UN POPOLO SENZA MUSICA

 

Nicholas Wroe

 

 

 

 

 

Nel Dicembre del 1998 un comunicato ufficiale è stato pubblicato sul giornale locale della città di Herat, nell’Afganistan Occidentale. Informava che “un certo numero di materiali e strumenti illegali” erano stati raccolti e bruciati in piazza. La lista includeva televisioni, mangianastri, videocassette e migliaia di cassette. Includeva anche “strumenti musicali e accessori”, menzione quest’ultima accompagnata da un monito, una collana di frasi e di atti del Profeta Maometto con cui veniva dichiarato che “a quelli che avessero sentito la musica e le canzoni in questo mondo, nel Giorno del Giudizio sarebbe stato versato piombo fuso dentro le loro orecchie”.

Nonostante questo monito non sia stato riconosciuto come autentico, i Talibani, che hanno guadagnato il controllo dell’Afganistan nel 1994, lo hanno sfruttato per uno dei più grotteschi esperimenti sociali della storia.

L’atto di vandalismo culturale più drammatico da parte dei Talibani è stata l’esplosione delle statue dei Buddha di Bamiyan. Ma l’impatto è stato catastrofico in tutte le espressioni della vita artistica e culturale dell’Afganistan. E’ stata bandita in modo totale e assoluto qualunque rappresentazione visiva delle creature viventi, ciò che significa la fine della TV, del video e del cinema, così come della maggior parte delle pitture e delle fotografie. E’ stata bandita anche la musica, ovvero tutti gli strumenti musicali nonché l’ascolto dei suoni da loro emessi. Alcuni canti non accompagnati sono ancora permessi, ma soltanto quelli della poesia tradizionale, i panegirici dei principi e dei martiri Talibani.

Il Dott. John Baily, un esperto di etno-musicologia al Goldsmith College, a Londra, conduce ricerche di campo nell’Afganistan e nei paesi vicini da 30 anni. “L’Afganistan ha un’attività musicale straordinariamente ricca”, dice lui, “che svolge un ruolo particolarmente importante nei riti di passaggio: durante la nascita,  nella circoncisione (dei ragazzi), e soprattutto nei matrimoni”.

Inoltre, afferma, la musica ha svolto un ruolo fondamentale per mantenere insieme i diversi gruppi etnici. I due gruppi etnici principali sono i Pashtun, “veri Afgani”, che dominano il Sud e condividono la loro cultura con gli oratori Pashto del Nord del Pakistan, e i Tagik, che parlano Persiano. “Una delle poche aree in cui un’identità pan-afghana è emersa”, dice Baily, “è nella musica popolare, che è un ibrido dello stile musicale Pashtun con una buona parte di lingua Tagik. La musica, in particolare quella che era trasmessa dalle radio, ha unito questi due gruppi”.

La radio non è arrivata all’Afganistan fino agli anni ‘40 del Novecento e le trasmissioni musicali sono divenute subito un’importante forza modernizzante. Essere un musicista professionale era spesso una posizione ereditaria per i membri delle famiglie delle caste inferiori e ciò portava con sé uno stigma sociale. La radio ha permesso ai musicisti dei ceti medi di suonare, perché in questo modo non erano visti. Ahmad Zahir, il figlio dello ex-Primo Ministro, era una star negli anni ‘70.

La radio ha anche permesso alle donne di diventare musiciste professionali. La repressione delle donne da parte dei Talibani ha avuto un serio impatto negativo sull’arte musicale. Le performances delle donne costituivano la base della vita musicale dell’Afganistan. Nonostante suonassero strumenti diversi da quelli degli uomini in differenti avvenimenti e occasioni, “era quella la musica che i bambini sentivano mentre crescevano”, dice Baily. “Non era mai eseguita in pubblico o nelle radio, ma suonava in continuazione nelle case del paese”.

Le radici della musica possono essere trovate nei campi dei rifugiati nel Pakistan, che ha ricevuto più di 3 milioni di afgani dopo l’invasione della Russia nel 1978 e la guerra successiva contro il regime comunista portata avanti dai mujaheddin. L’unico rito di passaggio afgano significativo non accompagnato dalla musica era il funerale. Proprio perché tanta gente lì era in lutto per qualcuno della famiglia che era stato ucciso durante la guerra, era improprio suonare musica in quei campi. Il veto informale era già una precoce indicazione del potere sull’opinione e sul comportamento degli afgani esercitata da certi mullah.

L’armata sovietica ha lasciato l’Afganistan nel 1989 e nel 1992 i mujaheddin hanno preso il potere sotto la leadership del Presidente Rabbani. Il suo governo ha portato una serie di misure repressive. I musicisti dovevano avere una licenza, che proibiva canzoni d’amore, musica da ballo e amplificazioni, e permetteva solo canzoni religiose o di  lode ai mujaheddin. Mentre, in teoria, la musica era permessa nei matrimoni, nella pratica l’Ufficio di Propagazione della Virtù e di Prevenzione del Vizio, la nuova polizia di Stato, confiscava gli strumenti, che venivano distrutti o restituiti qualche giorno dopo il pagamento di una multa.

Mentre gli spettacoli pubblici erano praticamente finiti, i padroni potevano contrattare musicisti per suonare nelle loro case, e la radio – operativa soltanto per due ore al giorno – trasmetteva occasionalmente musica, così come lo sporadico servizio televisivo, ma senza alcuna immagine di musicisti.

Tuttavia, nel 1994, a seguito della presa di Kabul da parte dei Talibani, persino queste scarse presentazioni musicali sono state vietate. L’immagine di pali coperti di nastri di video e di cassette ha preso allora uno status da icona. I musicisti sono stati mandati in prigione per non meno di 40 giorni per aver suonato musica. Due degli antichi professori di John Baily sono stati trattenuti ad una festa di matrimonio dalla polizia religiosa e sono stati picchiati con i loro stessi strumenti. Sono stati imprigionati fino al momento in cui i loro amici hanno pagato per la loro liberazione.

Baily afferma che è probabile che molte delle idee sulla censura siano arrivate dal vicino Iran a metà degli anni ’80, nonostante la censura non c’entri necessariamente con l’Islam. “Alcune delle più grandi forme di arte vengono da società musulmane – persiana, araba, turca,” spiega lui. “Ma è anche vero che c’è sempre stato un certo disagio riguardo alla musica”.

A suo parere i Talibani devono molto della loro ideologia ai sauditi Wahhabisti. Ma se l’Arabia Saudita non è conosciuta per la sua musica, lì c’è musica nella TV e ci sono concerti e donne cantanti. “Secondo me i Talibani sono estremamente puritani e contro qualsiasi forma di intrattenimento al di fuori della sfera religiosa. La musica è universalmente riconosciuta come qualcosa che può portare all’esperienza trascendentale. A persone che vogliono controllare altre persone da un punto di vista spirituale, non piace la musica”.

Tuttavia, la musica ha trovato la maniera di esistere in Afganistan in modo sotterraneo. Letteralmente. Molte case hanno cantine dove la musica può essere suonata. Performances musicali si svolgono in aree rurali dove i Talibani non sono molto presenti. Ci sono anche videocassette illegali. Un paio di anni fa c’è stato un forte entusiasmo per il film Titanic, il cui tema musicale, “Unrequited love”, era molto cantato dagli afgani.

La preoccupazione di medio termine è su quale sarà il ruolo dell’Alleanza del Nord dopo l’era dei Talibani. Quel gruppo riunisce molte delle persone che hanno contribuito a introdurre la licenza per i musicisti in passato. Ma Baily è fiducioso che a lungo termine la musica Afgana fiorirà nuovamente.

“Senza musica viene sottratto un importante canale di comunicazione, indispensabile tanto in termini di espressione emozionale quanto per unire la gente facendola sentire parte di una comunità. Qualunque cosa venga fuori da questo conflitto, la musica avrà un ruolo interessante. È un indicatore molto sensibile di altri aspetti sociali e culturali”.

 

 

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LA RIAA MOSTRA LA SUA VERA FACCIA

 

Cora Rónai

 

 

 

 

 

Tra gli esseri più spregevoli sulla faccia della Terra sono quei tipi schifosi che si approfittano della miseria altrui per fare un po’ di quattrini: la canaglia che ruba il portafoglio dalla tasca di uno che è appena morto nel mezzo della strada, per esempio, o il mascalzone che saccheggia l’appartamento delle vittime di un terremoto. Oppura la RIAA, la famigerata Recording Industry Association of America che, senza alcun scrupolo, ha provato ad approfittarsi della legislazione antiterrorismo in corso nel Congresso americano per garantirsi, per legge, il diritto di hackeare i nostri computer e cancellare i nostri archivi.

Per chi accompagna l’attuazione di questa abbietta associazione, ciò non è affatto una sorpresa. In tutte le tappe del caso Napster essa ha sempre giocato sporco, sempre alzando la bandiera dei diritti d’autore per passare da onesta paladina della classe artistica.

Ma per quelli che credevano che gli utenti di MP3 fossero – come la RIAA ha sempre tenuto a precisare – una banda di pirati senza alcuna nozione del bene o del male, l’ultima manovra di Hilary Rosen e compagnia è stata un shock. Persino David Coursey, l’AnchorDesk della ZDNet (che non mi è mai stato simpatico) è rimasto colpito. Nonostante sia pro-establishment, pro-Microsoft, anti-Napster e anti-PGP: “Nel momento in cui la nostra nazione ha dovuto prendere serie decisioni riguardo alla reastrizione di libertà civili nel combattimento contro il male, la RIAA avrebbe dovuto avere il buon senso di stare zitta”, ha scritto lui Giovedì scorso. “Il Napster e simili, anche se fuorilegge, non sono nella lista delle priorità. Usare questo drammatico cambiamento come un’occasione per inserire paragrafi egoisti sulla legge antiterrorismo è proprio incredibile”.

Sorry, baby, ma è incredibile solo per te, che hai sempre creduto nelle buone intenzioni non solo della RIAA, ma di tutta la matassa legale che si arma, negli USA, contro gli utenti e contro Internet, in nome delle “cause giuste” (come la lotta contro la pedofilia o la difesa dei diritti d’autore) ma che servono, in verità, per interessi totalmente nascosti.

Questo è ciò che accade quando non si usa la testa per ragionare e si crede che tutto ciò che è legale sia OK. Mi spiace, ma non è così. Le leggi di eccezione nelle dittature erano “legali”, l’apartheid era legge negli USA e nel Sudafrica fino a poco tempo fa; e lo stesso Olocausto era solidamente difeso dalla legislazione nazista.

È ovvio che a rivelare le cattive intenzioni della RIAA non è stato David Coursey, bensì Declan McCullagh, della rivista Wired. Lui ha pubblicato la notizia esplosiva nel Lunedì, sulla base di un ammendamento che la RIAA voleva inserire in modo subdolo nell’USA Act. Secondo questo ammendamento, i detentori di diritti d’autore (compresi film e e-book) non potevano nemmeno essere considerati imputabili per i danni eventualmente causati nei computer quando li avessero hackeati, o invasi in qualsiasi altro modo, con lo scopo di “impedire ragionevolmente o prevenire la pirateria elettronica”.

Ditemi se questo non è il massimo della mascalzoneria? Possibilmente ispirati a 007, che aveva un permesso per uccidere (anche se avesse sbagliato il bersaglio e colpito la persona sbagliata) la RIAA, la MPAA ed altre istituzioni deviate avrebbero un permesso legale per invadere le nostre macchine, per cancellare all’interno di esse tutti gli archivi di MP3 e/o altri archivi che per caso non gli piacessero. Se con questo annientassero una tesi di laurea o il bilancio di una ditta, ebbene, cavolo, sarebbe stato soltanto – per usare il gergo del momento – collateral damage. Sai, non si fa un omelette senza rompere le uova...

 

 

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DI NUOVO I BARBARI ALL'ASSALTO DELL'IMPERO

 

Domenico De Masi

 

Quando è avvenuto l'attacco terroristico avevo da poco finito di leggere il libro di Gore Vidal L'età dell'oro. L'autore è uno che di fatti americani se ne intende più di ogni altro e dimostra come gli Stati Uniti siano diventati man mano un Impero. Proprio come l'Impero romano ai tempi di Traiano. Il prezzo dell'Impero è la rivolta dei barbari, degli esclusi. Che, prima o poi, finiscono sempre per sovvertire i rapporti di forza con lo Stato centrale. I fatti di New York sono il primo, vero atto di ribellione all'Impero americano da parte dei barbari. Si tratta di un attentato non contro "la" civiltà (come ha scritto etnocentricamente il "Corriere della Sera") ma contro "una" civiltà. Le civiltà (come le religioni) sono molte e nessuna ha il diritto di ritenersi l'unica. Cosa avverrà da qui in avanti? Avverrà che l'Impero americano, finora gestito secondo regole soft, adotterà una condotta più rigida, più imperialistica, distinguendo in modo manicheo i gregari (buoni) dai ribelli (canaglie). Si riterrà autorizzato a farlo. Noi paesi satelliti lo autorizzeremo a farlo. Poi gli attacchi dei barbari diventeranno più frequenti, più incisivi e, alla fine, prevarranno. Allora l'America diventerà un popolo "antico" come noi oggi siamo rispetto agli Stati Uniti, e altri occuperanno il centro dell'Impero. Questa, da sempre, è la storia dell'umanità e noi non facciamo che ripeterla, sia pure in forme e in luoghi sempre diversi.

 

 

Domenico De Masi è Professore di Sociologia del lavoro all'Università di Roma "La Sapienza"

 

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LA FANTASCIENZA NON ESISTE, QUELL'ASCIUGAMANO ERA VERO

 

Vittorio Marchis

 

 

«Giovanni, cinque anni, ha in mano il telecomando e freneticamente cambia canale. Lo indispone la medesima immagine che gli si ripropone dinanzi, sullo schermo, con minime varianti, ossessivamente commentata da frasi a lui oscure, interrotte da altre, in una lingua sconosciuta. Lo skyline dei grattacieli gli è fin troppo familiare e quasi pensa che sia iniziata una nuova serie di cartoni: troppo noiosa». «Ann impreca contro la società dei telefoni che ancora una volta non riesce a mantenere la linea attiva sul suo cellulare. Eppure ha appena acquistato l'ultimo modello, che sua cugina è riuscita a ottenere con uno sconto favoloso. Un mondo piccolo piccolo, ruota ora freneticamente sullo schermo grigioverdastro. - Per favore attendi - Chiamata trattenuta». «Rudolph ascolta l'ennesimo richiamo di un collega, che gli rimbalza la notizia di un disguido incomprensibile, di un aereo scomparso dal sentiero di volo. Ormai anche ai dirottamenti si può fare l'abitudine. La sicurezza del volo ha una risposta a tutto: il personale è stato addestrato per intervenire nel modo più opportuno in qualsiasi evenienza». «Jodie non riesce più a controllare la console. Il regista deve essere impazzito. La Cnn e tutti gli altri non sanno che cosa dire; per alcuni minuti lo spettacolo ipnotizza anche i tecnici più cinici, come un rattlesnake». «Carmelo sente un chimes, attiva l'exe, apre il browser, legge il mail. Il mouse scorre sul pad, l'arrow punta il link e una nuova window si apre sullo schermo. A seimila chilometri di distanza in real time (in realtà con uno sfasamento di qualche decimo di secondo) arrivano le immagini di un Boeing 767 che si interseca con il parallelepipedo di vetro e cristallo Wtc. Press left button, Record, Rewind, Play. E di nuovo, sempre, in continuazione». «Valerie non ha mai posseduto un cellulare, il suo cercapersone serve solo quando il titolare dell'impresa vuole sfogarsi dei propri dispiaceri con qualcuno. - Qui dentro si soffoca. Io so aprire questi vetri ermetici - pensa a voce alta. - Un asciugamano bianco che sventola lo vedono tutti, anche da lontano. E non servono le batterie». I bit sono "come i granelli della sabbia del mare": una volta appartenevano alla diversità delle montagne, ma ora si confondono nell'indistinta uniformità del deserto. Le spiegazioni razionali, scientifiche, politicamente corrette, che l'intelligenza degli uomini vorrebbe poste sul primo gradino dei valori sociali, non servono a dare ragione alcuna a chi usa la barbarie per far prevalere sul prossimo la propria arroganza. Di ciò che è accaduto si deve avere perenne memoria perché le migliaia di Giovanni, Ann, Rudolph, Jodie, Carmelo e Valerie hanno diritto di continuare a vivere anche se l'undici di settembre del duemilaeuno due gigantesche torri poste sulla dura crosta di un'isola tra l'Hudson e l'East River sono state abbattute da una folle Apocalisse.

 

 


Vittorio Marchis è docente di Meccanica applicata e Storia della tecnica al Politecnico di Torino

 

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STIAMO ATTENTI ALLA PARANÓIA

 

Aldo Carotenuto

 

Al di là dell'orrore e dello sgomento dinanzi all'atto di barbarie compiuto nei confronti degli Usa, sono molte le emozioni che tutti noi proviamo ma, senza dubbio, uno stato di confusione generalizzata governa ora sovrano nei nostri animi e nelle nostre menti. Ci si interroga, certo, per cercare di dipanare l'intricata matassa, ma fare valutazioni obiettive dinanzi a simili atrocità è sempre molto difficile. Che la paura e il panico siano emozioni destabilizzanti, pessime consigliere, lo sappiamo tutti, giacché ognuno di noi ha sperimentato almeno una volta nella vita l'impossibilità di compiere un'analisi corretta e prendere una decisione difficile in un momento "critico". La crisi che oggi tormenta e dilania le coscienze di tutti i popoli degni di essere definiti "umani" e "civili" è una delle più gravi e laceranti che la nostra memoria storica sia in grado di rammentare. Il simbolo della forza e della potenza, l'archetipo dell'invincibilità, è stato colpito al cuore, e né il trascorrere del tempo, né i tentativi di ottenere vendetta e giustizia, potranno mai risanare le profonde ferite che sono state inflitte nel nostro animo. In simili momenti la psiche umana viene esposta a rischi gravissimi, fra cui si insinua serpeggiante quello della paranoia. Dinanzi a un nemico di cui non si conosce l'identità, dinanzi a un pericolo a cui non è possibile attribuire né un nome né un volto, ma di cui si avverte distintamente la minaccia incombente, è possibile scivolare nel baratro della caccia alle streghe e giungere alla convinzione di "essere in guerra" quando, in realtà, non lo siamo affatto. Il rischio di un simile slittamento di piani, di un macroscopico perché affrettato errore di valutazione, sarebbe quello di colpire degli innocenti, lasciando che le nostre gesta vengano guidate da un delirio paranoide piuttosto che da una auspicabile e lucida capacità di analisi.

 

 

 

Aldo Carotenuto è Psicanalista, docente di Psicologia della personalità all'Università di Roma "La Sapienza"

 

 

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UNO SMARRIMENTO CHE CI FA COMUNICARE

 

Peppino Ortoleva

 

 

La prima impressione indimenticabile è stata la voglia di parlare: l'11 settembre, dopo le quattro quattro e mezza italiane, quasi tutti quelli che si incontravano erano pronti ad attaccare discorso, a soffermarsi con gli sconosciuti sui fatti e sulle spiegazioni, a entrare senza chiedere permesso in capannelli e dire la loro. La stessa cosa l'avevamo sperimentata poche altre volte. Alla morte di Diana Spencer per esempio (camminavo in un quartiere alto-borghese di Torino, con il giornale in mano e i titoli sull'incidente, e una signora di quelle che mai si lascerebbero rivolgere la parola mi disse affannata: «E' morta, sa, è morta», e via a commentare); e stando alla testimonianza di Siegfried Kracauer, alla morte di Kennedy. Diceva lo studioso tedesco, nel suo ultimo libro, che l'attentato al presidente aveva prodotto due fatti nuovi: i capannelli a New York, come non li aveva mai visti prima; e la voglia diffusa di raccontare, di collegare in qualche modo la propria storia a quella del morto. I capannelli si sono formati di nuovo, questa volta, credo in tutto il mondo occidentale; ma questa volta non si sentivano tanto racconti quanto descrizioni («Ha visto, come è entrato nella torre? e il crollo, sembrava un castello di sabbia»), quasi che tutti volessero prima di ogni altra cosa dichiararsi testimoni dell'evento. Il giorno dopo sono cominciate le chiacchiere professionali, i commenti sui giornali, dilatati a dismisura dalla tendenza attuale ad allungare con interminabili disquisizioni il brodo - di per sé ristretto, in questo caso - delle notizie. E molto si è sentito e letto sull'informazione audiovisiva come videogame, sulla difficoltà di distinguere realtà da spettacolo, e via ripetendo discorsi antichi almeno quanto il mezzo fotografico. Il fatto è che - come dimostrano le reazioni di cui dicevo prima, segni di un senso comune instant che diceva "oggi la storia ha subìto un'accelerata" - nessuno aveva davvero difficoltà a distinguere il reale dall'immaginario, almeno l'11 settembre. C'era semmai un problema più intimo, più delicato, evitato con cura nelle conversazioni. Il problema è che le immagini del massacro non erano solo spaventosamente "asettiche" rispetto al peso di sangue del massacro stesso: questo era già successo tante altre volte, soprattutto naturalmente nella guerra del Golfo, e se ne era parlato tanto. E' che erano belle. Sfido chiunque a negare che tra gli elementi che lo incollavano al televisore c'era anche la pura potenza visiva, simmetrica e imprevista, dell'aereo che penetra la torre, della torre stessa che crolla. Una bellezza che avrà certo radici profonde, del resto abbastanza intuitive (più fallici di così) ma che sembrava rinnovare il suo fascino a ogni ripetizione dell'inquadratura, sfidando non soltanto la miseria dei commenti ma anche il kitsch dei giorni dopo, i videoclip con le torri e Imagine, il crollo e Imagine. Qui sta uno dei più misteriosi meccanismi psichici collettivi di quel giorno: un'impressione di bellezza che accresceva il fascino di un nemico di per sé invisibile, e il senso di colpa di chi se ne era fatto prendere. Contribuendo così allo smarrimento di tutti. E il paradosso è che probabilmente, in un'operazione così pianificata, questo aspetto era poi il più casuale.

 

 

 

Peppino Ortoleva è docente di Media all'Università di Siena

 

 

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ANCHE IN OCCIDENTE C'È UN FONDAMENTALISMO

 

Domenico Parisi

 

 

 

Perché è successo? Quali sono le cause profonde dell'attacco terroristico a New York e a Washington? Se non sapremo trovare le risposte vere a queste domande, difficilmente potremo evitare che quello che è successo si ripeta. Le risposte che chiamano in causa Bin Laden e la sua rete terroristica, o più in generale il fondamentalismo islamico e il suo odio nei riguardi degli Stati Uniti e dell'Occidente, non sono risposte sufficienti e che vadano al fondo delle cose. Per questo, togliere di mezzo Bin Laden e cercare di isolare o abbattere i governi che lo proteggono, sono cose che vanno fatte ma non sono una soluzione al problema. Il terrorismo con tutta probabilità ricomparirà. Quale è allora la causa profonda del terrorismo islamico? La causa profonda è la globalizzazione intesa come progressiva erosione di tutte le culture diverse da quella occidentale. La globalizzazione non è solo l'emergere di una comunità umana unica su tutta la Terra, rispetto alle tante comunità distinte che ci sono state fino a oggi, ma è occidentalizzazione del mondo, cioè progressiva sostituzione di tutte le culture a opera della cultura occidentale, con i suoi comportamenti, i suoi valori, i suoi tipi di organizzazione economica, sociale e politica, la sua tecnologia. Le altre culture, se appartengono a piccole comunità senza forza, semplicemente scompaiono. Le culture che appartengono a grandi comunità umane prima di scomparire reagiscono in modi diversi che dipendono dalla loro storia. Una cultura di centinaia di milioni di persone come quella islamica, con la sua storia di espansione e conquista, e la sua tradizione di stretta e così poco occidentale integrazione tra religione e Stato, si sente messa in un angolo, del tutto impotente a conservarsi, e reagisce in modo rabbioso e cieco, con il terrorismo. Se questa è la ragione di fondo di quello che è successo, è a questo livello che bisogna agire. Forse non c'è molto da fare, e allora è probabile che il terrorismo e altre reazioni irrazionali e violente continueranno per anni e decenni. Forse invece qualcosa possiamo fare, a cominciare dall'abbandonare quello che di fatto, nonostante l'apparenza di tolleranza e di pluralismo, è una sorta di fondamentalismo occidentale che considera superiore a tutte le altre e priva di difetti la cultura occidentale, senza riconoscere, ad esempio, che l'Occidente ha sostituito l'oppressione politica con l'oppressione economica.

 

 

 

Domenico Parisi è dirigente di ricerca dell'Istituto di psicologia del Cnr

 

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Gli ultimi cinque commenti sono stati pubblicati recentemente dalla rivista Teléma.