MI SI È ALLARGATO L’OCEANO

Vittorio Zucconi

Il missile parte sempre dall’ombrellone accanto, nel momento in cui sei più vulnerabile, con il giornale stropicciato sulle gambe e il dubbio se l’acqua sia ancora troppo fredda per il puccio.
Ah, mi scusi, ma lei vive in America, vero? (aiuto).
Sì (sorriso idiota, senza impegno).
Beato lei, come la invidio.
Beh, sa, ecco, insomma, certo... (arriva, arriva, il secondo stadio del missile arriva sempre).
Senta, mi dica la verità, si vive meglio in America o in Italia?
Che Bush mi sia testimone, se avessi un missile Cruise per ogni volta che mi sono sentito fare questa domanda, da quando mia moglie, una bambina in un passeggino pieghevole da viaggio scandalosamente fragile rispetto ai Tir blindati che oggi trasportano i neonati, e io sbarchiamo in America nel 1973 (mamma mi, trent’anni or sono), la mia famiglia sarebbe oggi armata come una media potenza militare.
Fino a qualche settimana, o mese, fa, almeno sapevo che cosa rispondere prima di fingere un irresistibile desiderio di buttarmi in mare. Era una risposta standard per non sembrare sgarbato, come il “domani si fa credito” dei salumieri di una volta o il classico “no stasera non esco perché devo lavarmi i capelli”. mah, signora, in fondo non c’è questa grande differenza, se uno ha abbastanza soldi per pagarsi la mutua da solo, i nostri mondi sono sempre più simili e integrati. lei e io viviamo sotto lo stesso ombrellone.
Nel trascorrere degli anni, a mano a mano che vedevo diffondersi ovunque in Italia le armi di indigestione di massa, gli orridi fast food, le nostre tv riempirsi di immagini made in Usa e i pecorini di Pienza insieme con le borsette e i tessuti italiani invadere l’America, mi sembrava di avere avuto ragione a considerare ormai i nostri due Paesi come due metà della stessa mela, come due coniugi ormai legati l’uno all’altra. Erano spariti i visti per turisti, e noi e loro ci visitavamo come amici che non devono più neanche bussare. I costi e le fatiche dei viaggi si erano ridotti a misure accettabili rispetto alle trasvolate eroiche delle generazioni che dovevano fare tre tappe e passare per l’Islanda per non spendere fortune. Raggiungere New York non era più faticoso o lungo che superare la tangenziale di Bologna in un week end di luglio.
Una telefonata via satellite, chiara come se ci si parlasse da una stanza all’altra (mia madre ancora non si convince che le stia parlando da un altro continente e sospetta che sia al piano di sotto ma stia fingendo di essere a Washington per non andare a trovarla), costava meno di un’interurbana da Milano a Napoli. Si potevano avere tranquillamente, legalmente, due passaporti, due cittadinanze, senza sentirsi sleali nei confronti di nessuno, come un figlio può avere un padre e una madre senza essere costretto a dire (come qualche parente idiota ancora domanda) se vuoi più bene alla mamma o al papà. C’erano anche lati tristi in questa coabitazione strettissima, come riuscire a vedere in diretta sulla Rai satellitare il Festival di Sanremo e Porta a Porta con lo spaccato della casetta di Cogne. Ogni matrimonio ha le sue spine.
Ma dal 19 marzo scorso, da quando un presidente americano che cammina rigido e a gambe larghe come se fosse appena sceso da cavallo e avesse bruciori in luoghi innominabili, ha deciso – a torto o a ragione non è questo il luogo dove discutere di geopolitica e blah blah sull’Iraq ne abbiamo sentiti e scritti tutti abbastanza – di fare una guerra e di portarsi dietro chi ci sta, il titolo semischerzoso e semiserio di questa rubrica – Storie dell’Altro Mondo – mi sembra diventato improvvisamente vero. L’America è tornata a essere un altro mondo? La nazione dei miei figli e (quando finalmente si decideranno, quei due) dei miei nipoti sarà ancora l’altra metà della mia stessa mela, parte di me stesso come io sono parte di essa?
Resteremo sposati, come siamo stati e con reciproco affetto e vantaggio, o diventeremo separati in casa, magari una di quelle “coppie aperte” nelle quali ognuno dei due fa come gli pare, salvo che qui si tratta di fare la guerra e non l’amore? E se il nostro “partner”, o “fidanzato” o coniuge americano deciderà che c’è qualche altra nazione al mondo pestifera e tossica come l’Iraq dell’orrido Saddam Hussein e dei suoi cloni (mai visto una pubblicità anticlonazioni più efficace di lui) e scaricherà un’altra invasione addosso alla Corea e all’Iran o alla Mongolia o alla Lapponia, lo seguiremo, come una moglie devota e rassegnata, o decideremo che questo ennesimo trasloco non ci sta bene? Non vorrei proprio trovarmi con nipotini estranei, tra qualche anno e dover spiegare a loro, come devono fare i genitori ai figli quando divorziano, che il papà e la mamma gli vogliono ancora bene come prima, ma d’ora in poi faranno vacanze e week end separati. Che si stimano ancora, ma non possono più vivere insieme e ciascuno dei due è andato per la sua strada.
Soprattutto, non vorrei vedermi costretto a cambiare la risposta che per 30 anni ho dato alla signora dell’ombrellone accanto, specialmente se l’acqua del mare è fredda e non posso correre a rifugiarmi in mare.

 


(Tratto dalla rivista La repubblica delle donne del 5 Aprile 2003)