UNA GIORNATA DI PRIMAVERA A URBIGNY-SUR-LARVE


Jean-Jacques Langendorf


La guerra è fatta da quelli che si odiano
senza conoscersi, a vantaggio di quelli
che si conoscono e non si odiano.

PAUL VALERY


Vi sono cose, come questa, in cui ci vuole tempo per capire. Parole, gesti, talvolta persone in carne e ossa. Ingiustizie anche, che forse è ancora più arduo capire. State per ascoltare una vecchia storia. Della prima guerra. Dei bollori della primavera 1916. Avevo dodici anni (come vedete, è una vecchia storia), esattamente dodici anni, poiché sono nato nel giugno 1904, a Urbigny, cantone di Chareuse, dipartimento di Gers. Mio padre era fattore, mia madre figlia di modesti contadini. Ho avuto un'infanzia felice. Vivevamo fuori dal villaggio, in una piccola casa dal tetto rosso e assai spiovente che mio padre aveva ereditato da uno zio vedovo senza figli. Intorno a noi si stendevano boschi di castagni, traversati dalla Larve che senza affrettarsi (con un simile nome!) scorre verso Est. In estate vi facevamo il bagno, costruivamo piccole dighe, porti, mulini che, ai nostri occhi, apparivano fiabesche macchine a vapore. Talvolta, in vena di caccia, catturavamo dei gamberi. Dico catturavamo, perché mi riferisco, oltre a me stesso, a mio fratello, maggiore di otto anni, e ad alcuni ragazzi del villaggio. Nel '14 mio fratello non partì. Aveva preceduto la sua classe, arruolandosi nell'artiglieria. Mio padre non fu chiamato. Era troppo vecchio. Si contentò di vaghe funzioni (non so più quali) nella milizia territoriale. Come tutti i bambini della mia età e della mia generazione, seguivo le operazioni militari con passione. Dimenticai le dighe, i bagni e persino Huron, il mio coniglio ammaestrato. Una volta alla settimana l' "Illustration" mi trasferiva direttamente sul fronte: direi quasi che attraversavo le sue foto per ritrovarmi servente di un cannone da 75, granatiere in trincea, valorosa sentinella che, all'angolo di un muro crollato, vigila una coorte di prigionieri tedeschi dai piccoli occhiali di metallo, aviatore nell'atto di abbattere in serie, con la mitraglia, arroganti "Aviatiks".
Le illustrazioni che preferivo erano i disegni, soprattutto di George Scott: indimenticabili cariche, "rosalie al cannone", ulani con la schiuma alla bocca, trapassati dalle sciabole - credo si chiamassero bancals - dei nostri eroici dragoni.
Mia madre si rifiutava di sfogliare quelle pagine e non approvava che io le leggessi. Lei pensava al fronte, a mio fratello, alla morte. Tuttavia, non c'era da stare tanto in pensiero. Avevamo saputo che era stato assegnato all'intendenza d'una batteria di artiglieria pesante, assai indietro, e le sue lettere ci rassicuravano che non aveva mai visto il fuoco. Quanto a mio padre, lui voleva che leggessi l' "Illustration". Pensava che fosse un bene che vedessi, attraverso le sue stupefacenti immagini, la grandezza del sacrificio imposto alla Francia per respingere gli Unni e, infine, per garantire benessere al nostro cantone, tra Urbigny e la Larve.
Curiosamente, a metà di quel 1916, benché i giovani e i meno giovani del villaggio fossero stati mobilitati, mio padre non aveva ancora bussato a una porta per porgere in compagnia del sindaco il tragico telegramma. Sembrava che Dio volesse proteggerci, ma con la più grande soddisfazione del curato che non mancava mai, nei suoi sermoni, di esortarci a uno zelo maggiore per testimoniare la nostra gratitudine verso la bontà - "l'infinita, l'impenetrabile saggezza" - dell'Onnipotente. Il nazionalismo ombroso di padre Garissard, che pretendeva di aver fatto fuoco sul Prusco nel '71, s'impermaliva quasi per quel "miracolo", soprattutto dopo tre sorsate di acquavite, poiché noi eravamo i soli in tutto il cantone a non avere "nostri" eroi. E neanche la benché minima menzione di uno dei nostri "giovanotti", così diceva, all'ordine della divisione, o più umilmente ancora, del reggimento. La mia opinione non era molto lontana dalla sua. Avevo acquisito, a scuola, una certa notorietà per il mio sciovinismo estremo e per l'aggressività del mio bellicismo. A forza di leggere e di rileggere l' "Illustration", di interrogare mio padre (che disponeva di informazioni inedite, poiché prima di portare "Le Gaulois" al conte di Gironcourt, che possedeva 500 ettari e un castello dietro il castagneto, lo leggeva accuratamente) e padre Garissard, la cui conoscenza militare era ineccepibile, mi ero fatto un bagaglio che esponevo confusamente ai miei sbigottiti compagni.
Ero documentatissimo sui calibri dell'artiglieria, il numero delle divisioni, il colore delle uniformi e delle bandiere, il tonnellaggio delle navi di combattimento e altro. Il nostro istitutore, il signor Clavéria, che per una forte claudicazione non era partito, e il cui cuore vibrava forte, ci leggeva, quando riteneva che l'avessimo meritato, quelli che chiamava "i poemi forti". Una parte di quei versi, dedicati "Al '75" mi è sempre rimasta nella memoria:

"Eh bien! petit canon qui n'est plus une chose
Mais un être agissant, digne d'apothéose,
Quant à force de parler haut
Ta voix imposera silence
Au croassement du corbeau,
Comme c'est toi, sur le plateau,
Qui fera pencher la balance;
Comme l'univers à jamais
Te devra l'éternelle paix
Et la France un nouveau prestige..."

A sera, soprattutto quando pioveva e il vento soffiava nel castagneto, rannicchiato sotto il piumino, che immaginavo fosse un blockhaus in avamposto, li recitavo con furore.
Mio padre e io avevamo affisso nella cucina, a sinistra del camino, una grande carta geografica - dono di Natale di non so più quale istituzione - e, ogni volta che il fronte si spostava, montavo su una sedia per collocare le bandierine colorate che avevo personalmente confezionato.
Gli avvenimenti non evolvevano velocemente secondo i miei desideri, e io immaginavo armi così terrificanti e, insieme, così imprecise da annientare in un'apoteosi infernale, il "Chleuh", il "Crucco", "l'immondo incendiario di Louvin e di Senlis".
In breve, un universo infantile, riflesso, d'altra parte, conforme al mondo degli adulti, dove tutto è al suo posto in una bella armonia che consente al Bianco, cui ero fiero di appartenere, e al Nero, che doveva logicamente soccombere, di fronteggiarsi senza esitazioni.
Sì, una bella armonia! Fino a quel giorno di metà maggio del 1916. Ricordo che non era né una domenica né un giovedì. Il pomeriggio era appena iniziato e io non ero a scuola. Il signor Clavéria s'era forse ammalato, come spesso gli accadeva, e ci aveva dispensati dall'andare in classe.
Ero seduto sulla panchina davanti alla casa, a chiedermi cosa avrei fatto durante il lungo pomeriggio. Sentivo mia madre maneggiare pentole e piatti nella cucina. Un volo di merli si levò dal castagneto, come se un colpo di vento li avesse scacciati. Eppure tutto era calmo e il caldo accresceva l'immobilità delle cose. Alzai la testa, tirai fuori dalla tasca dei calzoni la fionda, destinata, nella mia immaginazione, all'eliminazione tanto dei passeri quanto dei Crucchi.
E vidi.
Sopra di me, a qualche metro da terra, tra le case e gli alberi, sospeso sull'orto, ondeggiava un ragno enorme, il simbolo aborrito della razza maledetta. Un'abominevole croce nera, così grande che mi sembrava schiacciasse tutto, animali, alberi e case. Nello stesso tempo una spessa ombra avvolse la mia panchina, il giardino, il margine del bosco. Nella cucina il rumore delle stoviglie cessò. Da lontano - ricordo con precisione, poiché in mezzo alle grandi cose sono le piccole che ci sconvolgono - udii lo stridio di un'allodola. Ero irrigidito, con la fionda in mano, incapace del benché minimo gesto, con il cuore e il sangue bloccati. E, a distanza d'uno sputo, sempre l'orrenda croce. Non avevo neppure la forza di chiamare mia madre. Tutto mi appariva come se la vita si fosse fermata.
Con uno strano piccolo rumore, tra il ticchettio e il fischiettio, la croce si allontanò, sollevandosi un po' per perdersi dietro i castagni, dietro la Larve. Poi più nulla. Nessun suono; solo il silenzio della natura in agguato, come prima delle grandi tempeste, o, come avrei appreso dopo, dei terremoti. D'improvviso l'orizzonte si infiammò tra le terre del conte e il fiume, e il sibilo delle fiamme rosse, inframmezzate di nero - come il drappo che faceva da sfondo alla croce maledetta - piegò la cima degli alberi, sparpagliando foglie e scorie un po' dappertutto. Le mie impressioni divennero in seguito più confuse, poiché mia madre, strappandomi dalla mia panchina, mi trascinò in cucina, mi spinse dietro la stufa di ghisa e chiuse la porta di legno e le imposte. Piangevo. Avevo molta paura. Mia madre sedette accanto a me, piangendo anche lei. "Mio dio, è uno zeppelin, uno zeppelin precipitato nel bosco". Il mistero della croce nera si sciolse. Possedevo la mia spiegazione e mi sentivo rassicurato. Come un galletto bellicosamente nutrito, mi drizzai sugli speroni. "Crucchi, Crucchi, qui, vicino casa!" Non avevo che un'idea: correre, andare a vedere, impossessarmi d'un pezzo della carcassa bruciata per mostrarla ai miei compagni e anche, perché no, portargli un prigioniero. (Dentro di me pensavo: ferito sarà più debole di me, così potrò legarlo e trascinarlo via. Come si vede, ero consapevole della mia giovinezza!)
Fuori, il crepitio si faceva più forte. Le fronde dei castagni cominciavano a bruciare, Poi vi fu nuovamente silenzio. Un odore di gomma bruciata invase la cucina. Mi alzai in piedi. Mia madre appariva più calma. Si udì un rombo lontano, familiare questa volta, l'inizio di un temporale. Mia madre si avvicinò alla finestra e scostò le tende. Scrutò il cortile, il castagneto e la Larve. Vidi un fumo fitto dietro gli alberi. Qualcosa di opaco, di così denso che ebbi l'impressione di contemplare un cavatappi risucchiato da un cielo impeccabilmente azzurro. Infine mia madre aprì la porta e uscì di casa. Mi accostai a lei, ma non troppo. Non volevo soprattutto che mi prendesse la mano. Mi sentivo in "stato di guerra", come un eroe risoluto ad affrontare la fetta di storia offertagli dal destino.
Restammo là, immobili, non sapendo che fare.
Avevo pensato di correre verso la Larve, di attraversarla, per vedere cosa fosse successo. Ma non osavo. Sapevo che mia madre me l'avrebbe impedito. Il cavatappi si torse ancora una o due volte su se stesso, si abbassò, si gonfiò, poi disparve, inghiottito dagli alberi. Alcune scorie volarono verso l'innaffiatoio e verso la capanna destinata agli attrezzi, poi si posarono dolcemente sull'erba e sul ghiaietto del cortile. Gli uccelli, tornati sui rami, ripresero il loro canto. Noi eravamo sempre lì, fermi e muti, al cospetto della consueta calma che la lenta apparizione della croce nera e l'orrore del fuoco avevano frantumato per un istante.
Fu allora che un uomo apparve, non sulla strada del villaggio, ma sul sentiero che spariva nei boschi e procedeva lungo la Larve, per attraversarla su quello che io chiamavo "il ponte": due umili assi sorretti da alcuni pali.
L'uomo avanzava con passo tranquillo come uno di quei cercatori di funghi che talvolta, la domenica, prendevano quel sentiero. Venne dritto verso di noi, come un vagabondo che, a sera, stanco del suo andare si dirige alle fattorie e chiede un pasto ai contadini. "Bene, pensai, finalmente sapremo che è successo laggiù". L'uomo avanzava sempre. Solo quando fu a qualche metro da noi compresi chi fosse. Mia madre, che mi afferrò brutalmente, lo comprese come me: un tedesco. Non ci lasciò il tempo di entrare in cucina e chiudere la porta. Fece un breve inchino e sorridendo: "Signora, potrei sedere per un istante da voi nell'attesa dei soccorsi?" Non notai neppure (sono cose che sfuggono, poiché a quell'età sembrano scontate) che parlava francese alla perfezione, senza inflessione. Notai, invece, la sua tenuta. Eleganti stivali neri, pantaloni grigi profilati da bordini blu, un giubbotto di cuoio col collo di pelliccia, chiuso fin sotto il mento. Nel mezzo del bavero, la stessa croce nera che avevo visto nel cielo e che conoscevo bene. Guardavo, affascinato. Notai inoltre che non portava armi. Mia madre, paralizzata, non rispose alla domanda, ma mi strinse ancora più forte a lei. Il viso regolare e giovanile del tedesco si volse allora verso me: "Come ti chiami, piccolo?" Senza pensare che avevo davanti il nemico, il Crucco infame, "la cimice puzzolente", come diceva Garissard, gli risposi: "Frédéric". Sorrise, infilò le mani in tasca: "Sai che abbiamo avuto un grande re che portava questo nome?" Non lo sapevo. Ero intimidito. Il nostro istitutore non mi aveva mai parlato di quel re. Abbassai gli occhi. Avevo paura di piangere. Il tedesco si volse di nuovo a mia madre: "Perdoni la mia insistenza, madame, ma potrei entrare per un istante a sedere?" Mia madre parve infine comprendere. Si voltò, aprì la porta, entrò in cucina dove ronzavano le mosche e spinse una sedia verso il tavolo. Ci guardò, sempre sorridendo, poi osservò intorno, esaminando la cucina con estrema cura. Fermò lo sguardo al di sopra del camino, dove erano allineate delle fotografie. Poi si rivolse a mia madre: "Avete un figlio al fronte, madame, in artiglieria?" Per la prima volta mia madre parlò: "Sì, signore, al fronte". "È una cosa terribile e curiosa questa guerra, madame. Un quarto d'ora fa ero libero, nell'aria, e adesso eccomi in una cucina francese! Potrei bere qualcosa?" Senza rispondere mia madre si mise al fornello per riscaldare il caffè. Il tedesco aveva un tono molto distinto, parlava come il signor conte. Mia madre e io avevamo istintivamente riconosciuto l'inflessione di quelli che non sono del nostro rango, che vengono da un altro mondo, "dall'alto", e, nel caso dello straniero, da molto alto. Avevo l'impressione di assistere alla visita annuale del signor di Gironcourt, a capodanno, per le strenne. Mia madre mi chiese di cercare una tazza e due zollette di zucchero nella credenza. Fu in quell'istante che giunse mio padre. Udimmo sferragliare la sua bicicletta, che lui lasciò cadere al suolo. Un segno d'agitazione inconsueto per mio padre, un uomo calmo e riflessivo. Lo vedo ancora oggi entrare in cucina, trafelato, con l'uniforme in disordine, senza berretto, seguito da Roselle, il vicesindaco. Al cospetto dello straniero seduto i due uomini si irrigidirono. Non so bene cosa li paralizzasse, se il terrore per il tedesco o la calma che, malgrado tutto, emanava la scena. L'uomo accomodato, mia madre nell'atto di scaldare il caffè, io in ginocchio, in cerca d'una tazza e dello zucchero nella credenza. Il tedesco, come se fosse a casa sua, decise di mettere i due a proprio agio. Si alzò: "Luogotenente di vascello von Büzlar, comandante dello zeppelin L-107, caduto davanti casa vostra". Aggiunse poi, come per rassicurare i due uomini: "Non temete, sono vostro prigioniero". Ne approfittai per posare la tazza sull'incerata del tavolo. Mio padre, visibilmente alleviato (sembrava, tuttavia, aver percepito anche lui d'avere a che afre con un "capo", con qualcuno, insomma, che non era del suo rango), prese a raccontare con febbrilità inusitata le peripezie che aveva passato. Si trovava nei pressi della scuola quando aveva visto lo zeppelin sfiorare gli alberi e poi sparire dietro il bosco, al di là della casa. Aveva avuto paura per noi. Non aveva aspettato le fiamme e il fumo per montare in fretta sulla bicicletta. Aveva anche provveduto a dare a Lorgneux, il farmacista, la chiave della posta perché potesse telefonare alla gendarmeria di Sarronges. L'intero villaggio era sul luogo dell'incendio con il sindaco e i pompieri. Il tedesco ascoltava con lucido interesse, non di più. Mia madre gli versò il caffè. Io mi ero già abituato alla sua presenza, non così mio padre. Si è parlato molto in questi ultimi tempi di marziani. Ebbene, signore, un personaggio venuto da un altro pianeta, verdastro, con delle antenne, non avrebbe provocato un tale effetto su di lui. Fu il tedesco, sempre più a suo agio, che chiese a Roselle e a lui di accomodarsi. Indicando poi col dito la pendola, chiese a mio padre: "Come chiamate questo genere di orologio? Lo sapevo, ma l'ho dimenticato". "Un orologio da muro", rispose mio padre. "Ah, sì, è così, un orologio da muro, ne abbiamo uno simile a casa nostra". Ebbe la sensazione che conoscesse perfettamente il termine e che aveva posto la questione solo per avviare la conversazione. Tutto ricade poi nel silenzio. Mia madre si teneva dietro la sedia dell'ufficiale, le mani incrociate sul grembiule; Roselle e mio padre, seduti alle estremità delle loro sedie, tenevano gli occhi bassi. Io, invece, accanto alla credenza, contemplavo con avidità lo stupefacente spettacolo. Come la mia paura diminuiva, così sogni eroici riaffioravano. Un Crucco nella cucina dei miei genitori! Un ufficiale! E uno dei loro sporchi zeppelin ridotto a carcassa sul prato! Ah, l'artiglieria francese! I gendarmi sarebbero venuti a prelevarlo, e noi avremmo visto quello che avremmo visto!
Roselle, le sue cariche lo spronarono forse al coraggio, si decise a chiedere al tedesco come fossero andate le cose. "Non posso dirvi molto. Rivelerò i particolari ai vostri superiori". (Mi sembrò che volesse marcare una distanza davvero definitiva). "Siamo stati colpiti dalla vostra artiglieria antiaerea. La guaina. E i motori. Abbiamo perso quota. Il vento ci ha spinti fin qui. Nel cuore di questa... dolce Francia". Sembrò riflettere. Chinò il capo, sorrise ancora alla sua maniera. "Sì, dolce Francia". Mentre parlava io m'ero avvicinato. Lui, quello portato da una croce nera, volevo vederla quella croce che recava al collo! Ero così vicino, così piccolo, che non poté fare a meno di guardarmi. Smise di sorridere, infilò la mano nella tasca del giubbotto e ne trasse un distintivo che mi porse. Una piccola croce di ferro, con al centro una testa di Hindenburg. Qualcosa di assai banale, che i bambini della Germania dovevano scambiarsi sotto i portici delle scuole: "Prendi, in ricordo del grande zeppelin".


Una vettura scoperta, ancora più bella di quella del conte, si fermò davanti casa e fece suonare la sua tromba. A bordo v'erano due marescialli d'alloggio, un autista e un capitano. Quest'ultimo, giovane, elegante, con le mostrine dell'aviazione e un'uniforme che non avevo mai visto, dal taglio che gli si adattava alla perfezione, balzò fuori dalla macchina e si avviò verso mio padre e Roselle, con il quale scambiò qualche parola. Quando l'ufficiale apparve sulla soglia della porta, il tedesco si alzò. Abbozzò un inchino e, salutando, si presentò. Il francese lo guardò improvvisamente radioso: "Capitano Jean de Boissières, undicesima squadriglia. Lo stato maggiore mi ha telefonato e mi ha incaricato di venirvi a prendere e di occuparmi di voi. Sono davvero desolato di ritrovarvi in simili circostanze!" Rimpicciolendomi sempre più, poiché avevo paura che mi dicessero di andare a giocare, non persi una briciola della conversazione. L'ultima parte della frase mi parve curiosa fino all'estremo. Si conoscevano? Presero posto ciascuno a una estremità del tavolo. Mia madre offrì loro del vino. Si intrattennero familiarmente come due vecchi conoscenti ritrovatisi in un rifugio dopo una battuta di caccia. Ero disorientato. Mi ero immaginato che la cattura del prigioniero si sarebbe svolta nella stessa glaciale dignità che avevo visto nell' "Illustration", e che dopo aver deposto i gradi, secondo l'uso militare, il tedesco sarebbe montato sulla vettura, scortato dai marescialli d'alloggio. Niente di questo: vino, sigarette, cortesia. I due marescialli, seduti sulla panchina davanti casa, discutevano con mio padre e Roselle. Mia madre, accanto all'acquaio, sembrava aspettare ordini dai due ufficiali, come una serva. Quanto a me, che ero stato dimenticato, avevo la sensazione di assistere a una catastrofe ben più grande della caduta dello zeppelin. Nulla, veramente più nulla era al suo posto. Perfino il tedesco, così poco prigioniero, mi apparve come una finzione. Perché parlava il francese come il signor conte o come il capitano? Perché non era biondo con gli occhi di porcellana? Nessun accento tedesco, neppure i pugni sul tavolo, non un "ach", non un sorriso crudele, un rutto, o piccoli occhiali di ferro. Chi era quel Crucco caduto dal cielo? Il tedesco raccontava dell'abbattimento dello zeppelin, quella grande cosa piena d'aria, dal ventre squarciato, spinto per ore verso il sud da un vento leggero. L'atterraggio brutale, tra gli alberi, seguito dall'incendio. Le fiamme lo avevano risparmiato perché era stato scaraventato lontano, in una macchia. Non aveva neppure un graffio. Come una grande fiamma ossidrica, la lingua di fuoco aveva ghermito e arso vivo il suo equipaggio. Non c'erano stati superstiti. "Siate certo, barone, che i vostri uomini saranno sepolti con gli onori di guerra: completate le formalità, farò di tutto perché possiate assistere alle esequie". Fumando, i due ufficiali si fissavano senza animosità. Allora non potevo capire quello che correva tra i due. Oggi direi, con le parole che la vita mi ha insegnato, che la complicità li univa. Una complicità dettata dalla condizione della stessa esistenza, da alcune cose che li avevano uniti al di là delle distanze e delle frontiere. Qualcosa che allora mi era impossibile comprendere: le donne, gli alberghi che brillano come grandi piroscafi illuminati nella notte ingrata della città, i sigari e l'alcool dall'odore greve e speziato, le distrazioni inebrianti, i libri, i quadri, gli animali...
Fuori, l'ombra cominciava a segnare la linea degli alberi. Dolcemente la frescura della Larve, superando le sue rive, avvolse la casa. Il temporale minacciava sempre. È trascorso molto tempo, e il mio ricordo è un po' sbiadito. Non so più bene cosa fece mia madre (credo sia uscita più volte) né mio padre, né Roselle, né i soldati nel cortile. So soltanto che i due ufficiali seguitarono a discorrere e che quel dialogo - per i misteri e le affinità che celava - mi coinvolgeva e mi affascinava nello stesso tempo. Il tedesco, proveniente dalla marina, s'era appassionato all'aerostazione e all'aviazione, proprio come l'altro, che veniva dalla cavalleria. Si erano conosciuti in occasione di alcune dimostrazioni di volo a Berlino-Dahlem, a Chantilly, in Inghilterra. Si erano poi ritrovati nei rispettivi castelli, presentandosi le loro sorelle, le loro cugine. Si erano incontrati ancora a Bayreuth, a Touquet, a Venezia. Adesso si affrontavano nella modesta casa di un fattore, seduti davanti a una bottiglia di rosso, al margine d'una foresta francese, le vertebre fumanti di un dirigibile non molto lontano da loro. con cinque coperte grigie, per i morti stesi sull'erba. Nulla di questo stupiva. Erano come a casa loro, a bere e a fumare con calma, come avevano sempre fatto. Perché si sarebbero dovuti stupire? L'Europa non era forse un vasto salone che gli apparteneva? Non avevamo fretta di andar via.
Verso le sei il vecchio Joseph, guardiacaccia del conte, arrivò in bicicletta. Lo sentii salutare mio padre e i soldati. Poi entrò in cucina. Prima di mettersi sugli attenti davanti al capitano si tolse il berretto. "Il mio capitano, il signor conte, che è appena rientrato da Sarronges, e ha appreso quanto è accaduto, vi invita a cena con... (esitò un istante) ...il signor ufficiale tedesco". La mia testa da bambino non riusciva più a capire niente. Mai, né mio padre, né mia madre erano stati invitati al castello. Mai il vecchio Joseph ci aveva parlato in quella maniera. Che invitasse l'ufficiale francese nulla di strano... ma il tedesco... dal conte, che aveva un figlio ufficiale, tenente colonnello pure, superava ogni limite. Le cose erano definitivamente fuori posto, il mio piccolo universo vacillava. Il tedesco avrebbe dovuto essere condotto nella guardiola del campo d'aviazione con una sentinella, baionetta o fucile, davanti alla sua porta... Invece, sarebbe andato dal conte!
I due ufficiali si alzarono. Due fratelli, pensai, due uomini che si conoscono da sempre. Arrivati alla porta il francese si fece da parte: "Barone, ve ne prego" e con la mano indicò il cortile, la vettura. I marescialli d'alloggio si erano alzati. Non sapevano bene se dovevano salutare. Si diressero verso la vettura, aprirono gli sportelli. Una volta entrati, il tedesco rivolse un cenno a mia madre e a mio padre: "Grazie per la vostra ospitalità". L'auto partì in fretta, avvolgendosi in una nube di polvere e spaventando le galline. Caddero grosse gocce di pioggia. Ero sul punto di piangere. Era dunque quella la guerra di cui mi parlavano senza posa? Quelli gli implacabili avversari? Un cartone, nient'altro, un'immensa scena, un trucco. Rientrai in cucina. Guardai la carta geografica al muro, le bandierine bianche e nere ritagliate con tanta cura che indicavano le posizioni dei nemici, i tratti a inchiostro fatti con zelo e corretti settimana per settimana. Tutto mi parve sinistramente assurdo. Mi avevano ingannato. Le cose non erano più le stesse. Rifiutai di mangiare. Volli andare a dormire. Mia madre mi chiese se fossi malato. Quanto a mio padre, mi fissò con aria triste. Credo che avesse compreso. Da quel momento smisi di interessarmi a quello che accadeva al fronte.
Tre mesi dopo ricevemmo la notizia della morte di mio fratello. Dopo la guerra seppi che la sua batteria era stata bombardata da uno zeppelin, al rientro da una missione. Si trovava vicino a un cassone che era esploso.


(Tratto dalla collana di racconti La fine di una dinastia, Guida editori, Napoli, 1990, traduzione di Donatella Cavalieri)






.
         Precedente    Successivo         Copertina