registrare e a raccontare attingendo da tutto il patrimonio che ha a disposizione: le leggende, le credenze, gli episodi a cui gli capita di assistere per strada, le storie che viene a sapere, la drammatica attualità della guerra - tema ricorrente a più livelli in tutta la sua opera -, le ingiustizie sociali; un'inesauribile capacità creativa e rielaborativa fa di lui uno dei più apprezzati «narratori di storie» del mondo lusografo, e non solo.
È grazie ad autori come lui, come la Chiziane e Khosa, che la letteratura mozambicana ha saputo liberarsi dall'esclusiva adesione al tragico che era la sua cifra più evidente, pur continuando a testimoniare il male, l'ingiustizia, i soprusi, la povertà, la morte e la guerra.
Questa istanza testimoniale ancora tanto viva non distrae Mia Couto dall'individuo, sempre osservato nella sua unicità, ora poetica, ora divertita, ora mostruosa. Raccontare è una missione destinata a riuscire comunque male perché la natura umana è sempre più vasta del dicibile e sfugge a ogni rappresentazione, come sembrano dirci queste parole dell'incipit di O apocalipse privado do tio Geguê :

«História de um homem é sempre mal contada. Porque a pessoa é, em todo o tempo, ainda nascente. Ninguém segue uma única vida, todos se multiplicam em diversos e transmutáveis homens.
Agora, quando desembrulho minhas lembranças eu aprendo meus muitos idiomas. Nem assim me entendo. Porque enquanto me descubro, eu mesmo me anoiteço, fosse haver coisas só visíveis em plena cegueira».

Fra le righe di questa dichiarazione d'impotenza, la chiave di lettura di tutta una letteratura che ha saputo fare dell'aporia la sua essenza e la sua forza.


Silvia Cavalieri


(Tratto da Bollettino '900 - Giugno-Dicembre 2002, n° 1-2)

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