LA SIGARETTA

Lucio Mastronardi


Insegno in una quarta elementare, e fra i miei scolari ho mio figlio. I maestri di Vigevano hanno come regola di fare saltare qualche classe ai figli. O li mandano a scuola a cinque anni, oppure li fanno cominciare dalla seconda, oppure saltare la quinta. Io mi sono adeguato. Siccome il maestro di mio figlio non era del parere, gliel'ho tolto e me lo sono fatto assegnare.
Avere il proprio figlio a scuola è tormentoso. Per quanto cerchi di essere obiettivo e fargli i voti che si merita, e pretendere da lui il rispettoso lei e la rispettosa distanza come dagli altri, ho la viva impressione che scolari e famiglie pensino che stiamo recitando. Non è che ami molto il mio lavoro, però ci tengo, e tanto, alla stima. Voglio essere stimato sia dai superiori che dalle famiglie. Ho visto che tutti quelli che campano su di un magro stipendio, hanno l'ossessione della stima. I maestri, della stima, ne fanno un culto.
Avere la stima delle famiglie non è difficile: basta dargli la media alta di voti sulla pagella. La stima è in proporzione ai voti che si dànno. E avere la forza di ascoltare i genitori che raccontano i misfatti e le prodezze dei loro bambini, senza sbadigliagli davanti. Io sono stimatissimo.
Più difficile è ottenere la stima dei superiori. La mia direttrice in quanto a stima è avara. Io faccio del mio meglio per conquistarmela. Arrivo a scuola in anticipo. Scatto sull'attenti quando la incontro. Partecipo ai cenacoli pedagogici. Se da Roma arriva qualche direttore centrale a tenere conferenze, io non solo ascolto quella che tiene a Vigevano, ma anche quelle che tiene nei paesi vicini, e l'ascolto con attenzione, anche se è la decima volta che sento ripetere le stesse cose, e infine gli batto calorosamente le mani. Se dice qualche spiritosaggine rido di gusto, anche se è la decima volta che la sento ripetere. Non partecipo a nessuno sciopero; so che lo sciopero dispiace ai superiori. Quando viene il prete a fare la lezioncina di religione, non vado nel corridoio, sto in classe, anche se la mia presenza impaccia il prete e la sua lezione. E il registro lo scrivo addirittura in cancelleresco.

La direttrice non vuole che si fumi in classe. Il fumare è un vizio; la scuola deve essere palestra di virtù.
- Guai ai vizi! grida quando sorprende qualche maestro che fuma.
Quando in classe accendo una sigaretta, vivo la mia avventura, come se fossi seduto su di una mina. Guardo inquieto la porta, col terrore che lei entri. Per tutta la sigaretta è uno spasimo; ma è una grande soddisfazione quando getto il mozzicone dalla finestra: una soddisfazione fisiologica. Lascio la finestra aperta il tempo che l'aria si cambi, quindi la richiudo e ne accendo un'altra. Finora mi è sempre andata bene: la direttrice veniva, o quando avevo finito e l'aria era cambiata, oppure prima che cominciassi.
Una mattina, mentre i bambini svolgevano il tema: "Perché devo essere serio", io me ne stavo davanti all'uscio, fumando, e pensavo: se in questo momento entrasse la direttrice, cosa farei? Dove posso nascondere la sigaretta?...
Mi guardavo d'attorno col piacere dell'incoscienza. Tirando e gettando voluttuose boccate ero arrivato al mozzicone. E poi fino allo scottadito. Tenendolo sospeso stava andando alla finestra. Dietro sento la voce della direttrice: - Chi è che fuma qui dentro?
- Il signor maestro! rispose il mio più stimato scolaro. Prima che mi accorgessi, con mossa istintiva, avevo nascosto il mozzicone nel taschino della giacca.
- La scuola palestra di vizio! gridò la direttrice. Io stavo sull'attenti davanti a lei, che mi guardava da brutto come mia suocera.
Scoppiò a ridere.
- La giacca! disse fra i singhiozzi.
La scolaresca era in un silenzio di spettacolo. Levai il mozzicone scottandomi la mano: un piccolo foro risaltava sulla stoffa bruciacchiata. La direttrice tornò seria.
- Signor maestro, gridò, fumare è una limitazione d'autorità. Se proprio non ne può più, vada a fumare al gabinetto!

Finita la scuola uscii col figlio per mano. Era la prima volta che tornavamo a casa insieme. I maestri tengono i figli sempre con loro, sempre staccati dagli altri ragazzi, perché non imparino le brutte cose. Io sono anticonformista e lascio che vada in mezzo agli altri. Camminavamo in silenzio. Ogni tanto guardavo la bruciatura della giacca e sentivo più forte il bruciore nella mano.
- Papà, non dirò niente né alla mamma, né alla nonna!
Finsi di non sentire. Vicino a casa lo guardai: aveva uno sguardo pietoso e comprensivo. Gli smollai uno schiaffo: mi è scappato pesante e sonoro. Nemmeno ai derelitti e agli orfanelli, che sono quelli che scontano la stima delle famiglie, ho mai dato uno schiaffo così. Mio figlio riprese a camminare con un'aria dritta e dura, la faccia torva.
A casa subito mi levai la giacca. mentre l'appendevo, mia suocera disse: - T'è bruciato la muda? E come mai t'è bruciato la muda? Vah che bruciatura; e come l'è stai?
- Lo so io lo so, gridò mio figlio, scoppiando a piangere. Ha avuto paura della direttrice. Si è messo il mozzicone in tasca!
Mia suocera e mia moglie si guardarono. Avevano un'aria soddisfatta.
Ora ho cambiato la muda; e a casa ho sempre paura a dire la mia. L'ultima volta che ho cercato di questionare, per una spesa, mia suocera disse: - Bisognerà farglielo dire dalla direttrice; allora è sicuro che si convince!
Ogni mattina la incontro, la direttrice, sul portone della scuola. Vorrei non salutarla, non guardarla; vaneggio di passarle davanti con in bocca una sigaretta, un toscano, una pipa accesi... Ma quando sono davanti a lei, tutto il coraggio si evapora, e come al solito la saluto con ossequio.



(Tratto da A casa tua ridono e altri racconti, Einaudi, Torino, 2002)

 

Lucio Mastronardi nacque a Vigevano nel 1930 e vi morì suicida nel 1979. Presso Einaudi pubblicò, oltre a questo libro, Il calzolaio di Vigevano, Il maestro di Vigevano e Il meridionale di Vigevano.