UN BRASILE PASOLINIANO

Alfonso Berardinelli


Dovevo venire qui in Brasile, all'International Film Festival di San Paolo, per capire il cinema di Pasolini? È proprio così ed è una sorpresa anche per me.
Visto nella retrospettiva del Festival di San Paolo, organizzato da un impeccabile brasiliano di origine armena, Leon Cakoff, il cinema di Pasolini sembra più nuovo e carico di futuro. Merito di Pasolini, anzitutto, che letto e visto fuori contesto e soprattutto fuori dell'Europa, risulta più nitido, più durevole, semplicemente più reale. Ma merito anche del Brasile. Nell'ultima settimana prima del ballottaggio per le elezioni presidenziali che hanno incoronato a grande maggioranza il candidato di sinistra Luís Inácio Lula da Silva, il Brasile era in uno stato di ansia ma anche di ottimismo. Tutti si aspettavano una svolta. Anche gli avversari di Lula usavano toni pacati, sembrava che non avessero niente contro di lui. Quella che tuttora si teme è semmai l'ala minoritaria più tradizionalmente marxista, un trenta per cento di leninisti e trotzkisti che potrebbero spingere nel passato il partito.
La crisi economica brasiliana è grave. Almeno da cinque anni lo sviluppo è paralizzato. Ma la differenza fondamentale rispetto all'Argentina è sotto gli occhi di tutti e i brasiliani sono i primi a esserne orgogliosamente coscienti.
Qui l'alternanza è credibile. Il Partito dei Lavoratori fondato da Lula nel 1980 è un partito vitale e nuovo. Nell'amministrazione locale ha dimostrato di saper governare con saggezza. Quando dice, nella sua oratoria diretta, vivacemente gestuale, che il primo compito del Brasile, che il dovere storico non solo della Sinistra, ma di tutti i brasiliani e di tutte le classi sociali, è lottare contro la fame, contro la mortalità infantile, contro l'analfabetismo e la corruzione, è come se Lula continuasse a parlare di sé, a fare autobiografia. Oggi tutti i brasiliani conoscono la storia della sua vita come un romanzo popolare: infanzia nella miseria, sette persone in una sola stanza, la scuola precocemente interrotta, i mille lavoretti giovanili, l'esperienza operaia, l'incidente alla pressa che gli ha tagliato un dito, la prima moglie morta di parto, il passaggio dal sindacalismo alla politica durante la dittatura militare.
In questi giorni penso al Brasile e penso a Pasolini. Finché visse, e in particolare all'inizio degli anni Settanta, se Pasolini fu osteggiato, frainteso, confutato, fu per un equivoco culturale e politico. Oggi l'incomprensione italiana per questo autore nasce da un'irrimediabile estraneità e indifferenza. Pasolini ci ricorda problemi troppo più grandi della cultura politica attuale, problemi politicamente intrattabili come la "mutazione antropologica" della società occidentale e la cancellazione di un passato secolare diventato incomprensibile.
In Italia Pasolini disturba, non serve. Il pubblico che vede i suoi film in Brasile sembra che invece capisca tutto. Il clima fra picaresco e tragico di questi film, la vitalità e il senso di morte, la realtà sottoproletaria e l'irrealtà borghese qui sono cose assolutamente presenti e comprensibili.
Il Brasile, come scrive El País in questi giorni, è una nazione ricca piena di poveri. Ma la ricchezza umana, morale, produttiva di un Paese, le sue risorse di futuro sono anche i suoi poveri. La risorsa politica del Brasile di oggi sembra incarnata da un uomo come Lula, che viene dalla povertà e ne porta i segni sul proprio corpo.
Con chi parlare di queste cose? Il solo politico brasiliano che conosco è Luiz Dulci, un quarantenne di origine veneta, discreto, tenace, colto, gran lettore di libri italiani, uno dei più giovani fondatori, vent'anni fa, del Partito dei Lavoratori. Non soffre certo di protagonismo Luiz Dulci. Non ama mettersi in mostra. Fa politica non smettendo un momento di pensare ai libri. Riesco a incontrarlo grazie alle ricerche di Betania, studiosa di Pasolini e amica comune, che ci invita a cena quasi clandestinamente. Dulci è segretario generale del Partito e in questi giorni era irreperibile, forse nascosto in una stanzetta di San Paolo a scrivere il discorso per Lula presidente.
Dulci, mi dicono, è un mediatore, un abile negoziatore, il più adatto a tenere in rapporto chi è nel partito e chi è fuori. Ma io mi sono sempre chiesto come faccia un individuo dalla mente così acuta, sensibile, angelica, a fare politica. Forse ho un'idea troppo negativa della politica. O forze l'astuzia delle colombe, la forza d'attrazione dell'onestà e dell'intelligenza (unite nella stessa persona) possono fare miracoli.
Conobbi Luiz Dulci nel 1998, quando mi invitò alla Biennale di Poesia di Belo Horizonte, capitale del Minas Gerais, una delle regioni più ricche di minerali preziosi, di industrie e di cultura letteraria. Dulci dirigeva la Fondazione Perseu Abramo, una specie di istituto Gramsci brasiliano, e avevo l'impressione che con me volesse parlare soprattutto di letteratura. La sua biblioteca personale era gremita di libri italiani o tradotti in italiano. Dato che la nostra, mi disse, era la lingua straniera che conosceva meglio, e dato che noi italiani eravamo speciali nel tradurre tutto, lui aveva finito per leggere in traduzione italiana gran parte degli autori europei contemporanei: narratori, poeti, critici letterari, sociologi e politologi.
Ora, a cena, prima di entrare in discorsi politici, mi parla di Giacomo Debenedetti e di Piergiorgio Bellocchio, mi ricorda la sua ammirazione per il maggiore critico letterario brasiliano dell'ultimo mezzo secolo, Antonio Candido, più che ottantenne, un intellettuale prestigioso, amico del grande poeta Carlos Drummond de Andrade. Anche Antonio Candido è nel partito di Lula, come pure l'economista Celso Furtado.
C'è un punto sul quale Dulci torna di continuo. Il nostro, dice, non è affatto un partito di sinistra secondo il modello europeo. È diverso. È un partito giovane nel quale tradizioni e ideologie contano poco. Gli ecologisti, le donne, il lavoro volontario, l'impegno sociale dei cattolici, il sindacato sono molto più importanti dei pochi marxisti ortodossi continuamente evocati dalla Destra per creare allarmismo.
Non ho molto da dirgli. Se non che l'allarmismo, quando si tratta di America Latina, ancora più che dalle intenzioni estremiste di qualche gruppo politico, nasce dalla realtà delle disuguaglianze sociali, così estreme che qualunque sinistra prometta di combatterle fa paura ai custodi della crescita economica.
Il fatto è, dice Dulci, che ormai tutti sono costretti ad ammettere una serie di fallimenti del neoliberismo. Negli ultimi anni solo un decimo dei brasiliani ha assorbito ricchezza. Il livello di vita degli operai e dei ceti medi è sceso, i servizi pubblici sono peggiorati, è aumentata la violenza urbana che nasce dalla povertà estrema e dalla mancanza di lavoro. In più si è formata una criminalità organizzata che fino a dieci anni fa non c'era. In alcune regioni periferiche agiscono mafie locali potenti e militarmente sofisticate che si stanno impadronendo del tessuto sociale, offrono droga e occupazione.
La minoranza privilegiata continuava a nascondersi la realtà brasiliana, come se il Paese fosse un ostacolo a se stesso e si dovesse essere a tutti i costi, come dicevano, "primo mondo" cancellando i propri problemi. Cardoso pretendeva di agire come se il Brasile non fosse il Brasile, faceva finta di dover abbattere uno Stato sociale che qui non c'è e non c'è mai stato.
La novità di queste elezioni è che oggi stanno tutti male, ai livelli alti, medi e bassi della società. Neppure i ricchi stanno bene. Devono vivere blindati, hanno paura di uscire di casa, temono rapimenti e sequestri, cosa che negli ultimi tempi ha fatto fiorire le agenzie che offrono servizi di polizia privata, guardie del corpo e sistemi di sicurezza. Lula ha capito questo malessere generale e ha smesso di insistere sulle colpe dei ricchi. Vuole metterli alla prova, mobilitarli moralmente, far capire loro che una società troppo ingiusta e squilibrata non potrà mai essere decentemente moderna né ragionevolmente tranquilla.
Anche i privilegiati temono che la crisi diventi un collasso di dimensioni disastrose. Il caso dell'Argentina ha creato un vero panico. La paura di finire come l'Argentina, senza neppure un ceto politico di ricambio, è stata più forte della paura che vincesse Lula. Con queste elezioni la posta in gioco è la dimostrazione di essere diventati davvero una democrazia indipendente, capace di autogoverno.
In albergo prima di andare al dibattito su Pasolini, accendo un po' la tv e vedo Lula che parla, si accalora, ride, cerca di convincere e di dare fiducia. Pasolini fece della sociologia originale partendo dalla fisiognomica. E guardando Lula che gesticola qualcosa mi sembra di capire che la mutazione antropologica che ha colpito i politici della Sinistra italiana non ha sfiorato questo ex metallurgico che continua a esprimere se stesso riuscendo a parlare a un paese di 180 milioni di abitanti. Dalle nostre parti, nelle nostre Sinistre, da quanto tempo non si vede un fenomeno simile? Voglio dire: un leader sindacale che sia stato davvero un operaio, un leader di sinistra che sia nato dal consenso di una base sociale, un politico per il quale la politica non sia tutto, un oratore che fa sembrare più vere e non più false le cose che dice e che continua a muovere le sue corte braccia da operaio come se discutesse, a mensa, con i compagni di lavoro. Tutti sperano che sia lui nei prossimi anni a dimostrare che la Sinistra, in America Latina, può governare più realisticamente della Destra.


(Tratto dal Sole 24 Ore del 10 Novembre 2002)