MADAME BOVARY
( – brano del romanzo – )

Gustave Flaubert


(...)
- Dov’è il curato? – chiese la signora Bovary a un ragazzo che si divertiva a scuotere il
cancelletto girevole nel suo buco troppo largo.
- Ora verrà, - rispose il ragazzo.
Infatti, la porta del presbiterio cigolò e comparve don Bournisien; i ragazzi fuggirono in disordine dentro la chiesa.
- Quei ragazzacci! - mormorò il sacerdote. – Sempre gli stessi!
E, raccogliendo un catechismo lacerato che aveva urtato col piede:
- Non rispettano niente!

Ma, appena scorta la signora Bovary:
- Mi scusi, - disse, - non l’avevo riconosciuta.
Ficcò il catechismo in tasca e si fermò, continuando a dondolare fra due dita la chiave pesante della sacrestia.
La luce del sole al tramonto, che gli illuminava in pieno il viso, schiariva il lustrino dell’abito talare, lucido ai gomiti e sfilacciato in basso. Macchie di grasso e di tabacco seguivano, sull’ampio torace, la linea dei bottoncini e si facevano più fitte allontanandosi dal collare, sul quale riposavano le pieghe abbondanti della sua pelle rossa seminata di macchioline gialle che sparivano nei peli ruvidi della barba brizzolata. Aveva appena mangiato e respirava rumorosamente.
- Come sta? – soggiunse.
- Male, - rispose Emma; - soffro.
- Be’, anch’io, - riprese il sacerdote. – Questi primi calori buttano giù straordinariamente, non è vero? D’altronde, che vuole? Siamo nati per soffrire, come dice san Paolo. E il dottor Bovary che ne pensa?
- Lui! – ella esclamò con un gesto di disprezzo.
- Come! – replicò il brav’uomo tutto stupito, - non le prescrive qualcosa?
- Ah, - disse Emma, - non sono i rimedi della terra che mi occorrerebbero.
Il curato, ogni tanto, sbirciava dentro la chiesa, dove tutti quei monelli inginocchiati si davano spallate e cadevano come pupazzi di carta.
- Io vorrei sapere… - essa riprese.
- Aspetta, aspetta, Riboudet, - gridò il sacerdote con voce incollerita, - ora vengo a scaldarti le orecchie, discolaccio!
Poi, volgendosi a Emma:
- E’ il figlio di Boudet il carpentiere; i suoi genitori stanno bene e gli lasciano fare quel che vuole. Eppure, se volesse, imparerebbe presto, perché è pieno d’ingegno. Io, per scherzo, lo chiamo talvolta Riboudet (come il picco che si sale per andare a Maremme) e anzi: piccolo Riboudet. Ah! Ah! Piccolo Riboudet e Picco Riboudet1. L’altro giorno ho riferito questo giuoco di parole a Monsignore che ne ha riso… si è degnato di riderne. E il signor Bovary come sta?
Pareva ch’ella non udisse. Il curato continuò:
- Sempre molto occupato, non è vero? Noi siamo indubbiamente, lui e io, le due persone più indaffarate della parrocchia. Ma lui è il medico del corpo, - soggiunse con una risata pesante, - e io sono quello delle anime!
Emma fissò sul sacerdote uno sguardo supplichevole:
- Sì… - disse. – Lei conforta tute le miserie.
- Ah, non me ne parli, signora Bovary! Proprio stamattina mi è toccato andare nel Basso Diauville per una vacca che aveva il ventre gonfio; credevano che fosse una iettatura. Tutte le loro vacche, non so come… Ma, scusi! Longuemarre e Boudet! Perdinci! volete farla finita? E, con un salto, si slanciò nella chiesa.
I monelli, in quel momento, si affollavano intorno al leggio grande, si arrampicavano sullo sgabello del cantore, aprivano il messale; e altri, a passo di lupo, stavano per infilarsi fin nel confessionale. Ma il curato, rapido, distribuì a tutti una grandinata di scapaccioni.
Li prendeva per il colletto, li sollevava da terra e li rimetteva giù, in ginocchio, sul pavimento del coro, con forza, come se avesse voluto piantarceli.
- Veramente, - disse quando fu tornato accanto ad Emma, spiegando il suo largo fazzoletto di tela e mettendosene un angolo fra i denti, - i contadini sono assai da compiangere!
- Ce n’è altri che vanno compianti, - essa rispose.
-Certo! Gli operai delle città, per esempio.
- No, non si tratta di loro…
- Scusi! Ho conosciuto là povere madri di famiglia, donne virtuose, le assicuro, vere sante, che non avevano neanche il pane.
- Ma quelle, - riprese Emma (e gli angoli della bocca le si torcevano nel parlare), - quelle, signor curato, che hanno il pane ma non hanno…
- Da scaldarsi l’inverno, - disse il prete.
- Eh, che importa!
- Come, che importa! Mi sembra che quando si è ben riscaldati, ben nutriti…perché, insomma…
- Mio Dio! Mio Dio! – sospirò Emma.
- Si sente poco bene” – chiese il curato, avvicinandosi inquieto. – E’ la digestione, certamente! Bisogna che lei torni a casa, signora Bovary, a bere un po’ di tè; le darà forza. Oppure beva un bicchiere d’acqua fresca zuccherata.
- Perché?
Ed ella aveva l’aria di chi si risvegli da un sogno.
- Ho visto che si passava la mano sulla fronte; ho creduto che le prendesse uno stordimento.
Poi, cambiando argomento:
- Ma lei stava domandandomi qualcosa? Di che si trattava? Non ricordo più.
- Io? Nulla…nulla… - ripeteva Emma.
E il suo sguardo vagante all’intorno, si abbassò lentamente sul vecchio in abito talare. Si osservavano tutt’e due, faccia a faccia, in silenzio.
- Allora, signora Bovary, - disse infine il curato, - mi scusi, ma il dovere prima di tutto, lei lo sa; bisogna che mi sbrighi con questi discoli. Le Prime Comunioni si avvicinano, e temo che anche questa volta ci coglieranno non completamente preparati! Perciò, dall’Ascensione in poi, li trattengo rapidamente un’ora di più tutti i mercoledì. Poveri ragazzi! Non è mai troppo presto per avviarli sulla via del Signore… come del resto Egli stesso ci ha raccomandato per bocca del Divino Suo Figliuolo… Stia bene, signora; i miei rispetti al suo signor marito!
Ed egli entrò in chiesa facendo sulla porta una genuflessione. Emma lo vide sparire fra la doppia fila dei banchi, camminando a passi pesanti con la testa un po’ inclinata sulla spalla e le mani semiaperte, scostate dal corpo.
Poi essa girò sui tacchi, rigida, come una statua su un perno, e s’incamminò verso casa. Ma la grossa voce del curato e la voce limpida dei ragazzi le giungevano ancora all’orecchio, e continuavano dietro a lei:
- Sei cristiano?
- Si, sono cristiano.
- E’ colui che essendo battezzato…battezzato…battezzato…
Essa salì la scala di casa tenendosi alla ringhiera, e quando fu nella sua camera, si lasciò cadere in una poltrona.
La luce biancastra dei vetri si smorzava lentamente, ondulando. I mobili, ai loro posti, sembrava fossero diventati più immobili e si perdessero nell’ombra come in un oceano tenebroso. Il caminetto era spento, la pendola continuava a ticchettare, ed Emma provava un vago stupore per quella calma delle cose, mentre dentro di lei v’era tanto tumulto. Ma, fra la finestra e la tavola da lavoro, c’era la piccola Berta, incerta sulle sue scarpine di lana, che cercava di avvicinarsi alla madre per afferrarle i nastri del grembiale.
- Lasciami stare! – ella disse, allontanandola con la mano.
La piccina presto tornò ancora più vicina, contro le ginocchia della madre, e, aprendo le braccia, alzò verso di lei i suoi grandi occhi azzurri, mentre un filo di saliva limpida scendeva dalle sue labbra sulla seta del grembiale.
- Lasciami stare! – ripeté Emma irritata.
L’espressione del suo viso spaventò la bambina che si mise a strillare.
- Ma insomma, lasciami! – ella esclamò, respingendola col gomito.
Berta andò a cadere ai piedi del cassettone, contro la borchia d’ottone che le tagliò la gota e la fece sanguinare. La signora Bovary si precipitò a rialzarla, strappò il cordone del campanello, chiamò la domestica con quanta voce aveva, e cominciava a maledire se stessa, quando comparve Carlo. Era l’ora del pranzo; egli rincasava.
- Guarda, caro, - disse Emma con voce tranquilla, - la piccola, giocando, si è ferita per terra.
- Carlo la rassicurò; non era niente di grave, e andò a prendere un cerotto.
La signora Bovary non scese in salotto; volle restare sola a vegliare la sua bambina. Allora, guardandola dormire, l’inquietudine che le era rimasta, lentamente si calmò, ed ella trovò che era stata assai sciocca e assai buona ad agitarsi tanto, un momento prima, per così poca cosa. Berta, infatti, non singhiozzava più. Il suo respiro, ora, sollevava insensibilmente la coperta di cotone. Grosse lacrime erano ferme all’angolo delle palpebre semichiuse che lasciavano intravedere, tra le ciglia, due pupille chiare, infossate: il cerotto attaccato alle guance, tirava obliquamente la pelle tesa.
“ E’ strano”, pensava Emma, “quanto sia brutta questa bambina!”.
Quando Carlo, alle undici, tornò a casa dalla farmacia (dove aveva riportato, dopo cena, il cerotto avanzato), trovò la moglie in piedi accanto alla culla.
- Ma se ti ho detto che non è nulla, - disse baciandola in fronte. – Non tormentarti più, povera cara, o ti ammalerai.
(...)


Note:
Il testo ha un giuoco di parole intraducibile tra Mont Riboudet (Monte Riboudet) e mon Riboudet (mio Riboudet), espressioni che si pronunziano in francese nello stesso modo. In italiano si è dovuto ricorrere ad un altro termine, per dare almeno un’idea dello scherzo.


(Tratto da Madame Bovary di Gustave Flaubert – Fabbri editori, Milano 1994, traduzione di Giuseppe Achilli)


 

Gustave Flaubert




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