FERRAGOSTO

 

 

Giorgio Manganelli

 

 

 

 

 

Fra tutte le epidemie, i sismi, i tifoni, gli sbarchi di cavallette, le iracondie delle acque, le scarmigliate incursioni delle comete, ciabattanti comari dei cieli; fra tutti i deliqui del pianeta, le epilessie della clorofilla, le depressioni delle catene montane, solo certo e prevedibile resta il ferragosto: tanto prevedibile, che il profeta dell’Apocalisse, intento a cogliere i ritmati zoccoli dei cavalli finali, nemmeno ne parlò, se non forse con i suoi amici osti, bancari e professori. Sebbene sia ormai allenato da tanti mai ferragosti, ogni anno questa bizzarra festa mi sopraggiunge, mi coglie e oltrepassa come un trauma.

Nessuna vacanza è così stranamente gremita di questa che spopola le città, più chiassosa di questa che rende silenzioso il tritone a mezzogiorno. Non è una festa, è un incantesimo, una malìa, una fattura. Irretisce le folle, ispira programmi insensati, o immerge in una torva e diffidente sonnolenza. Settimane prima di quel giorno inevitabile, io mi faccio prudente; quando si entra nel rettifilo ferragostano, mi faccio via via cauto, diffidente, mi defilo, mi appiattisco, lavoro di freni e zavorra, inghiotto i documenti personali, comincio a parlare con accento irriconoscibile, sottopongo la mia minuscola anima ad una rapida plastica estetica, e infine mi precipito nel taciturno e pigli vortice del ferragosto: ma in quel momento io sono irriconoscibile, ed ho ogni motivo per dubitare della mia esistenza. La mia sensazione più profonda è che il ferragosto sia la festa del Nulla: e a questa convinzione io mi adeguo.

Dove vanno le spensierate folle di gitanti che, tutte nel medesimo istante, vengono colte dal raptus dell’emigrazione verso la Gioia? Sono persuaso che esse vengano stivati in uno dei tanti armadi del Nulla, e lì provvisoriamente trattenute e distratte con effimeri giocarelli fatti, letteralmente, di niente. Durante le non molte, ma fatali ore del ferragosto, trionfa una colossale eclissi dell’esistenza. Nulla viene prodotto, eccetto l’ectoplasma.

Per questo, io divento ogni anno più guardingo. Aggiorno e perfeziono le astuzie, i travestimenti, le strategie intese a farmi guardare il Mare dell’Assenza. man mano che divento più furbo, le regole si fanno più minute e rigide. Durante il ferragosto molti camminano; pericoloso; meglio strisciare, allumacarsi per i pavimenti. Anche quest’anno mi sono rifiutato di partorire; ho eluso con un educato sorriso una possibile proposta di incoronazione; roteando la mano, come a intender “più tardi ne parliamo”, ho rifiutato il pontificato; dopo qualche esitazione – non poteva essere il travestimento perfetto? – mi sono rifiutato di morire.

Mi sono pettinato sommessamente, adagio. Conscio del carattere di assedio di questa festa totalitaria, sono andato acquistando nei giorni precedenti cibi di varia natura e dimensioni: formaggi teneri, un enorme pane a ruota che non ho osato tagliare. budini da spalmarci un lussuoso appartamento, in alleanza con la maionese e la senape; acque oligominerale, birre deschiumate, vini stappati: silenzio finché s’apra. Non solo cibi: matite temperate, guide di paesi senza ferragosto – Terra di Baffin, Sikkim – edizioni sottovoce di Stendhal; medicine: antiacidi, digestivi, sonniferi completi di silenziatori da sogno. Stampe fiamminghe, casti disegni di desolate brughiere. Bandiere bianche di varia foggia, atte ai più diversi tipi di resa. Dopobarba nobili e volatili simulano giardini e visir. Lentamente, stiro la mia ombra: estremamente rilassante.

Altrove, in luoghi seviziati dal Nulla, famiglie intensamente italiane formano una pasta di nonne, genitori, bambini: tutte le parti sono scambiabili. Sono rumorosi e felici. Sono tutti. Per quel che mi riguarda, ho espresso educatamente il mio dissenso agitando gli indici in segno negativo: ma con cautela, fingendo distrazione.

 

 

 

 

 

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(Tratto da Improvvisi per macchina da scrivere [sezione: 1973 – 1986], Adelphi, Milano, 2003)