PROSSIMITÀ DELLE DISTANZE


– INTERRUZIONI SPAZIO-TEMPORALI ED ETEROGENEIZZAZIONI
CULTURALI NEI RACCONTI DI SCRITTORI E SCRITTRICI IMMIGRATE IN ITALIA –

 

 

Roberto Derobertis
(Dottorando all'Università di Bari)

 

 

Tutto il mondo é paese non vuoi dire che tutto è uguale: vuoi dire che tutti siamo spaesati rispetto a qualcosa e a qualcuno.
Carlo Ginzburg, Occhiacci di legno

 

Se riusciamo ad abitare la distanza, siamo vicini e lontani.

Pier Aldo Rovatti. Abitare la distanza

 

 

 

 

Presenze, differenze, insorgenze

 

Sulla copertina del numero di novembre del mensile «Giudizio universale» campeggia una foto che ritrae un uomo e una donna nei pressi di una soglia. Entrambi hanno i volti segnati dal tempo, sorridono sdentati e quasi si somigliano: hanno certamente in comune la mescolanza plurisecolare che è avvenuta tra la riva nord e quella sud del Mediterraneo. Questa prossimità coesiste pero con un'articolazione di distanze. Nell'editoriale di commento alla foto Michele Serra scrive:

 

Siamo in Sicilia. Provincia di Caltanissetta. L' imam Mohammed e la vicina di casa Giuseppa sono quasi identici, quasi la stessa persona, quasi lo stesso popolo. […] La distanza tra il prete musulmano Mohammed e la massaia cristiana Giuseppa è molto, molto più breve della distanza che li separa entrambi da un emiro di Dubai o da un immobiliarista padano. […]E la forte simpatia che destano i due protagonisti è la simpatia che desta l'anacronismo, quando riesce a forare la coltre conformista di immagini abbienti, eleganti, ricche che oramai tappezzano il nostro sguardo fino a occluderlo. I poveri esistono e sono la maggioranza nel Pianeta1.

 

La foto traduce una morfologia delle differenze che rimanda ad una molteplicità di appartenenze trasversali: di razza, di classe, ma anche di genere, di tempo e di luogo. L'anacronismo evocato da Serra dice di una temporalità costruita sulle sovrapposizioni e sulle interferenze e di una complessa modulazione geo-temporale della modernità: una trama di fili che si annodano e si sciolgono incessantemente tra continenti e soggettività diverse, in un presente esposto alla scabrosa insorgenza delle estraneità.

Questa insorgenza deborda ovunque nelle nostre quotidianità, interrogando così anche la letteratura. In un capitolo del suo ultimo libro, a metà tra reportage, cronaca e racconto, Aldo Nove descrive «La zona equatoriale di Milano», il luogo in cui si concentrano negozi. ristoranti e soprattutto call-center gestiti da immigrati:

 

È difficile spiegare cosa sia davvero un call-center per stranieri. È un luogo che ha una forza struggente, elegiaca. Lo guardi da fuori, ne osservi le vetrine vuote [...] e i cartelli che promettono di comunicare a cifre convenienti con tutto il pianeta. Ma allora, pensi, c'é qualcosa di strano, che non funziona! Noi stiamo già comunicando con tutto il pianeta, sempre! C'é la Rete. [...] Non è affatto così. Il call-center per stranieri é la prova di una difficoltà, di uno scarto2.

 

Qui lo "scarto" è la traccia di una differenza. di una deviazione e di uno spostamento. La soglia su cui s'incrociano Mohammed e Giuseppa e il call-center nella "zona equatoriale" di Milano sono i luoghi del rimescolamento dei rapporti tra spazio e tempo nella "globalizzazione". Infatti, come ha suggerito Arjun Appadurai, non possiamo semplicemente immaginare «che il globale stia allo spazio come il moderno sta al tempo» poiché «per molte società la modernità è un altrove» e “il globale è un'onda temporale che dev'essere incrociata nel loro presente3.” Non senza polemica Appadurai aggiunge che “la globalizzazione ha ridotto le distanze tra le élite, […] spezzato molti legami tra lavoro e vita familiare, oscurato i confini tra località temporanee e affetti nazionali immaginati”4. Per dirla con Gayatri Spivak “il globo è nei nostri computer” e “nessuno vive 1ì. Ci consente di pensare che possiamo mirare a controllarlo”; ma “il pianeta rientra nelle specie di alterità, che appartengono a un altro sistema” che “abitiamo, a prestito”5. L'idea di “planetarietà”. anziché di “globalizzazione”, pone con forza l'accento sul carattere relazionale del nostro abitare i tempi e i luoghi. Questo snodo lessicale spinge a chiederci quale sia il rapporto che le raffigurazioni letterarie intrecciano con questo abitare.

Le raffigurazioni che interpellerò s'inscrivono nella definizione, largamente condivisa, di "scritture migranti". Sono testi scritti da autori e autrici che provengono da altre geografie e culture, da altre lingue materne: scrittori e scrittrici migranti. L'aggettivo "migrante" ci dice della condizione dell'essere "tra", del posizionamento precario di chi è emigrato da un luogo verso un altrove; una condizione che con Homi Bhabha possiamo chiamare di «in-betweenness»6. Il participio presente, in fondo, è il modo verbale dell'irrequietezza, del divenire. Nel titolo di questo intervento ho scelto l'aggettivo "immigrato", ma non contrapposto a "migrante", semmai affiancato. Immigrato esprime una rottura, esplicita quelle «perturbanti presenze»7 spesso rimosse, porta con sé il marchio dell'esclusione sociale. Entrambi irrompono con forza nella “classificazione discorsiva”8 che chiamiamo "letteratura italiana" e che qui si fa "dis-cursus", cioè etimologicamente “il correre qua e là, le mosse, i “passi”, gli “intrighi”»9. Come ha scritto Pier Aldo Rovatti «ogni parola che diciamo si trascina una viscosità retorica»10, e da questa consapevolezza intendo muovermi criticamente verso quelle aperture che inducono a pensare emigrante, immigrante e migrante come i termini fondamentali della condizione contemporanea. Racconti italiani di Julio Monteiro Martins, e Il burattinaio. E altre storie extra-italiane di Laila Wadia sono raccolte di racconti che fin dal titolo recano un'ambivalenza irriverente.

I racconti "italiani" di uno scrittore migrante brasiliano, le altre storie extra-italiane di una scrittrice migrante proveniente dall'India, dove l'extra- indica il fuori dell'esclusione degli immigrati extracomunitari e insieme conferisce grado superlativo all'aggettivo "italiane", tracciano linee discontinue tra la prossimità e la distanza, tra l'appartenenza e l'estraneità. In questi testi siamo in presenza di un'incessante oscillazione tra un andare incerto e un ritorno impossibile: uno spostamento dentro una frattura, in cui si stratificano nuovi significati e si moltiplicano gli sguardi. In questa frattura si depositano anche le incrostazioni di un movimento migratorio non sempre disinvolto, non sempre gaudente: poiché spesso esso decreta la condizione simultanea di un'impossibile definitiva localizzazione e di un impossibile movimento nomadico dell'essere sempre altrove11. È singolare che la raffigurazione letteraria di questi molteplici significati, sguardi e incrostazioni si sia spesso concretizzata, come in questo caso, nella forma del racconto breve. Una forma che sin dall'inizio del '900, con la rottura antinaturalistica operata da Pirandello, per il quale “un momento culminante, un 'eccesso'” della novella si contrapponevano alla gradualità romanzesca'12, ha attraversato sommessamente e ininterrottamente tutto il secolo. Negli appunti del 1938 de Il mestiere di vivere, Cesare Pavese sottolineava come

 

il condensamento di una novella non consiste nel ficcare le notizie una dentro l'altra [...] ma nel tono che presenta lo sgorgo dei fatti come qualcosa che avviene pensatamente, a una ragionevole distanza, ed è pieno dei sottintesi suggeriti appunto dalla distanza! [...] Il proprio del raccontare […] é un ripensare avvenimenti più o meno illuminati, non un lasciarli avvenire sotto una stessa insistente luce diffusa13.

 

Una condensazione pensosa avvalorata da una distanza, che nel caso dei racconti migranti è inevitabilmente compromessa con una prossimità inquieta, con il confronto ravvicinato con una lingua straniera, con i suoi toni e i suoi ritmi. E se una relazione esiste tra la tradizione del Novecento italiano e i racconti migranti, non esiste però alcuna filiazione, non può sussistere alcuna continuità identitaria con il canone. Forse siamo in presenza di una genealogia transnazionale dei generi letterari: una genealogia che si costituisce per rotture e "discontinuità"14.

 

 

Una proliferazione di voci incrociate

 

La pianura gialla non finiva mai. Dal finestrino del treno barcollante, rumoroso come una fabbrica di pentole, Alfio guardava mezzo inebetito quell'oceano di paglia, senza un'isola, senza l'albero di un'altra nave. E poi, ancora più inebetito, cercava di decifrare quei nomi mitologici, cinti da un'aura d'eroismo romantico: Odessa. Sebastopol, Krasnodar, Crimea, Mar d'Azov... [...] Il belato di un caprettino bianco, che una donna grassa seduta dietro di lui portava sul grembo come un neonato, interruppe quel viaggio tolstoiano e lo riportò al vagone vacillante. "Cristo si è fermato a Vienna", pensò, e sorrise, guardando quei confini vuoti dell'Impero Austro-Ungarico, dove non era mai arrivata una battuta di valzer. Guardò quel silenzio selvaggio e orizzontale, quel mare giallo sempre più stinto dal tramonto grigio-violaceo di quel territorio senza fine15.

 

In questo racconto, significativamente intitolato Hic sunt leones, Monteiro Martins ci restituisce lo sguardo occidentocentrico ed etnocentrico dell'italiano Alfio in viaggio verso l'Ucraina. Nell'immaginazione di Alfio il limine tra civiltà e barbarie è un'eclatante modernità interrotta: il «treno barcollante, rumoroso» dai vagoni vacillanti, il silenzio «selvaggio» di un confine non valicato da una «battuta di valzer», il «belato di un caprettino bianco», la topografia cristallizzata in un immaginario romantico. Il pensiero di un Cristo che si è fermato a Vienna mette a nudo l'idea che ci sia sempre un Sud più a sud, più disperato. Il serrato e stereotipato confronto tra una presunta modernità compiuta e una presupposta "primitività" è una traccia presente in tutta la scrittura di Monteiro Martins, in cui la modernità è delineata nella sua paradossale incompiutezza, lungo i suoi sentieri interrotti. Come nel racconto I pangolini. Qui siamo in un futuro non troppo lontano, in cui il protagonista di origini africane Candido esperisce, attraverso una tecnologia virtuale chiamata "Intermind", la nostalgia per un passato fatto di realtà tangibili, di lotte anticoloniali e di morti non nascoste in celle di alluminio e teflon16. Candido vuole «conoscere quello che 'non conviene', che non corrisponde alla visione 'mite' delle cose che loro vorrebbero condivisa da tutti»17. Nostalgia e volontà che vengono censurati dal suo interlocutore: «Sei immaturo, tutto qui. Credi di aver scoperto un paradiso nascosto, l'Eldorado. Invece sei solo stregato dal racconto del signor Kosa, da quel mondo perduto di zebre al galoppo, spiriti maligni della giungla, diarree e formiche giganti»18.

In questo continuo anacronismo in cui ci porta la scrittura di Monteiro Martins incontriamo anche il racconto in prima persona di Magellano, nel momento in cui decide di lasciare il Portogallo per la Spagna:

 

andrò dagli stranieri, chiederò al loro re, che spero sia più intelligente del nostro, che si degni di ricevermi a corte, e gli presenterò il mio grande progetto, che senza dubbio porterà tanta gloria e fortuna al suo paese. Lascerò per sempre alle mie spalle questa madre impazzita che vuole rubare il mio futuro. Forse così lascerò dietro di me anche me stesso... [...] Vedremo cosa sarà rimasto di me da poter usare nella mia nuova vita, quando metterò tutta la mia energia al servizio di un altro popolo, che d'ora in poi sarà il mio popolo, la cui storia e già la mia storia […] E se é vero che ho lasciato me stesso dietro di me, questo non mi spaventa, perché so che il mondo é una sfera e perciò è proprio allontanandomi dal punto di partenza che potrò fare il giro completo che va da me a me stesso. Amico mio, la circumnavigazione é l'unica via che mi rimane19.

 

Siamo di fronte a un personaggio che progetta il proprio futuro temendo di perdere la propria identità. Il potente Magellano, in un significativo quanto fugace momento di indebolimento, è colto anch'egli dallo struggimento della migrazione. Una figura deviata dalle tradizionali coordinate storiche, che irrompe nel nostro presente, interrompendo il tempo lineare della nostra modernità.

In questi Racconti italiani i temi della migrazione non sono quasi mai espliciti: la migrazione si presenta piuttosto come un sottofondo metaforico costante, come figura allegorica della condizione umana:

 

siamo tutti dei nomadi, anime sradicate che si inventano un passato verosimile, o almeno soddisfacente, e poi s'incontrano per strada, o negli aeroporti, ai corsi d'aggiornamento o a quelli di meditazione [...], e durante questi incontri fortuiti [...] devono essere sempre preparati, sempre giovani, o ringiovaniti, con qualche progetto carino che serve a stirare il futuro20.

 

Oppure è resa con grotteschi effetti di straniamento:

 

Ci sono delle cose strane, molto strane, che entrano dentro di noi e poi... poi non c'é più niente da fare. [...] Per esempio ieri sera alla televisione ho visto un gommone pieno di albanesi che correva sul mare [...]. E quegli uomini, donne, bambini, salutavano verso l'elicottero che li filmava e sorridevano senza nessuna paura, sembravano sulla giostra del Luna Park...  […] E allora mi é venuta quest'idea: ci saranno dei gommoni clandestini per portarci via dall'Italia. Partendo dalla Sardegna forse, o da Lampedusa verso... verso l'Australia!21

 

Lo straniamento è una cifra dominante di questi racconti, nei quali una folla eterogenea di personaggi vive una condizione di disagio, di incompiuta adesione alla realtà: camorristi pigri, infermieri rancorosi e dominati da un’“invertebrata mitologia”, colonizzatori umani su Marte con la nostalgia per un'umanità mai conosciuta, malinconici migranti sulla via del rimpatrio, disoccupati troppo qualificati per trovare un lavoro. Le loro esistenze sono un persistente passeggiare sulla soglia: persino la morte, davvero onnipresente nella raccolta, è un infaticabile transito attraverso il corpo e il tempo: «Da tempo ormai faccio parte del mondo della memoria, e in questo modo prima o poi scoppierò e sparirò senza lasciare né ombre né orme22».

In quest'«adunata di mondi e di forme letterarie»23 la morte come passaggio è forse il contrappunto all'epigrafe di Plutarco che apre il libro: «Anche nascere è giungere / in un paese straniero».

Di letterali attraversamenti migratori sono invece pervase le narrazioni de II burattinaio. E altre storie extra-italiane dell'autrice di origine indiana Laila Wadia. Nell'incipit del racconto Il matrimonio di Ravi leggiamo:

 

"Mamma! Mamma! Vieni presto! C'é Ravi al telefono!" Spingo la porta del soggiorno e corro giù per il corridoio stretto che porta alla cucina che si trova sul retro, separato dal resto della casa da una piccola terrazza ed una porta a rete, per tenere donne e scarafaggi fuori dalla vista degli uomini. Vengo avvolta in una nuvola bassa, calda e fragrante di olio d'arachidi, peperoncini verdi, coriandolo fresco appena tritato, verdure assortite tagliate a dischetti e farina di ceci. Mani sui fianchi, mi fermo per un istante a riprendere fiato. “Mamma, corri, c'é Ravi al telefono dall'Italia”24.

 

Qui l'annuncio della voce narrante di una telefonata da parte di un familiare dall'Italia apre e chiude un frammento letterario in cui emergono le tensioni spaziali, affettive e culturali generate dal varco migratorio. Nell'aprirsi della comunicazione con un altrove si spalanca il mondo dell'origine: una località fatta di percorsi domestici, abitudini, odori. Con Appadurai mi chiedo “qual è la natura della località come esperienza vissuta in un mondo globalizzato o deterritorializzato?”25 Nel prosieguo del racconto di Wadia, dopo aver scoperto che il migrante indiano Ravi sposerà una giovane italiana con la quale sta per recarsi in India, scorgiamo una possibile risposta all’''enigma":

 

Noi facciamo parte della folta classe media dell'India odierna: quelli che hanno abbracciato volentieri la tecnologia giapponese e che non sembrano mai abbastanza sazi di telefilm americani, ma che non si sentono a loro agio in maglietta e jeans e preferiscono di gran lunga i sapori tradizionali della loro infanzia a quelli imbottigliati e liofilizzati che spopolano nei supermercati26.

 

Per dirla ancora con Appadurai, siamo in presenza di un “etnorama”: cioè un panorama variegato di soggettività in movimento che inevitabilmente influenzano le politiche delle e fra le nazioni. creando delle forme di stabilità continuamente sottoposte alla pressione esercitata dalle mobilità27; sia mobilità delle persone, sia mobilità delle merci, anche merci culturali. Una pressione esercitata ovunque e in maniera spesso conflittuale.

Queste considerazioni percorrono i racconti di Wadia, in cui è dominante una raffigurazione dell'Italia non solo come luogo di approdo degli arrivanti, bensì come luogo di transito e d'incontro di migranti delle più disparate provenienze:

 

L'odore della casa riflette l'unicità delle sue abitanti: un sottofondo di raki e rhum viene sovrastato dall'aroma di té alla menta e paprika. Si sentono anche i limoni della Sicilia e le mele dell'Alto Adige che non mancano mai nella ciotola di maiolica verde e blu Iznik. È un piccolo concentrato di universo, uno spazio minuscolo dove si abbracciano tre continenti: l'Asia, l'America e l'Europa28.

 

Questo “spazio minuscolo” del racconto Love potion è abitato dalla cubana Fernanda e dalla turca Salima, studentesse universitarie in Italia.

 

Tuttavia la letteratura eccede i percorsi della sociologia e Wadia si sottrae al destino di “informante nativa”29  sia della migrazione indiana in Europa, sia della migrazione tout court, inoltrandosi sul terreno scivoloso delle relazioni transfrontaliere tra il Friuli e la Croazia. Nel racconto Ovi freschi, il maresciallo dei Carabinieri Radìn di Trieste, uomo buono da stereotipo televisivo, è alle prese con il fermo di alcune donne istriane che varcano la frontiera per vendere in Italia i pochi prodotti che coltivano nell'orto di casa, oltre a uova e liquori di produzione propria. Durante questa operazione Radin si ritrova ad interrogare Germana, una donna che conosceva la storia della famiglia Radin: profughi mai tornati in Istria dopo l'esilio. Questo incontro spalanca uno sguardo su stratificazioni storiche, affetti familiari, immaginari nazionali, appartenenze interrotte che le migrazioni odierne riattivano:

 

"Sono Pietro Radin, figlio di Antonio, il macellaio. Proprio quello che aveva la bottega al numero 7". "Davvero? Ma non mi dica!" dice Germana, portando le mani al viso e coprendosi la bocca. "Ho sentito parlare della sua famiglia. I miei si sono sempre chiesti che fine aveste fatto. Non siete più tornati in paese dopo che siete andati via". Il maresciallo scuote la testa tristemente. "No, sai, solo l'idea di trovare tutto cambiato, gente diversa, la nostra casa abitata da chissà chi..."30.

 

"Cacofonie microcosmiche": tre lingue raggrumate lungo una frontiera

 

Lungo la stessa frontiera attraversata dai personaggi di Ovi freschi si muove Something like Oxygene/Qualcosa come l'ossigeno della scrittrice di origine croata Kenka Lekovich:

 

mia mamma sciava che più s'ciava no se poi, mio papà ungano-finnico, praticamente eschimese, ma è come dire albanese; e io in Balcania dovevo nascere, in quella polveriera del Cristo, del Pope, dell'Insciallah. In Balcania a farmi menar l'Arkan per l'Aia e questo Arkan chi lo conosce, l'hai visto tu, perché in India forse tutti si chiamano Gandhi e in Siberia Stalin? E a Bonn tutti Hitler si chiamano, eh? Cosa vuoi dire che il sangue no xe acqua, e te credo, xe acquavite, in Balcania il sangue la gente se lo beve, se lo tracanna, il suo e quello del prossimo. Acquavite e, se te va ben, tocio per polenta, se ti è andata bene e sei nato istriano il sangue ti è sugo per polenta, W l'Istria, W il Duce, che co ierimo soto de lui ierimo signori31.

 

Il testo ha il tono e il ritmo di un'invettiva: alla maniera di un corsivo pasoliniano, ma iniettato di adrenalina. Nomi lontani tra loro nel tempo vengono compressi in poche frasi producendo uno stridore, l'azzeramento di distanze semantiche. storiche e geografiche che generano spaesamenti imbarazzanti: i ripetuti giochi di parole fanno cortocircuitare i luoghi comuni della politica internazionale, del razzismo, degli stereotipi culturali. Gli ironici attraversamenti storici della frontiera tra Italia ed ex Jugoslavia sono attraversamenti linguistici, impastati di un'“eteroglossia”32 che si alimenta di scarti dell'identità. Scarti come avanzi riposti nel dimenticatoio della storia, ma anche (e nuovamente) come deviazioni, spostamenti improvvisi in direzioni inattese o semplicemente interdette «dall'ordine del discorso»33 delle retoriche nazionali:

 

Perché, no xe bel? No xe bel tossa? I sciavi. Dostojevski. Tolstoj, non è bello nascere slavi. Tomizza non si batteva forse il petto - alla slava - per averci l'anima slava pure lui? Cuore di tricolore e casin slavo intei budei. Sul "Piccolo" i gà dito che a Tomizza co ghe brulicava el stomigo el ghe bruligava in sciavo: Trst. Krs. Krsko e Krk34.

 

Il gioco linguistico si spinge fin dentro la parte più intima e minuta di una lingua, quelle particelle elementari che la rendono identificabile: i suoni, i fonemi. La scrittura provocatoria evoca Tomizza come il simbolo di due identità incompiute: quella slava e quella italiana.

La scrittura letteraria di Lekovich eccede il ruolo delle frontiere come luoghi di separazione tra interno ed esterno delle nazioni, nonchè luoghi di controllo degli attraversamenti. Essa raffigura piuttosto la frontiera come luogo in cui agiscono forme di condivisione o di conflitto translocali, disfacimenti e rifacimenti di culture. James Clifford ha parlato di «zona di contatto», sottolineando che «quando le frontiere conquistano una paradossale centralità, affiorano [...] mappe e storie complesse, i margini, i limiti e le linee di comunicazione»35. In questa zona di contatto emergono, nel racconto di Lekovich, tre lingue: il dialetto friulano, cioè la lingua locale della regione di arrivo; l'italiano standard, cioè la lingua nazionale del luogo di arrivo ma anche la lingua minoritaria del luogo di partenza: l'inglese, ovvero la lingua della comunicazione transnazionale. In questi complessi siti locali in cui si aggrovigliano inestricabilmente cultura, identità, sradicamento, si rendono visibili le tensioni prodotte su scala planetaria dalla condizione di dislocazione permanente che contraddistingue il presente. Le parole sfuggono così all'egemonia dei significanti cristallizzati e la letteratura diviene turbamento del senso:

 

Picia mia, devi starci nelle cose se le vuoi rivoluzionare, nella cacca devi farti scarabeo, nella melma sbocciarti fior di loto. Se vuoi la pace fatti pace, se la convivenza è un concetto che ti piace, conviviti tu per prima. Negoziati, fatti una Dayton in vena e mettile d'accordo, se sei brava, mettile d'accordo le tue cacofonie microcosmiche. Che tutto il resto é salotto36.

 

Le frontiere attraversano la corporeità, passano letteralmente addosso, lungo linee di frattura che del corpo segnano tutto: la carne. la storia, il linguaggio, le deiezioni, la convivenza.

 

Prossimità delle distanze: i testi e la critica nei "paesaggi" contemporanei

 

I racconti che abbiamo percorso dicono di una "traduzione culturale" della forma breve da alcune tradizioni straniere fin dentro la letteratura italiana contemporanea. Questa traduzione comporta una contaminazione biunivoca, implica ingressi incontrollati, lateralità. interruzioni e riattivazioni. Come ha sostenuto recentemente Robert Young37, la traduzione culturale, in quanto aspetto centrale delle culture migranti, opererà sempre di più come elemento di trasformazione della cultura di arrivo dei migranti, producendo un contraccolpo trasformativo anche sulle culture di origine.

La traduzione, le altre metafore del movimento che abbiamo fin qui evocato e l'impossibile radice identitaria dei racconti migranti rintracciabile nel canone letterario codificato, rimandano al prezioso concetto di "rizoma" elaborato da Gilles Deleuze e Félix Guattari: «uno stelo sotterraneo» che «ha forme molto diverse, dalla sua estensione superficiale ramificata in tutti i sensi fino alle sue concrezioni in bulbi e tuberi»38. Ciò che appare cruciale è che «qualsiasi punto di un rizoma può essere connesso a qualsiasi altro punto [...], È molto differente dall'albero o dalla radice che fissano un punto, un ordine»39. Nello stesso contesto Deleuze e Guattari sostengono che «scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare, perfino delle contrade a venire"40. Alla lettura spaziale di Deleuze e Guattari possiamo aggiungere, con Clifford, che ci troviamo di fronte a «giustapposizioni storiche e politiche, e non più soltanto estetiche»41: giustapposizioni che si riuniscono nei racconti migranti, nei quali le «contrade a venire» si manifestano negli interstizi del presente, in allegorie della quotidianità.

Negli spazi e nelle giustapposizioni storiche che si articolano nel presente, la scrittura letteraria e la critica incrociano gli snodi decisivi del "politico", cioè del complesso degli aspetti della vita sociale pubblica. Recentemente Slavoj Zizek ha sostenuto che la decisione dell'Unione Europea di istituire una polizia di frontiera per fermare i flussi migratori, rappresenti «la verità della globalizzazione»42. E nei giorni delle "rivolte" nelle banlieues parigine, Etienne Balibar ha parlato di «meticizzazione dei conflitti», ovvero l'affermarsi in Europa di un sostanziale apartheid, basato sull'incremento sia dei confini esterni all'Unione sia di quelli interni alle città: più militarizzazione all'esterno delle frontiere, più barriere razziste nelle metropoli43.

Gli studi culturali transnazionali e la letteratura comparata, in stretta connessione, costituiscono una cassetta di attrezzi preziosi per l'elaborazione di controstrategie critiche che permettano di affrontare questo moltiplicarsi rizomatico e frastagliato delle frontiere. Nel suo saggio Il rovescio del gioco (1992). Armando Gnisci ha scritto che «il comparatista gioca sulla distanza» allontanando il vicino e avvicinando il lontano44. Spivak, d'altro canto, riconosce alla letteratura comparata la capacità di oltrepassare i limiti tra regioni e nazioni e di destabilizzare le nazioni con l'introduzione di categorie quali l’“italofonia”, come nel nostro specifico caso. Al contempo la studiosa indiana-americana propone una "nuova mossa", un ulteriore spostamento in avanti del tradizionale impegno critico della letteratura comparata: praticare un'intensa interdisciplinarità accostandosi alla lingua dell'altro, e in particolare alle lingue subalterne degli emigranti dai Sud, come "mezzi culturali attivi»45. In questo senso, lo studio delle scritture migranti è solo un primo passo critico ed epistemologico: e l'incontro con le scrittrici e gli scrittori migranti come figure della migrazione metropolitana non può e non deve obliterare i milioni di abitanti delle aree metropolitane ma anche rurali dell'emisfero Sud. Scrive Spivak: «Dobbiamo cercare di aprire, dall'interno, il colonialismo della letteratura comparata nazionale europea basata sulla lingua […] contaminando così la storia e l'antropologia con l''altro' come produttore di sapere»46.

Seguire questa mossa critica ci invita a raccogliere quel suggerimento di Calvino secondo il quale «non si va avanti se non rimettendo in gioco qualcosa che già si credeva punto d'arrivo, acquisto consolidato. certezza»47. Questo andare oltre le certezze e l'approssimazione delle scritture migranti non riducono meccanicamente le distanze. È una pratica ambivalente con la quale, avendo preso la parola in quanto critici, esercitiamo una forma di assimilazione, mettiamo «in movimento una retorica dell'alterità»48. Dunque, in questo tentativo di approssimazione critica, la "prossimità delle distanze" del titolo del mio intervento resta un paradosso, nel quale i due termini sono simultaneamente tensivi e co-estensivi tra loro. Nel paradosso inscriverei anche il titolo di questo convegno: L'italiano come lingua di migrazione. E domando: quando l'italiano si fa concretamente lingua delle migrazioni transnazionali di quale "italiano" stiamo parlando? L'italiano di chi? Come ci dice Spivak «il testo verbale è geloso della sua cifra linguistica, ma intollerante nei confronti dell'identità nazionale»49. Vorrei concludere con un'ultima citazione dal racconto di Kenka Lekovich, la cui cifra linguistica è proprio la resistenza alle appartenenze nazionali:

 

Mai un asilo poetico, un rifugio etimologico per chi scappa dalle parole ripulite dal loro senso. "Uomo". "Donna". "Bambino". "Democrazia". "Sinistra". "Umanitario".

Mai un aiuto umanitario alle idee, ai sentimenti, agli stati d'animo, una mano alle profuganze ontologiche.

Inutile che ti lamenti, Baby, te l'ho già detto. L'aiuto, l'asilo, il rifugio, il permesso trovateli da sola.

...mai un bombardamento umanistico...

Le bombe all'umanesimo te le devi musicare da sola. Sol-la

...un effetto collaterale linguistico. Ad esempio: distrutto il sostantivo "guerra", demolito l'aggettivo "nazionale", decontaminato il pronome “io”, polverizzato il verbo “uccidere”...50.

 

 

 

____________________________________________

 

Note:

1 – M. SERRA, Denti del Sud, in “Giudizio universale” n°7, novembre 2005.

2 – A. NOVE, Milano non è Milano, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 31-33.

3 – A. APPADURAL, Modernity at Large: Cultural Dimentions of Globalization, Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 1996 (trad. it. di P. Vereni, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi, 2001, p. 24).

4 – Ibidem.

5 – G. CHAKRAVORTY SPIVAK, Death of a Discipline, New York, Columbia University Press, 2003 [(trad. it. di R. Monticelli), a cura di V. Fortunati, Roma, Meltemi, 2003, p. 92].

6 – H. K. BHABHA, The Location of Culture, London-New York, Routledge, 1994 (trad. it. di A. Perri, I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, pp. 11-13).

7 – J. CLIFFORD, The Predicament of Culture. Twentieth-Century Etnography, Literature, and Art, Cambridge (Mass.)-London, 1988 (trad. it. di M. Marchetti, I frutti puri impazziscono, Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p.19).

8 – P. DALLA VIGNA, L’elemento sfuggente, in M. FOUCAULT, Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento (a cura di P. Dalla Vigna), Milano, Mimesis, pp. 7-14, p. 12.

9 – R. BARTHES, Fragments d’un discours amoureux, Paris, Éditions du Seuil, 1977 (trad. it. di R. Guidieri, Frammenti di un discorso amoroso, Torino, Einaudi, 2001, p. 5); per un’analoga interpretazione del “dis-cursus” di Barthes rimando a due volumi di B. BRUNETTI: La figura del padre e la scrittura letteraria. L’identità difficile nel tempo moderno, Roma-Bari, Laterza, 1999, e Il laico imperfetto. Scrittura ed ‘errore’ in Boccaccio, Manzoni, Tozzi, Croce, Gramsci, Bari, B. A. Graphis, 2005.

10 – P. A. ROVATTI,  Abitare la distanza. Per un’etica del linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1994, p. 137.

11 – Cfr. P. A. ROVATTI, op. cit. pp. 23-25.

12 – R. LUPERINI, Il trauma e il caso: appunti sulla tipologia della novella moderna in Italia, in “Moderna”, n°1, gennaio-giugno 2003, pp. 13-22, p. 16.

13 – C. PAVESE,  Il mestiere di vivere. 1935-1950 (a cura di M. Guglielminetti e L. Nay), Torino, Einaudi, 1990, p. 118.

14 – Cfr. M. FOUCAULT, L’Archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969 (trad. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura, Milano, Rizzoli, 1999).

15 – J. MONTEIRO MARTINS, Racconti italiani, Nardò, Besa, 2000, p. 38.

16 – Ibidem, p. 24.

17 – Ibid. p. 26.

18 – Ibid. p. 25

19 – Ibid. pp. 20-21.

20 – Ibid. pp. 136-137.

21 – Ibid. pp. 57-58.

22 – Ibid. p. 140.

23 – A. GNISCI, Posfazione (è meglio parlare dopo), in J. MONTEIRO MARTINS, op. cit. pp. 165-167, p. 166.

24 – L.-A. LAILA WADIA, Il burattinaio. E altre storie extra-italiane, Iserna, Cosmo Ianonne editore, 2004, p. 111.

25 – A. APPADURAI, op. cit., p. 76.

26 – L.-A. LAILA WADIA, op. cit., p. 121.

27 – Cfr. A. APPADURAI, op. cit., p. 53; per un’analisi della relazione tra nazioni, mobilità migratorie e letteratura si veda anche: A. GNISCI, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003, p. 9.

28 – L.-A. LAILA WADIA, op. cit.p. 68.

29 – G. CHAKRAVORTY SPIVAK, A Critique of Postcolonial Reason, Cambridge, (Mass.)-London, Harvard University Press, 1999 [(trad. it. di A. D’Ottavio), a cura di P. Calefato, Critica della ragione postcoloniale. Verso una storia del presente in dissolvenza, Roma, Meltemi, 2004, p. 31].

30 – L.-A. LAILA WADIA, op. cit., p. 85.

31 – K. LEKOVICH, Something like Oxygene/Qualcosa come l’ossigeno, in M. RICHTER MALABOTTA, L. DUGULIN, (a cura di) Sguardi e parole migranti. Trieste, Coordinamento delle Associazioni e delle Comunità degli Immigrati della Provincia di Trieste, 2005, pp. 29-30.

32 – Cfr, V. IVANOV, Heteroglossia, in A. DURANTI, (ed.), Key terms in Language and Culture, London-New York, Blackwell, 2001 (trad. it. di A. Perri e S. Di Loreto, Eteroglossia/Heteroglossia, in A. DURANTI (a c. di), Culture e discorso. Un lessico per le scienze umane, Roma, Meltemi, 2001, pp. 107-109).

33 – Cfr. M. FOUCAULT, L’ordre du discours, Paris, Gallimard, 1971 (trad. it. di A. Fontana, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi, 2004).

34 – K. LEKOVICH, op. cit., p. 29.

35 – J. CLIFFORD, Routes: Travel and Translation in the Late twentieth Century, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1997 (trad. it. di M. Sampaolo, Strade: Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 16.

36 – K. LEKOVICH,  op. cit., p.29.

37 – R. J.C. Young, Fanon and Cultural Translation, testo inedito presentato al convegno “La Traduzione culturale come progetto politico”, Università di Roma “Tre”; 25 novembre 2005 (trad. it. di A. D’Ottavio, Fanon e la traduzione culturale).

38 – G. DELEUZE, F. GUATTARI, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Les Éditions de Minuit, 1980 (trad. it. di G. Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Roma, Cooper &Castelvecchi, 2003, p. 39).

39 – Ibidem.

40 – Ibid., p. 37.

41 – J. CLIFFORD, Routes: Travel and Translation in the Late twentieth Century, op. cit., p. 11.

42 – S. ZIZEK, Distanza di sicurezza. Cronache del mondo rimosso, Roma, Manifestolibri, pp. 109-110.

43 – Cfr. CICCARELLI, Alle frontiere dell’apartheid, in “Il manifesto”, 22 novembre 2005.

44 – A. GNISCI, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, op. cit. p. 15.

45 – G. CHAKRAVORTY SPIVAK, Death of a Discipline, op. cit., pp. 34-35.

46 – Ibid. pp. 36-37.

47 – I. CALVINO, Lo sguardo dell’archeologo, in ID., Saggi. 1945-1985 (a cura di Mario Barenghi), vol. II, Milano, Mondadori, 1995, pp. 324-327, p. 325.

48 – P. A. ROVATTI, op. cit. p. 137.

49 – G. CHAKRAVORTY SPIVAK, Death of a Discipline, op. cit., p. 35.

50 – K. LEKOVICH, op. cit., p.30.

 

____________________________________________

 

( Tratto da L’italiano lingua di migrazione: verso l’affermazione di una cultura transnazionale agli inizi del XXI secolo, Organizzato da Anna Frabetto e Walter Zidaric’, CRINI – Centre de Recherches su les Identités Nationales et l’Interculturalité, Université de Nantes, France, 2007.)