MORTA VENENDO


Ian McEwan


Le donne sempre in posa non mi interessano. Ma lei era un tipo che colpiva. Dovetti fermarmi a guardarla. Le gambe erano ben distanziate, il piede destro spinto audacemente in avanti, il sinistro strascicato con studiata casualità. Protendeva la mano destra fino quasi a toccare la vetrina, con le dita rivolte in alto come un bellissimo fiore. La mano sinistra era un po' più arretrata e sembrava che tenesse a bada dei cuccioli giocherelloni. Testa all'indietro, un accenno di sorriso, gli occhi socchiusi per la noia o il piacere. Impossibile capirlo. Un insieme decisamente artificiale, ma dopotutto io non sono un uomo semplice. Era una donna splendida. La vedevo quasi tutti i giorni, ogni tanto due o tre volte al giorno. E naturalmente lei assumeva altre posizioni a seconda dell'umore. Certe volte, passando di corsa (sono un uomo che ha sempre fretta), mi concedevo una breve occhiata e sembrava che lei mi facesse un cenno di invito, volesse accogliermi al riparo dal freddo. Altri giorni mi ricordo di averla vista in quello stato di stanca e desolata passività che gli sciocchi scambiano per femminilità.
Cominciai ad accorgermi dei vestiti che indossava. Era una donna alla moda, naturalmente. In un certo senso era il suo mestiere, ma in lei non c'era traccia della leziosa, asessuata rigidezza tipica di quegli attaccapanni a malapena animati che sfoggiano l'haute couture in saloni soffocanti al suono di esecrabili musichette. No, lei era un essere di un'altra levatura. Lei non esisteva semplicemente per presentare lo stile, la moda del momento. Lei era al di sopra di tutto questo, oltre tutto questo. I vestiti rappresentavano un fatto periferico rispetto alla sua bellezza. Sarebbe stata bene con addosso dei vecchi sacchetti di carta. Lei disprezzava i vestiti che indossava, ogni giorno li scartava in favore di altri. La sua bellezza irradiava splendore attraverso i vestiti... eppure erano dei vestiti molto belli. Era autunno. Lei indossava mantelli di un intenso color ruggine, o roteanti gonne da contadina verdi e arancioni, o ruvidi tailleur pantaloni sui toni ocra. Era primavera. Lei indossava gonne di mussola a quadri o cosparsa di frutti, camicette di cotonina bianca o copiosi abiti turchesi e azzurri. Sì, mi accorsi dei suoi vestiti, perché lei capiva, come lo capivano soltanto i grandi ritrattisti del diciottesimo secolo, le sontuose possibilità di una stoffa, le sottigliezze di un panneggio, le sfumature di una piega o di un orlo. Il suo corpo ondeggiando sempre in nuove posizioni si adattava alle esclusive esigenze di ogni creazione; le linee del suo corpo perfetto nella loro immobile grazia sottolineavano con un tenero contrappunto i mutevoli arabeschi degli artifici di sartoria.
Ma io divago. Vi annoio col mio lirismo. I giorni si succedevano. Un giorno la vedevo e un altro no, e magari un altro ancora due volte. Impercettibilmente il fatto di vederla o non vederla diventò un fattore della mia esistenza, e poi, prima che me ne rendessi conto, si trasformò da fattore in elemento strutturale. L'avrei vista oggi? Avrebbe riscattato e controbilanciato tutte le altre ore, gli altri minuti della mia giornata? Mi avrebbe guardato? Si ricordava di me da una volta all'altra? C'era un futuro per noi, insieme... avrei mai avuto il coraggio di avvicinarla? Coraggio! Cosa significavano ormai tutti i miei miliardi, cosa ne era della saggezza che avevo costruito sulle rovine di tre matrimoni? La amavo... volevo possederla. E per possederla a quanto pareva avrei dovuto comperarla.
Bisogna che vi parli un po' di me. Io sono ricco. È possibile che risiedano a Londra dieci uomini più ricchi di me. È probabile che siano solo cinque o sei. Che importa? Sono ricco e i miei soldi li ho fatti al telefono. Il giorno di Natale compirò quarantacinque anni. Mi sono sposato tre volte, e ogni matrimonio è durato, in ordine cronologico, otto, cinque e due anni. Negli ultimi tre anni non mi sono sposato ma non sono certo stato inattivo. Non mi sono concesso pause. Un uomo di quarantaquattro anni non ha tempo per le pause. Sono un uomo che ha sempre fretta. Ogni volta che dalla mia vescica seminale, o da dov'è che parte, nasce un impulso all'espulsione, la dotazione complessiva assegnata al mio arco vitale diminuisce di una. Non ho tempo per le analisi, le indagini interiori dei rapporti molto intensi, per le accuse inespresse, le silenziose autodifese. Non desidero la compagnia di donne che abbiano l'esigenza di parlare quando l'accoppiamento è terminato. Voglio restare sdraiato immobile a godermi la pace e la chiarezza del momento. Poi voglio mettermi le calze e le scarpe e pettinarmi e tornare a occuparmi dei miei affari. Preferisco le donne silenziose che raggiungono il piacere in un'apparente indifferenza. Sono circondato da voci tutto il giorno, al telefono, a colazione, durante le riunioni. A letto non voglio voci. Non sono un uomo semplice, lo ripeto, e questo mondo non è semplice. Ma almeno a questo proposito le mie esigenze sono semplici, forse addirittura semplicistiche. Prediligo il piacere non contaminato dai guaiti e dai gemiti dell'anima.
O meglio, lo prediligevo, prima... prima di innamorarmi di lei, prima di conoscere la morbosa esaltazione dell'autodistruzione totale per un motivo privo di significato. Cosa mi importa, oggi, a pochi mesi dal mio quarantacinquesimo compleanno, dei significati? Quasi tutti i giorni passavo davanti al suo negozio e la guardavo. Quei primi giorni quando era sufficiente un'occhiata di sfuggita e poi correvo ad incontrare il tal collega d'affari o la tale amante... non riesco a identificare il momento preciso in cui seppi di essere innamorato. Ho spiegato che un fattore della mia esistenza ne divenne elemento strutturale, come nell'arcobaleno l'arancione si dissolve nel rosso. Un tempo ero un uomo che passava di corsa davanti alla vetrina di un negozio e dava un'occhiata distratta. Poi ero un uomo innamorato di... semplicemente, ero un uomo innamorato. Successe nel corso di molti mesi. Cominciai a soffermarmi davanti alla vetrina. Le altre... le altre donne esposte nella vetrina non significavano nulla per me. Ovunque fosse sistemata la mia Helen la individuavo al primo sguardo. Le altre erano soltanto dei manichini (oh amor mio) degni di disprezzo. In lei era la pura e semplice carica della sua bellezza a infondere la vita. La sagoma delicata delle sue sopracciglia, la perfetta linea del suo naso, il sorriso, gli occhi socchiusi dalla noia o dal piacere (come potevo indovinare?). Per un lungo periodo mi accontentai di guardarla attraverso il vetro, felice di essere a pochi passi da lei. Nella mia follia le scrissi delle lettere, sì, ho fatto anche questo, e le conservo ancora. La chiamai Helen ("Cara Helen, dammi un segno. Io so che tu sai ecc."). Ma ben presto la amai con tutto me stesso e desiderai farla mia, possederla, assorbirla, mangiarla. La volevo tenere fra le mie braccia e nel mio letto, desideravo ardentemente che aprisse le gambe per me. Non avrei più avuto pace finché non avessi forzato quelle labbra con la lingua. Sapevo che presto avrei dovuto entrare nel negozio e chiedere di comperarla.
Semplicissimo, direte voi. Sei ricco. Potresti comprarti tutto il negozio, volendo. O tutta la strada. Certo che potrei comprarmi la strada, e anche molte altre strade. Ma state a sentire. Questa non era una semplice transazione d'affari. Non avevo intenzione di comprare un terreno dove impiantare una nuova industria. Negli affari si fanno delle offerte, si corrono dei rischi. ma in questa faccenda non potevo correre il rischio di un fallimento, perché volevo la mia Helen, avevo bisogno della mia Helen. Il mio intimo terrore era di tradire la mia disperazione. Non potevo essere certo che trattando l'acquisto avrei tenuto in pugno la situazione. Se avessi sconsideratamente offerto troppo, il direttore del negozio si sarebbe chiesto perché. Se era una cosa che per me aveva un grande valore, be' allora, avrebbe ovviamente concluso il direttore (che dopotutto era un uomo d'affari), deve avere un grande valore anche per altri. Helen era in quel negozio da parecchi mesi. Forse, e questo pensiero cominciò a tormentarmi ininterrottamente, l'avrebbero portata via e distrutta.
Sapevo che dovevo agire in fretta e avevo paura.
Scelsi il lunedì, che è una giornata tranquilla in qualsiasi negozio. Non ero sicuro che la tranquillità fosse un vantaggio per me. Avrei potuto farlo di sabato, una giornata intensa, ma chissà, una giornata tranquilla... una giornata intensa... le mie decisioni si respingevano l'un l'altra come specchi paralleli. Avevo perso molte ore di sonno, ero sgarbato coi miei amici, praticamente impotente con le mie amanti, la mia abilità negli affari cominciava a deteriorarsi. Dovevo scegliere e scelsi il lunedì. Era ottobre, cadeva una pioggerellina sottile e fastidiosa. Diedi la giornata libera al mio autista e andai in macchina fino al negozio. Dovrò seguire pedissequamente le più sciocche convenzioni e descrivervi la prima casa della mia tenera Helen? Non ci tengo proprio. Era un negozio spazioso, un magazzino, un grande magazzino che commerciava esclusivamente e con notevole impegno in abiti e accessori da donna. Aveva le scale mobili e si respirava una noia attutita. Basta così. Avevo un piano. Entrai.
Quanti dettagli delle trattative dovrò esporre prima di passare al momento in cui mi ritrovai con la mia diletta fra le braccia? Pochi e velocemente. Parlai a una commessa. Lei si consultò con un'altra . Ne chiamarono una terza, e la terza mandò una quarta a cercarne una quinta che risultò essere la vicedirettrice, incaricata dell'allestimento delle vetrine. Si ammassarono intorno a me come bambine curiose, intuendo la mia ricchezza e il mio potere ma non la mia ansia. Le avvertii che avevo da fare una strana richiesta e loro si agitarono a disagio ed evitarono il mio sguardo. Mi rivolsi concitatamente a queste cinque donne. Volevo comprare uno dei cappotti esposti in vetrina, dissi loro. Era per mia moglie, e volevo anche gli stivali e la sciarpa che si accompagnavano al cappotto. Era il compleanno di mia moglie, dissi. Volevo il manichino (oh mia Helen) che li indossava per esibire i capi nelle condizioni ideali. Mettevo nelle loro mani il mio piccolo scherzo di compleanno. Mia moglie avrebbe aperto la porta della camera da letto, adescata fin lì da qualche banale motivazione domestica che avrei inventato io, ed ecco davanti a lei... non se lo immaginavano? Ricreai la scena per loro in tutta la sua vivezza. Le osservai attentamente. Le condussi dove volevo. Vissero fino in fondo l'emozione di una sorpresa di compleanno. Sorrisero, si guardarono l'un l'altra. Osarono lanciarmi un'occhiata. Che marito gentile! Ognuna di loro si sentì mia moglie. E naturalmente ci tenevo a pagare un piccolo extra... ma no, la vicedirettrice non volle neanche sentirne parlare. La prego di accettarlo coi nostri complimenti. La vicedirettrice mi accompagnò alla vetrina. Lei andava avanti, e io la seguivo avvolto da una foschia color sangue. Avevo i palmi delle mani coperte da goccioline di sudore. La mia eloquenza si era prosciugata, avevo la lingua incollata ai denti e non riuscii a far altro che sollevare debolmente una mano e puntarla verso Helen. - Quella, - sussurrai.
Un tempo ero un uomo che passava di corsa davanti alla vetrina di un negozio e dava un'occhiata... e poi fui l'uomo innamorato, un uomo che portava il suo amore fra le braccia fino alla macchina, sotto la pioggia. È vero che al negozio si erano offerti di farmi un pacco dei vestiti perché non si sgualcissero. ma qual è l'uomo che porterebbe il suo unico amore nuda per strada sotto la pioggia ottobrina? Sostenendo Helen per la strada borbottavo cose senza senso, pazzo di gioia. E lei si teneva stretta a me, aggrappandosi ai risvolti della mia giacca come una scimmietta appena nata. Oh, dolcezza mia. Teneramente la stesi sul sedile posteriore della macchina e teneramente la portai a casa.


A casa era tutto pronto. Sapevo che appena arrivati lei avrebbe voluto riposare. La portai in camera da letto, le tolsi gli stivali e la sistemai fra le fresche lenzuola di bucato. La baciai lievemente su una guancia e lei si addormentò profondamente sotto i miei occhi. Restai a lavorare in biblioteca per un paio d'ore, occupandomi di alcuni affari molto importanti. Adesso mi sentivo sereno, soffuso da un costante bagliore interiore. Ero capace di un'intensa concentrazione. Andai in camera da letto in punta di piedi. I suoi lineamenti nel sonno si erano distesi in un'espressione di grande tenerezza e comprensione. Le labbra erano appena socchiuse. Mi inginocchiai per baciarle. Tornai in biblioteca e mi sedetti davanti a un bel fuoco di ceppi con un bicchiere di porto in mano. Meditai sulla mia vita, i miei matrimoni, la mia recente disperazione. Adesso, mi sembrava che tutta l'infelicità del passato fosse stata necessaria per rendere possibile il presente. Adesso avevo la mia Helen. Giaceva addormentata nel mio letto, a casa mia. Non le importava di nessun altro. Era mia.
Alle dieci scivolai a letto accanto a lei. Lo feci con cautela, ma sapevo che era sveglia. Oggi mi commuove ricordare che non facemmo subito l'amore. No, restammo sdraiati fianco a fianco (com'era calda lei) e parlammo. Le raccontai di quando l'avevo vista per la prima volta, di come era nato il mio amore per lei e di come avevo progettato di portarla via dal negozio. Le parlai dei miei tre matrimoni, del mio lavoro e delle mie amanti. Ero ben deciso a non avere segreti per lei. Le parlai delle cose a cui avevo pensato seduto davanti al caminetto col bicchiere di porto. Le parlai del futuro, del nostro futuro insieme. Le dissi che la amavo, sì, questo credo di averglielo detto parecchie volte. Lei ascoltava con quella tranquilla intensità che avrei imparato a rispettare. Mi carezzava una mano, mi fissava con occhi pieni di stupore. La spogliai. Povera ragazza. Sotto il cappotto non aveva niente, al mondo non aveva niente tranne me. L'attirai a me, il suo corpo nudo contro il mio, e in quel momento vidi nei suoi occhi spalancati uno sguardo impaurito... era vergine. Le mormorai qualcosa all'orecchio. Le assicurai che ero delicato, esperto, capace di controllo. Andai fra le sue cosce a carezzare con la lingua il fetido tepore della sua vergine lussuria. Le presi una mano e chiusi le sue dita flessibili attorno alla mia pulsante virilità (oh che mani fresche)- - Non aver paura, - sussurrai, - non aver paura -. Scivolai dentro di lei rapidamente e agevolmente come una nave gigantesca in un porticciolo notturno. Le vidi negli occhi una breve fiammata di dolore, subito smorzata dalle lunghe agili dita del piacere. Non avevo mai provato un simile piacere, un accordo così totale... quasi totale, perché devo confessare che c'era un'ombra che non riuscivo a dissipare. Lei era stata una vergine, adesso era un'amante esigente. Esigeva un orgasmo che non riuscivo a darle, non mi lasciava più andare, non mi permetteva di riposarmi. Andammo avanti tutta la notte, con lei perennemente in bilico sul ciglio di quel dirupo, a un pelo dallo scivolare in quella dolce morte... ma niente di quello che facevo, e feci di tutto, riuscì a farcela arrivare. Alla fine, saranno state le cinque del mattino, mi allontanai di scatto da lei, delirante di stanchezza, ferito e angosciato per il mio fallimento. Giacemmo nuovamente fianco a fianco, e questa volta colsi nel suo silenzio un rimprovero inespresso. Non l'avevo forse portata via dal negozio in cui viveva relativamente tranquilla, non l'avevo forse portata in questo letto vantandomi della mia competenza? Le presi una mano. Era rigida e ostile. In un attimo pieno di panico mi resi conto che Helen avrebbe potuto lasciarmi. Era una paura che doveva tornare molto più avanti. Non c'era niente che potesse fermarla. Non aveva soldi, praticamente non aveva neppure un mestiere. Niente vestiti. Ma poteva lasciarmi lo stesso. C'erano altri uomini. Avrebbe potuto tornare a lavorare al negozio, - Helen, - dissi ansioso, - Helen... - Lei giaceva perfettamente immobile, sembrava quasi che trattenesse il respiro. - Verrà, vedrai, verrà... - e fui di nuovo dentro di lei, muovendomi lentamente, impercettibilmente, portandola con me lungo tutta la strada, passo a passo. Ci volle un'ora di lenta accelerazione, e quando l'alba grigia dell'ottobre trafisse le nubi che sovrastano Londra lei morì, venne, lasciò questo mondo sublunare... il suo primo orgasmo. I suoi arti si irrigidirono, gli occhi si persero nel nulla e un profondo spasimo interiore la attraversò con la violenza di un'onda oceanica. Poi si addormentò fra le mie braccia.
Il mattino seguente mi svegliai tardi. Helen dormiva ancora appoggiata al mio braccio ma riuscii a scivolare giù dal letto senza svegliarla. Indossai una vestaglia particolarmente sfolgorante, dono della mia seconda moglie, e andai in cucina a farmi un caffè. Mi sentivo un altro uomo. Guardai gli oggetti attorno a me, l'Utrillo sulla parete della cucina, un famoso falso di una statuetta di Rodin, i giornali del giorno prima. Irradiavano una nuova originalità, non erano più così familiari. Volevo toccare ogni cosa. Feci scorrere le mani sulla grana del legno del tavolo di cucina. Trovai delizioso versare i chicchi di caffè nel macinino e prendere un pompelmo maturo dal frigorifero. Amavo tutto il mondo perché avevo trovato la donna della mia vita. Amavo Helen e sapevo di essere amato. Mi sentivo libero. Lessi i giornali del mattino a gran velocità e molto più tardi ricordavo ancora i nomi dei ministri stranieri e i paesi che rappresentavano. Dettai al registratore una mezza dozzina di lettere, mi sbarbai, feci la doccia e mi vestii. Andai a dare un'occhiata a Helen, che dormiva ancora, esausta dal piacere. Anche quando si svegliò non volle alzarsi finché non avesse avuto qualcosa da mettersi addosso. Mi feci portare dall'autista nel West End e passai il pomeriggio a comperare vestiti. Sarebbe indelicato precisare quanto spesi, ma lasciatemi dire che pochi guadagnano altrettanto in un anno. Comunque, non le comprai un reggiseno. Li ho sempre trovati degli oggetti spregevoli, eppure a quanto pare solo le studentesse e le indigene della Nuova Guinea ne fanno a meno. E poi c'era la mia Helen a cui non piacevano, e questa era una bella fortuna.


Quando rientrai era sveglia. Avevo detto all'autista di posare i pacchi dalla sala da pranzo in camera da letto. Helen era incantata. le splendevano gli occhi e la gioia le mozzò il respiro. Scegliemmo insieme quello che avrebbe indossato subito, un lungo abito di sera di seta celeste. La lasciai a contemplare un totale di oltre duecento capi, e mi precipitai in cucina a preparare un pasto abbondante. Appena ebbi qualche minuto libero, tornai per aiutare Helen a vestirsi. Rimase in piedi, immobile, rilassata, a farsi ammirare. Naturalmente l'abito le stava a pennello. Ma soprattutto mi resi conto ancora una volta della sua genialità nell'indossare i vestiti, vidi la bellezza in un altro essere come nessun uomo l'aveva vista mai, visi... era arte, era il compimento assoluto della linea e della forma che solo attraverso l'arte si può realizzare. Helen mi parve luminescente. Ci fissammo negli occhi in silenzio. Poi le chiesi se le avrebbe fatto piacere visitare la casa.
Per prima cosa la portai in cucina. Le feci vedere tutti i vari aggeggi. Le indicai l'Utrillo appeso al muro (in seguito scoprii che non andava matta per la pittura). Le feci vedere il falso Rodin e le offrii addirittura di prendere in mano la statuetta ma lei si schermì. Poi la portai nel bagno e le feci vedere la vasca di marmo incassata nel pavimento e come si usavano i rubinetti che facevano vomitare l'acqua dai leoni d'alabastro con la bocca spalancata. Mi chiesi se non la trovasse una cosa un po' volgare. Lei non disse niente. La condussi in sala da pranzo... altri quadri con cui l'annoiai. Le feci vedere il mio studio, la prima edizione in-folio di Shakespeare, rarità assortite e parecchi telefoni. Poi la stanza delle riunioni. In realtà non c'era nessun bisogno che la vedesse. Forse a quel punto cominciavo a pavoneggiarmi un po'. E finalmente il grande ambiente che io chiamo semplicemente la stanza. Qui passo i miei momenti di piacevole riposo. Non vi scaglierò addosso altri dettagli come se fossero pomodori troppo maturi... è una stanza comoda e piuttosto esotica.
Vidi subito che a Helen la stanza piaceva. Restò sulla soglia, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, come per assimilare quello che vedeva. La portai fino a una grande soffice poltrona, la feci sedere e le versai quello di cui aveva proprio bisogno, un martini secco. Poi la lasciai e nell'ora successiva mi dedicai interamente alla preparazione del pranzo. Seguirono quelle che furono certamente le ore più civili da me trascorse in compagnia di una donna o, per quello che importa, di chiunque altro. Ho cucinato molti pasti per delle amiche a casa mia. Mi descriverei senza esitare come un cuoco eccellente. Uno dei migliori. Ma fino a questa particolare occasione le serate erano sempre state disturbate dal senso di colpa che antichi condizionamenti facevano provare alla mia ospite, perché ero io, e non lei, a stare in cucina, e io a servire a tavola e a portare via i piatti alla fine. E per tutto il tempo la mia ospite non smetteva di esprimere la sua sorpresa per il fatto che io, tre volte divorziato e uomo dalla testa ai piedi, fossi in grado di ottenere questi trionfi culinari. Helen no. Lei era mia ospite, e la cosa finiva lì. Non cercò di invadere la cucina, non continuò a tubare incessantemente: - Non c'è niente che possa fare? - Se ne stette seduta come deve fare un'ospite e si lasciò servire da me. E poi la conversazione. Con le altre mie ospiti avevo sempre vissuto la conversazione come un percorso a ostacoli disseminato dai fossati e dagli steccati della contraddizione, competizione, incomprensione e così via. La conversazione ideale per me è quella che consente a entrambe le parti di sviluppare il proprio pensiero in tutta la sua ampiezza, senza inibizioni, senza dover continuamente ridefinire le premesse e difendere le conclusioni. Senza nemmeno raggiungere le conclusioni. Con Helen riuscii ad avere questa conversazione ideale, riuscii a parlarle. Lei sedeva assolutamente immobile, con gli occhi fissi in un punto di fronte al suo piatto, e ascoltava. Le dissi molte cose di cui non avevo mai parlato a nessuno. Della mia infanzia, degli ultimi rantoli di mio padre, del terrore della sessualità che aveva mia madre, della mia iniziazione sessuale con una cugina più grande; le parlai di come andava il mondo e la nazione, della decadenza, del liberalismo, della narrativa contemporanea, di matrimonio, estasi e malattie. Prima che ce ne rendessimo conto erano passate cinque ore e avevamo bevuto quattro bottiglie di vino e mezza di porto. Povera Helen. Dovetti portarla a letto e spogliarla. Giacemmo con braccia e gambe intrecciate, e non fummo in grado di far altro che cadere in un sonno profondo e beato.
Questo fu il nostro primo giorno insieme, e questo fu il modello dei molti mesi felici che seguirono. Ero un uomo felice. Dividevo il mio tempo fra Helen e far soldi. Quest'ultima attività la portai avanti con un successo spontaneo e rigoglioso. Anzi, in questo periodo diventai talmente ricco che il governo del momento ritenne che per me potesse essere pericoloso non avere un posto influente. Naturalmente accettai la nomina a cavaliere, ed Helen ed io celebrammo in grande stile. Ma rifiutai di servire il governo con una qualsiasi qualifica, tanto lo consideravo indissolubilmente connesso alla mia seconda moglie, che a quanto pareva esercitava una notevole influenza sui ministri in carica. L'autunno diventò inverno e ben presto i mandorli nel mio giardino si coprirono di boccioli, ben presto le prime tenere foglioline verdi comparvero nel mio viale di querce. Helen ed io vivevamo in una perfetta armonia che nulla poteva disturbare. Io facevo l'amore, facevo i soldi, parlavo, Helen ascoltava.
Ma ero uno sciocco. Niente può durare. Lo sanno tutti, ma nessuno crede che non ci siano eccezioni. È arrivato il momento, purtroppo, di parlarvi di Brian, il mio autista.
Brian era il perfetto autista. Non parlava se non quando gli si rivolgeva la parola, e in questo caso solo per assentire. Teneva segreto il suo passato, le sue ambizioni, il suo carattere, e io ne ero lieto perché non desideravo sapere da dove venisse, dove avesse intenzione di andare o chi credesse di essere. Guidava in modo competente e oltraggiosamente veloce. Sapeva sempre dove parcheggiare. Quando finiva in una coda in pieno traffico era sempre in testa, e raramente finiva in una coda. Conosceva tutte le scorciatoie, tutte le strade di Londra. Era instancabile. Poteva aspettarmi una notte intera a un dato indirizzo, senza fare ricorso alle sigarette o a riviste pornografiche. La macchina, i suoi stivali e la sua uniforme erano sempre impeccabili. Era pallido, sottile e ordinato e dimostrava un'età qualsiasi fra i diciotto e i trentacinque anni.
Ora potrà stupirvi che, orgoglioso com'ero di Helen, io non l'avessi presentata ai miei amici. Non la presentai a nessuno. Lei non sembrava aver bisogno di altra compagnia all'infuori della mia e io ero soddisfatto di lasciare le cose così. Perché avrei dovuto trascinarla nei tediosi circuiti mondani della Londra bene? E poi lei era piuttosto timida, all'inizio perfino con me. Non avevo fatto eccezione per Brian. Senza tenere esplicitamente segreta la cosa, non lo lasciavo entrare in una stanza se c'era Helen. E se volevo andare in macchina con Helen davo la giornata libera a Brian (che viveva sopra il garage) e guidavo io stesso.
Tutto molto chiaro e semplice. Ma poi le cose si guastarono e ricordo con grande chiarezza il giorno in cui cominciò tutta la faccenda. Circa a metà maggio tornai a casa dopo una giornata incredibilmente stancante ed esasperante. Allora non lo sapevo (però lo sospettavo) ma avevo perso quasi mezzo milione di sterline per un errore che era stato esclusivamente mio. Helen era seduta nella sua poltrona preferita e non stava facendo niente di particolare, e entrando vidi qualcosa nel suo sguardo, qualcosa di così evasivo, così impalpabilmente gelido che dovetti far finta di non accorgermene. Bevvi un paio di scotch e mi sentii meglio. Mi sedetti accanto a lei e cominciai a raccontarle della mia giornata, di quello che era successo, di come era stata colpa mia, di come avevo impulsivamente accusato qualcun altro per poi dovergli chiedere scusa... e così via, quelle carie in una giornata guasta che si ha il diritto di mostrare solo alla propria compagna. Ma avevo parlato un po' meno di trentacinque minuti quando mi accorsi che Helen non mi ascoltava affatto. Si fissava rigidamente le mani che aveva abbandonate sulle ginocchia. Era lontana, molto lontana. Fu una rivelazione talmente spaventosa che per un attimo non riusciia far altro (ero come paralizzato) che continuare a parlare. Poi non lo sopportai più. Mi fermai a metà di una frase e mi alzai. Uscii dalla stanza sbattendo la porta alle mie spalle. Helen non alzò nemmeno gli occhi. Ero furioso, troppo furioso per parlare con lei. Mi sedetti in cucina a bere alla bottiglia lo scotch che per fortuna mi ero ricordato di prendere. Poi feci una doccia.
Quando tornai nella stanza mi sentivo notevolmente meglio. Ero rilassato, un po' ubriaco e pronto a scordare tutta la faccenda. Anche Helen sembrava più trattabile. Da principio avevo intenzione di chiederle cosa c'era, ma ricominciammo a parlare della mia giornata e in men che non si dica eravamo di nuovo quelli di sempre. Sembrava insensato tornare sull'argomento adesso che andava tutto bene. Ma avevamo finito di pranzare da un'ora quando suonò la porta di ingresso, il che di sera succedeva raramente. Mentre mi alzavo colsi casualmente sul viso di Helen lo stesso sguardo spaurito della nostra prima notte d'amore. Alla porta c'era Brian. Aveva in mano un documento che io dovevo firmare. Qualcosa che riguardava la macchina e che avrebbe potuto benissimo aspettare fino alla mattina dopo. Mentre davo un'occhiata a quello che avrei dovuto firmare, notai con la coda dell'occhio che Brian sbirciava furtivamente in anticamera alle mie spalle - Stai cercando qualcosa? - gli chiesi bruscamente. - No, signore, - rispose. Firmai e chiusi la porta. Ricordai che siccome la macchina era in garage per una revisione Brian era rimasto a casa tutto il giorno. Ero andato in ufficio con un taxi. Questo fatto, più la stranezza di Helen... quando associai le due cose fui preso da un tale senso di nausea che per un attimo mi sembrò di dover vomitare e mi precipitai in bagno.
Comunque, non vomitai. Invece mi guardai allo specchio. Vidi un uomo che fra meno di sette mesi avrebbe compiuto quarantacinque anni, un uomo con tre matrimoni incisi attorno agli occhi, con gli angoli della bocca cascanti per un'intera vita al telefono. Mi gettai dell'acqua fredda in faccia e raggiunsi Helen nella stanza. - Era Brian, - dissi. Lei non rispose, non riuscì a guardarmi in faccia. La mia voce suonava nasale e piatta. - Di solito non viene mai la sera... - Lei continuò a non rispondere. Che cosa mi aspettavo? Che improvvisamente decidesse di confessare una relazione col mio autista? Helen era una donna silenziosa, non le era difficile nascondere i propri sentimenti. Nemmeno io potevo confessare quello che provavo. Avevo troppa paura di aver ragione. Non avrei sopportato di sentirle conformare un'idea che stava nuovamente minacciando di farmi vomitare. Buttai là quelle frasi solo per darle modo di proseguire nella finzione... desideravo tanto sentirle negare tutto pur sapendo che sarebbe stata una menzogna. In breve, compresi di essere in suo potere.
Quella notte non dormimmo insieme. Mi preparai il letto in una delle camere degli ospiti. Non volevo dormire da solo, anzi, l'idea mi era odiosa. Immagino (ero talmente confuso) di aver voluto fare tutti i preparativi in modo che Helen mi chiedesse cosa stavo combinando. Volevo sentirmi dire di non fare lo scemo, di venire a letto, nel nostro letto. Ma lei non disse nulla, assolutamente nulla. Prese tutto per scontato... adesso la situazione era questa e non potevamo più dormire nello stesso letto. Il suo silenzio rappresentava una mortale conferma. O magari c'era una vaghissima possibilità (giacevo sveglio nel mio nuovo letto) che fosse semplicemente irritata per i miei capricci. Ormai ero in preda alla confusione. Per tutta la notte continuai a rigirarmi la faccenda nella testa. Forse lei Brian non l'aveva neanche mai visto. Non poteva darsi che la cosa fosse solo un frutto della mia immaginazione? Dopotutto, era stata una pessima giornata. Ma era assurdo, perché la situazione era poi questa, in realtà... letti separati... d'altra parte cosa avrei dovuto fare? Cosa avrei dovuto dire? Considerai ogni possibilità, una battuta di classe, un silenzio pungente, qualche acuto aforisma che lacerasse gli inconsistenti veli dell'apparenza. Chissà se adesso era sveglia anche lei, a pensare? O dormiva della grossa? Come avrei potuto scoprirlo senza farle capire che ero sveglio? Cosa sarebbe successo se lei mi avesse lasciato? Ero alla sua mercé, completamente.
Manderei in bancarotta il linguaggio quotidiano se tentassi di spiegarvi di cosa furono intessute le mie giornate nelle settimane seguenti. Era l'orrore arbitrario di un incubo. Sembravo un arrosto infilzato in uno spiedo che Helen girava lentamente. Sbaglierei se cercassi di convincermi retrospettivamente che ero stato io a creare quella situazione; ma oggi so che avrei potuto por fine prima al mio tormento. Divenne la regola che io dormissi nella camera degli ospiti. L'orgoglio mi impediva di tornare al letto nuziale. Volevo che fosse Helen a prendere iniziativa. Dopo tutto era lei che aveva tanto da spiegare. Su questo punto ero adamantino, era la mia unica certezza in un periodo di desolata confusione. Dovevo pur aggrapparmi a qualcosa... e come vedete sono sopravvissuto. Helen ed io ci rivolgevamo a malapena la parola. Eravamo freddi e distaccati. Ognuno dei due evitava lo sguardo dell'altro. La mia follia era di credere che se fossi rimasto in silenzio abbastanza a lungo lei sarebbe crollata e avrebbe deciso di parlarmi, di dirmi quello che secondo lei ci stava succedendo. E così mi lasciavo arrostire. Di notte i brutti sogni mi facevano svegliare urlando e passavo i pomeriggi a cercare malinconicamente di riconsiderare con chiarezza il problema. C'erano gli affari da mandare avanti. Spesso dovevo stare lontano da casa, a volte a centinaia di chilometri, certo che Brian ed Helen stessero celebrando la mia assenza. Ogni tanto telefonavo a casa dagli alberghi o dagli aeroporti. Non rispondeva mai nessuno, eppure fra un impulso elettronico e l'altro sentivo Helen che ansimava in camera da letto in un parossismo di piacere. Vivevo in una valle cupa sull'orlo delle lacrime. La vista di una bambina che giocava col suo cane, il riflesso del tramonto in un fiume, una frase pregnante in un annuncio pubblicitario erano sufficienti a farmi sciogliere. Quando tornavo a casa da questi viaggi d'affari, desolato, affamato di amicizia e di amore, capivo nell'attimo stesso in cui oltrepassavo la soglia che Brian se n'era andato da poco. Niente di tangibile a parte la sensazione della sua presenza nell'aria, qualcosa nel letto rifatto, un odore diverso nel bagno, la posizione della caraffa dello scotch sul vassoio. Helen faceva finta di non vedermi mentre mi aggiravo angosciato di stanza in stanza, faceva finta di non sentirmi singhiozzare nel bagno. Potreste chiedermi perché non licenziai il mio autista. La risposta è semplice. Avevo paura che se Brian se ne fosse andato Helen l'avrebbe seguito. Non tradii mai i miei sentimenti con l'autista. Io davo gli ordini e lui guidava, mantenendo come sempre la sua ossequiosità senza volto. Non notai nulla di diverso nel suo comportamento, anche se non mi curai di guardarlo troppo attentamente. Sono convinto che non seppe mai che io sapevo, e almeno questo mi diede un'illusione di potere su di lui.
Ma queste sono sottigliezze periferiche e crepuscolari. Essenzialmente, ero un uomo che si stava disintegrando, stavo andando in pezzi. Mi addormentavo al telefono. I miei capelli cominciarono a liberarsi dello scalpo. La mia bocca si riempì di ulcere e il mio respiro aveva il fetore delle carcasse in decomposizione. Notai che i miei colleghi di lavoro quando parlavo facevano un passo indietro. Nell'ano mi cresceva un foruncolo purulento. Ero uno sconfitto. Cominciavo a capire la futilità dei miei silenziosi giochetti d'attesa con Helen. In realtà non esisteva fra di noi una situazione su cui giocare. Se ero in casa lei se ne stava tutto il giorno seduta in poltrona. Certe volte restava seduta lì tutta la notte. In parecchie occasioni mi capitò di uscire di casa la mattina presto, lasciandola nella sua poltrona con gli occhi fissi sui disegni del tappeto, e quando tornavo a casa la sera tardi era ancora lì. Sa il cielo se avrei voluto aiutarla. La amavo. ma non potevo far niente finché lei non aiutava me. Ero chiuso nel disperato sotterraneo della mia mente e la situazione sembrava assolutamente senza speranza. Un tempo ero un uomo che passava di corsa davanti alla vetrina di un negozio e dava un'occhiata distratta, adesso ero un uomo col fiato cattivo, foruncoli e ulcere. Stavo andando in pezzi.
Dopo tre settimane di questo incubo, quando mi parve che non ci fosse altro da fare, ruppi il silenzio. Giocai il tutto per tutto. Avevo trascorso la giornata passeggiando ad Hyde Park per raccogliere i pochi fili sparsi della mia ragione, della mia forza di volontà, della mia affabilità in vista del confronto che avrebbe avuto luogo quella sera, come avevo deciso. Bevvi un po' meno di un terzo di una bottiglia si scotch, e verso le sette di sera andai in punta di piedi in camera da letto, dove lei era chiusa da due giorni. Bussai piano poi, non ricevendo risposta, entrai. Era sdraiata sul letto completamente vestita, con le braccia lungo i fianchi. Indossava uno smorto grembiule di cotone. Aveva le gambe ben aperte e la testa inclinata sul cuscino. Quando mi fermai di fronte a lei nei suoi occhi passò a malapena un lampo di riconoscimento. Il cuore mi batteva selvaggiamente e la puzza del mio fiato riempì la stanza come un vapore venefico. - Helen, - dissi, e dovetti interrompermi per schiarirmi la voce, - Helen, non possiamo andare avanti così. È ora che parliamo un po' - E poi, senza darle la possibilità di rispondere, le dissi tutto. Le dissi che sapevo della sua relazione. Le dissi del mio foruncolo. Mi inginocchiai accanto al letto. - Helen, - gridai, - è stata una cosa così importante per tutte e due. Dobbiamo lottare per salvarla -. Silenzio. Tenevo gli occhi chiusi e mi parve di vedere la mia anima allontanarsi da me in un immenso vuoto nero finché fu una puntura di spillo di luce rossa. Alzai gli occhi, li fissai nei suoi e ci vidi un tranquillo, nudo disprezzo. Era tutto finito, e in quell'attimo di frenesia concepii due desideri selvaggi e affini. Violentarla e distruggerla. Con un unico improvviso gesto della mano le tolsi di dosso il grembiule. Sotto non aveva niente. Prima che avesse anche solo il tempo di respirare le fui sopra, le fui dentro, spinsi in profondità come un ariete mentre la mia mano destra si chiudeva attorno alla sua tenera candida gola. Con la sinistra le misi un cuscino sulla fascia.
Venni mentre moriva. Questo posso dirlo con orgoglio. So che per lei la morte è stata un attimo di intenso piacere. Udii le sue grida attraverso il cuscino. Non vi tedierò con descrizioni rapsodiche del mio piacere. Fu una trasfigurazione. Ed ecco che lei giaceva morta fra le mie braccia. Ci volle qualche minuto perché comprendessi l'enormità di quello che avevo fatto. La mia cara, dolce, tenera Helen giaceva morta fra le mie braccia, morta e pietosamente nuda. Svenni. Quando rinvenni mi parve che fossero trascorse delle ore, vidi il cadavere e prima di fare in tempo a girare la testa le vomitai addosso. Come un sonnambulo mi trascinai in cucina, mi avventai sull'Utrillo e lo feci a brandelli. Gettai il falso Rodin nella spazzatura. Poi corsi come un pazzo nudo di stanza in stanza distruggendo tutto quello che mi capitava sottomano, Mi fermai solo per finire lo scotch. Vermeer, Blake, Richard Dadd, Paul Nash, Rothke, li strappai, calpestai, maciullai, li presi a calci, ci defecai e orinai sopra... i miei beni preziosi... oh mio bene... danzai, cantai, risi... piansi a lungo nella notte.

 

(Tratto da Racconti, Einaudi editrice, Torino, 1996, traduzione di Stefania Bertola)




Ian Mc Ewan


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