VIAGGIARE, VIAGGIARE

João Ubaldo Ribeiro

 

Mi trovo a Parigi e sono un fenomeno. Mi hanno pagato il biglietto, mi hanno dato un aiuto per le spese ed eccomi qui. Voi direte "E che cosa c'è di tanto fenomenale in questo?". Dopotutto qualche brasiliano, in numero ben maggiore di quello che pensiamo, è già stato o andrà a Parigi. E' vero, è vero, ma il mio caso è raro poiché sono l'unico che si lamenta di fare un viaggio in una città senza rivali, e scusate la brutta parola, imperdibile, e per di più senza spendere praticamente niente di quei pochi soldi che riesco a guadagnare scrivendo cose senza le quali il mondo rimarrebbe tale e quale. E' vero, è vero, ma affronto i viaggi come una condanna, perchè detesto viaggiare e ogni volta lo detesto di più. Vi spiego perché nella speranza di trovare un po’ di comprensione.

Viaggiare costa fatica, prima di tutto. Non so fare le valigie, e non per mancanza d'impegno, Dio me ne è testimone. Per qualche ragione che sfugge alla mia comprensione, tutto quello che è stato messo nella valigia lasciando spazi vuoti dalla mia eroica consorte, nel momento del ritorno non centra più. Voi direte: "Ah il furbacchione passa il tempo nei negozi, si riempie di pacchi e dopo non trova spazio nella valigia per mettere tutto". Vi sbagliate di grosso, evito i negozi e, vi richiamo all'attenzione, io sono dell'epoca in cui andare a New York era un viaggio nel quale le signore eleganti usavano cappelli, non era cosa da tutti. Oggi, forse è più facile raggiungere New York che Barra da Tijuca nell'ora di punta. E a pensarci bene chi va a Barra non ha bisogno di andare a New York: c'è tutto là, addirittura in inglese, lingua poco parlata nella New York propriamente detta.
Ma quello che succede tra me e la valigia è un mistero. Puntualmente i vestiti raddoppiano, la roba e le medicine che tutti gli anziani, categoria in cui rientro perfettamente anch'io, portano con sé si trasformano in un mare di pacchi e bagagli, camice e cose simili assumono proporzioni gigantesche e vari problemi a questo collegati mi affliggono. Insomma, per confessarvi la pura verità, porto in tutti i miei viaggi all'estero un borsone in più. Lo metto vuoto nella valigia principale che strapiena diventa indispensabile al ritorno. Devo riconoscere che, in mio favore, depone il fatto che mi regalano sempre libri, con dediche che non ho il coraggio di buttare nel cestino; mi hanno regalato perfino, una volta che mi trovavo alla fiera di Arles, in Provenza, due salami - e non so se volessero dirmi qualche cosa di non troppo carino.
E c'è il problema del viaggio in aereo, adesso non si può più neanche fumare e con dei pasti che provocherebbero tumulti e sommosse in qualsiasi mensa del pianeta. Quello che l'equipaggio di bordo chiama "la parte ultima dell'aereo", cioè la classe economica, turistica o chiamata con qualsiasi altro eufemismo, è un orrore che Dante non ha potuto includere nel suo inferno (se ci fossero stati a quel tempo aerei ci avrebbe messo qualche suo nemico) e soprattutto quando un gruppo in gita comincia a suonare chitarre e tamburelli e a cantare, non so bene perchè, il "figlio unico". Per non parlare poi del fatto che le poltrone, nome artistico applicato a sedie claustrofobizzanti, non lasciano spazio nemmeno per far sedere un nano ("verticalmente menomato", scusate, ogni tanto mi dimentico di essere politicamente corretto, scusate, scusate). Immagino che qualche spilungone nordico si sia già sottoposto volontariamente a amputazioni, nello stesso aeroporto, prima di imbarcarsi in certe classi economiche.
E ho il problema della faccia sbagliata. La mia faccia è sempre sbagliata. Gli unici posti dove io credo di non avere la faccia sbagliata sono Itaparica, Aracaju, uno o due quartieri o favelas di San Paulo e anche nel quartiere di Leblon (a Rio). Negli Stati Uniti ho la faccia di un "cucaracha". In Germania ho la faccia da turco. In Francia ho la faccia da arabo. A Milano ho la faccia di un calabrese. A Buenos Aires ho la faccia da brasiliano. E, nel mio passaporto ho la faccia di un contrabbandista di marijuana paraguaiano. Si aggiunga a questo il fatto che anche se vestito con un completo costoso, lo trasformo immediatamente in uno straccio, tale è la mia eleganza innata. Chi non è mai passato per questo mio problema della faccia sbagliata, non può farsi un'idea del doloroso trauma che questo ha rappresentato per me. E peggio ancora riesco a cavarmela bene nell'Inglese, lingua sconosciuta a Miami e a Manhattan, ma il mio francese sarebbe considerato di basso livello in una scuola per ritardati mentali di otto anni di età (quindi sarei internato, i francesi non la fanno passare liscia a nessuno), e figuriamoci poi a uno con la mia faccia.
Ma, nonostante tutto, viaggio. È destino, karma, mi sono rassegnato ormai. Ho conosciuto New York, a quell'epoca ho visto Belém, Trinidad e Porto Rico prima di conoscere Rio e São Paulo. Mi trovo qua a Parigi, cari amici. Farò una preghierina a Notre Dame, andrò a fare una passeggiata nel Quartiere Latino e entrerò per la terza volta nella fila del museo di Louvre. Questo se sopravviverò al trauma di portare il portatile, che pesa dieci chili in più ad ogni chilometro - stima modesta per quel che uno è obbligato a camminare all’aeroporto, incluso l’aeroporto "Tom Jobim". Già e questa volta alla dogana non mi hanno beccato, ciò che del resto non mi ha sorpreso molto perchè la dogana mi tartassa solo in Portogallo, dai cui aeroporti ho voluto fare addirittura una scappatella per vedere se riuscivo a comprarmi uno spinello e così fare la felicità del doganiere che non credeva io fossi uno scrittore, con una faccia molto furba (ero a Porto, non a Lisbona, per amore della verità faccio questa precisazione) mi ha contestato la mia professione, dicendo che nella valigia non c'erano libri.
- Ma io non sono un libraio - gli ho detto - sono soltanto uno scrittore.
- Ma mi faccia il piacere - mi ha risposto, mentre tastava la mia unica giacca con l'espressione di chi volesse proprio usare una lametta, e ancora oggi sarà convinto di essere stato vittima di qualche astuzia brasiliana sconosciuta. Alla fine, eccomi a Parigi. Prometto che nella mia preghierina a Notre Dame, do un passaggio a tutti voi. Male non vi farà di certo.

 


(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi studenti dell’Università di Pisa: Alessandra Pescaglini, Lorenzo Tamburini, Martina Pierini, Massimiliano Vitali, Matteo Badalamente e Patrizia Scorziello)