IL MANCATO RITORNO
Il mito dell’esilio e le sue demistificazioni nell’opera di Milan Kundera



Ilaria Vitali



Topografia dell’emigrazione

Avvicinandosi ad un autore come Milan Kundera è legittimo porsi delle domande: domande sulla sua “doppia” appartenenza, sulla delicata questione dell’esilio, sulla sua condizione di émigré proveniente da un paese occupato, stabilitosi in Francia verso la metà degli anni settanta. A queste questioni se ne aggiungono altre, questioni filologiche: l’abbandono della lingua madre, il ceco, e la scelta del francese, questioni ancora più sentite nell’opera di un autore che ha sempre mostrato un grande interesse nei confronti della “parola” e che ha fatto della riflessione sulla lingua non solo una tecnica narrativa, ma il punto di partenza della riflessione e dell’interrogazione esistenziale. In cosa consiste dunque la vita di un émigré, soprattutto quando si tratta di uno scrittore? Che cosa s’intende con il termine “esilio” al di là del mito o dell’accezione comune? È possibile tracciare una topografia del romanzo legata all’emigrazione di grandi autori come Nabokov, Rushdie e altri, che con le loro opere hanno ampliato orizzonti e confini di letterature e culture diverse da quelle di origine?
Sono questioni complesse e delicate a cui non abbiamo la presunzione di dare una risposta univoca. Un dato appare tuttavia evidente: con i loro spostamenti sulla cartina geo-politica, questi autori hanno disegnato una loro personale topografia della letteratura mondiale, tracciando con i loro percorsi evolutivi, la storia del romanzo così come la intende Kundera, ovvero “la mappa dell’esistenza umana”.
Lo scrittore, che non è per Kundera né storico né profeta, ma piuttosto esploratore dell’esistenza, si appresta dunque a tracciare la sua personale carta esistenziale.
Questa particolare topografia sarà oggetto d’analisi in questo studio.

Vivere in-between

Nella storia della letteratura mondiale sono molti gli scrittori che hanno vissuto la problematica condizione dell’entre-deux, ovvero la condizione di coloro che hanno fatto l’esperienza di due realtà culturali e linguistiche diverse e hanno trasposto questa esperienza sul piano letterario.
Per concentrarsi solo sulla Francia, oltre a Kundera occorrerebbe citare numerosi émigré provenienti da paesi diversi, fagocitati dalla cultura del pays d’accueil: Emil Cioran, Eugène Ionesco, Michel del Castillo, Tzvetan Todorov, per limitarsi solo ai più celebri.
Ma cosa significa esattamente vivere l’entre-deux?
Prendendo a prestito l’immagine di una poesia di Kafka, Hana Pichova, nel suo studio comparato tra Kundera e Nabokov, The Art of Memory in exilei, definisce gli autori émigrés come figure-ponte, sospese tra le sponde di due realtà diverse, che hanno fatto, in modi diversi, esperienza di entrambe.
Tuttavia non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparenza rassicurante di questa immagine, che può divenire facilmente l’oggetto di una dis-lettura : come Pichova stessa sottolinea, al contrario di ciò che il termine “ponte” sembra suggerire a prima vista, l’esperienza di due paesi non diviene automaticamente garanzia di successo nell’operazione di collegamento tra i due. Bisogna infatti ricordare che lo stesso tentativo di collegamento nella poesia di Kafka è tentativo fallito, che non provoca altro che un effetto di rottura, perdita, frustrazione.
È tuttavia necessario riconoscere la complessità del tema, senza limitarsi agli aspetti negativi: come Kundera stesso ha affermato, “the experience of living in a number of countries is an enormous boon for a writer”: solo il cambiamento di prospettiva, linguistica e culturale, permette la comprensione e compenetrazione della realtà nella sua complessità. Vivere “in-between”, ovvero sospesi tra due realtà diverse, non comporta dunque solo lati negativi, ma può indurre ad una maggiore consapevolezza.
Viene così a crearsi una doppia definizione di esilio: non solo luogo doloroso, ma anche terra di libertà narrativa e linguistica di cui nutrire l’opera letteraria. L’esilio può essere trasformato in carta vincente, strumento di analisi che consente uno sguardo lucido e permette l’opera di demistificazione di ogni verità imposta. Come sostiene Hana Pichovaii l’émigré acquisisce una polivalenza esistenziale che gli consente di effettuare operazioni di collegamento e scambio: diviene figura-ponte tra culture e realtà diverse, capace di apportare ad entrambe elementi di novità. La prospettiva dell’émigré diviene così caleidoscopica, nel senso originario della parola (dal greco kalos=bello, eidos=forma e skopein=vedere): dalla visione multiforme e sfaccettata nasce dunque la capacità di creare belle immagini.
La vita “entre-deux” si caratterizza infatti per l’assenza di una verità univoca e imposta: ad ogni immagine cristallizzata viene sostituita quella versatile offerta dall’osservazione da punti di vista diversi.
Tutta l’opera di Kundera sembra infatti avere lo scopo di dichiarare l’assenza di une vérité univoque:

La Vérité totalitaire exclut la relativité, le doute, l'interrogation et elle ne peut donc jamais se concilier avec ce que j'appellerais l'esprit du roman.iii

Una volta che la frontière è stata oltrepassata, tutto ciò che resta è una verità “in-between”, verità multipla e sfaccettata (brillantemente tradotta da Hana Pichova nell’immagine del caleidoscopio), che non può accettare i limiti e confini di una Verità Assoluta.
Dobbiamo riconoscere che il percorso che termina con l’emigrazione è vissuto da numerosi scrittori come esperienza traumatica.iv D’altro canto, non possiamo non considerare gli atouts degli scrittori émigrés che possono gioire di un punto d’osservazione doppio, o multiplo, che può a volte divenire caleidoscopico.
L’esperienza dell’esilio resta problematica: secondo le parole dell’émigré ceco Jaroslav Hutka, l’esilio può dare l’illusione di una rinascita, questa volta, tuttavia, senza la spensieratezza dell’infanzia.v

La dislettura : un’ossessione kunderiana

Vivere in un paese diverso, essere a stretto contatto con una realtà multiculturale, costringe lo scrittore a confrontarsi direttamente con i problemi comunicativi. Questa riflessione si esplica nei romanzi di Milan Kundera attraverso un esame attento e lucido dell’interpretazione del messaggio linguistico, ovvero della lettura e della sua controparte, la dislettura. Questi due lati del fenomeno interpretativo sono focalizzati in due momenti topici della produzione kunderiana, il “piccolo dizionario di parole fraintese”, terza parte de L’Insoutenable légèreté de l’être, che analizza le incomprensioni e i fraintendimenti nella comunicazione umana, e il “dizionario intimo”, il saggio di “Soixante-treize mots” in cui l’autore risolve a suo modo i complicati rapporti tra parola e cosa.
Forse è qui utile ricordare che a influenzare lo scrittore in questo “travail de définition” sono state senza dubbio le “cattive” interpretazioni e i fraintendimenti apparsi in “occidente” all’uscita dei suoi primi romanzi, come è noto La plaisanterievi. La prima ricezione di Kundera è stata infatti guidata dal contesto politico ceco ed è nata così sotto il peso schiacciante della lettura politicizzata: Kundera è etichettato fin dall’inizio come autore dissidente e, quel che è peggio, la sua dissidenza è considerata come garanzia di autenticità.
Lo dimostrano gli innumerevoli articoli pubblicati all’uscita del primo romanzo di Kundera, Zert, in traduzione francese, La plaisanterievii.
Autori politicamente schierati e culturalmente influenti come Sartre e Aragon non faranno che incoraggiare questo tipo di (dis)letture, inserendo i primi romanzi di Kundera, soprattutto La plaisanterie, nel quadro della “littérature de dénonciation”.
Forse è utile ricordare che le circostanze di pubblicazione del romanzo hanno avuto un peso importante nella sua ricezione: la prima edizione francese de La plaisanterie appare infatti i primi giorni di settembre del 1968, solamente qualche settimana dopo l’occupazione sovietica della Cecoslovacchia.
E dunque scontato che la lettura politica sarà la prima ad imporsi, basti pensare al modo in cui La plaisanterie è presentato al pubblico francese : “La Plaisanterie. Un roman-témoignage sur la Tchécoslovaquie des années «staliniennes»viii.”
E ancora : « Roman idéologique par excellence. L’écriture et l’action n’y représentent que peu de chose.ix» Senza dimenticare la prefazione di Aragon per l’edizione del 1968, che preferisce parlare della recente occupazione sovietica piuttosto che delle caratteristiche intrinseche del romanzo di Kundera.x
Possiamo dunque capire l’odio dell’autore per ogni lettura politicizzata, capace, a volte, di distruggere l’azione del romanzo, così come lo stile dello scrittore.
Lo scrittore stesso confessava in un entretien apparso su The New York Times del 1984:

If I write a love story, and there are three lines about Stalin in that story, people will talk about the three lines and forget the rest, or read the rest for its political implications or as a metaphor for politics.xi

A partire dagli anni ottanta, la critica cercherà di cambiare la propria prospettiva d’analisi, ma i fraintendimenti interpretativi de La Plaisanterie avranno ormai profondamente segnato Kundera, che per evitare l’eccessiva influenza della Storia nei suoi romanzi, si impegna sempre più a sottolineare il suo uso limitato degli eventi storici nella narrazione – atteggiamento che sarà definito da Jocelyn Maixent come « réalisme parcimonieuxxii» – fino ad affermare il suo totale disprezzo per la « peinture de l’époque ».
Questa repulsione si traduce nei romanzi successivi a La Plaisanterie attraverso una « économie maximale » degli avvenimenti storici: il romanziere non vuole dare peso alla loro portata politico-storico-sociale, se non in quanto « laboratoire d’observation de l’existence humaine ».

Dal mito dell’esilio all’esilio liberatore

Il termine esilio nell’accezione comune evoca naturalmente il concetto di allontanamento e di soggiorno forzato in un paese straniero. In realtà, non si tratta che di una delle molteplici sfaccettature del termine, spesso oggetto di un processo di semplificazione. Per diversi scrittori émigré il termine non si carica infatti solamente di elementi negativi. È il caso di Kundera che affronta il tema distruggendo il mito sovrano dell’attaccamento al paese natio e della malinconia dettata dall’impossibilità del ritorno.
Tracciando una mappa del percorso evolutivo di Kundera, è necessario sottolineare che lo scrittore non fu mai costretto ufficialmente all’esilio : non è che nel 1975, dopo l’eliminazione dei suoi romanzi dalle librerie e biblioteche, che viene lasciato “libero” di partire per occupare temporaneamente la cattedra di lettere all’Università di Rennes. Nel primo romanzo scritto in esilio, Le livre du rire et de l’oubli, si percepisce il dolore dell’émigré, la nostalgia per il paese perduto : nel mélange tra personaggi fittizzi e reali, tra avvenimenti storici e inventati, il lettore intravede il dolore dello scrittore da poco allontanatosi dal paese natale, unito alla nostalgia per una Praga del passato, sospesa tra sogno e realtà. In un passaggio successivo del romanzo, Kundera racchiude il concetto dell’abbandono del paese natale nell’immagine del “cerchio magico”, un cerchio che si richiude su se stesso, una volta che lo scrittore si è allontanato. La forza centrifuga allontana inesorabilmente l’émigré dal suo paese: la vita nel paese natale è “cerchio magico”, rete protettiva, autosufficiente e a se stante, immagine della sicurezza, della continuità e della completezza, che ha in se stessa e per se stessa ragion d’essere. L’immagine del cerchio suggerisce quella dei pianeti, trattenuti al loro sole dalla forza centripeta. Per un processo metonimico la persona che se ne allontana diviene une météorite arrachée, e non potrà più rientrare nel cerchio.
Il tema dell’esilio, unito a quello della caduta, lungi dal richiudersi su se stesso, ritorna in molti altri romanzi, per esempio L’insoutenable légèreté de l’être, in cui vediamo sostituirsi al cerchio magico lo “spazio vuoto”, unico spazio offerto dal nuovo paese, e troviamo un nuovo sviluppo dello stesso tema: l’esilio vissuto come caduta.
L’esilio rimane dunque luogo di abbandono per eccellenza?
Nell’ultima parte de Le livre du rire et de l’oubli si incomincia a percepire un cambiamento di prospettiva. Il protagonista di quest’ultima parte, Jan, diviene infatti tristemente consapevole del carattere illusorio del suo attaccamento alla patria. Lo stesso distacco è ripreso nei romanzi a seguire, in maniera indubitabile ne L’insoutenable légèreté de l’être, nell’atteggiamento iper-critico di Sabina verso altri esuli suoi compatrioti, con i quali non ritiene di avere alcun punto in comune.
Ciò che si sta via via disegnando in modo sempre più evidente è dunque un allontanamento dal paese d’origine, accompagnato ad un nuovo atteggiamento nei confronti dell’esilio. I romanzi che seguono Le livre du rire et de l’oubli, riflettono infatti la nuova consapevolezza dell’autore.

L’ebbrezza degli apolidi

È nel 1979, subito dopo la pubblicazione de Le Livre du rire et de l’oubli, che Kundera è privato della cittadinanza cecoslovacca e si trova così a sperimentare l’ebbrezza degli apolidi, ebbrezza che trova il suo specchio nella produzione romanzesca dell’autore. Improvvisamente sciolto dalle aspettative di un pubblico immediato, Kundera sperimenta una nuova liberta narrativa. Di questa liberazione improvvisa parla in un incontro con Ian McEwan:

The idea of a French public, though, or the public of every country other than my own, was something abstract, something unknown. Paradoxically, this turned out to be liberating. Your immediate public has its demands, its tastes; it exerts an influence on you without your being aware of it. The public annoys you too, especially in a small country, because all of a sudden it knows you. So in the two novels I wrote after being banned I felt very free. I was free from censorship because I was no longer being published in my own country, and there was no longer pressure from the public.xiii

L’allontanamento da un pubblico immediato si traduce altresì con un distacco emotivo rispetto agli avvenimenti che segnano il paese natale, donando all’autore uno sguardo più lucido e rigoroso e una capacità di analisi maggiore, che trova il suo riscontro in una prosa disincantata e asciutta.
Praga diviene “l’altro paese”xiv.
Al distacco che produce l’improvvisa libertà narrativa, si aggiunge poi ciò che Julia Kristeva definisce “insolite libération du langagexv” : senza gli obblighi comunicativi e i tabù linguistici che imbrigliavano le parole della lingua natale, lo scrittore émigré diviene un interlocuteur intrépide, capace di audacie linguistiche imprevedibili, che coinvolgono la sfera emotiva fino a raggiungere il suo fulcro, l’erotismo. Ma questa sorta di leggerezza della parola non tarda a mostrare il suo rovescio insostenibile. “La langue étrangère” continua Kristeva “demeure une langue artificielle – une algèbre, du solfège –, et il faut l’autorité d’un génie ou d’un artiste pour créer en elle autre chose que des redondances factices.xvi
L’opinione è condivisa dallo stesso Kundera, che, nella sua “arithmétique de l’émigration” descrive come l’abbandono del paese natale possa generare un effetto di vuoto che, per poter essere colmato, richiede tutta l’astuzia dello scrittore:

[…] pour un romancier, pour un compositeur, s’éloigner du lieu auquel son imagination, ses obsessions, donc ses thèmes fondamentaux sont liés pourrait causer une sorte de déchirure. Il doit mobiliser toutes ses forces, toute sa ruse d’artiste pour transformer les désavantages en atouts.xvii

Dalle considerazioni fino ad ora fatte sul termine “esilio”, ciò che emerge non è dunque una definizione lineare, ma al contrario un quadro complesso, anamorfico, à facettes multiples. Se da un lato ciò che affiora è un’evidente effet de distanciation che rende possibile una libertà narrativa e linguistica importante di cui nutrire l’opera letteraria, dall’altro non può non emergere il temuto effet de vide i cui svantaggi possono essere trasformati in carte vincenti solo a patto di essere provvisti di genio artistico. Vediamo in che modo Kundera ha sfruttato e sviluppato la sua esperienza:

J’ai compris seulement plus tard que le communisme me montrait, dans une version hyperbolisée ou caricaturale, les traits communs du monde moderne. […] De ce point de vue, l’expérience du communisme m’apparaît comme une excellente introduction au monde moderne en général ; elle m’a rendu plus sensible aux phénomènes absurdes qu’on est prêt à percevoir, ici, comme une innocente banalité ou comme un attribut nécessaire de la Sainte Démocratie.xviii

Ecco dunque Praga trasformarsi in un laboratorio che mostra in modo iperbolico gli onnipresenti problemi dell’esistenza umana : l’esperienza dell’esilio, dopo la nostalgia così evidente in Le livre du rire et de l’oubli, è stata anch’essa trasformata in atelier littéraire.

L’epopea del Non-Ritorno

Il tentativo kunderiano di superare l’effet de vide passa anche per la demistificazione del tema sacro dell’esilio: con il suo celebre scetticismo e l’ironia sferzante, che non lascia spazio a facili drammatizzazioni, l’autore cerca di sfatare il mito, tracciando con il suo ultimo romanzo, L’Ignorance, l’ultima tappa di un viaggio polimorfo, che parte dal suggestivo mito del Grande Ritorno in patria, per arrivare all’affermazione radicale della sua impossibilità.
L’ignoranza di Milan Kundera è una vera e propria « epopea del non-ritorno ».
La trama sfrutta il tema – caro alla letteratura francofona – del ritorno al paese natale, che non tarda a trasformarsi in retour raté: la storia è infatti quella di due émigré cechi che, dopo la caduta del rideau de fer, fanno ritorno a Praga per scoprire di esservi divenuti totalmente estranei. La presa di coscienza sarà diversa per entrambi, per entrambi sottilmente crudele: l’ironia sferzante di Kundera non lascia scampo, né spazio a maschere lacrimevoli. Letta nel suo insieme, l’opera di Kundera ci mostra così un viaggio che parte da una presunta “Festa del ritorno” per arrivare all’affermazione di un ritorno mancato o semplicemente impossibile. Se già L’insoutenable légèreté de l’être affermava l’impossibilità dell’eterno ritorno nietzscheano, L’Ignorance, sottolinea l’impossibilità del ritorno tout court.
Il tema è comune a molti autori francofoni, ma l’abilità di Kundera sta nel gioco di specchi che costruisce con il suo particolare stile narrativo. Come negli altri suoi romanzi, Kundera sfrutta qui la tecnica del contrappunto romanzesco, mutuato dal linguaggio musicale, che consiste nel sovrapporre diverse linee narrative, per fonderle in un’intricata struttura polifonica. Ne emergono le molteplici voci di una realtà sfaccettata e instabile, che non può più essere narrata in modo lineare.
Il risultato è un romanzo di impatto immediato, in cui le diverse linee narrative si fondono in un orchestrazione perfetta. Immediata è anche la presa di coscienza dell’impossibilità del ritorno.
Non si tratta tuttavia di un’impossibilità carica di elementi altamente drammatici.
L’esilio, luogo doloroso per eccellenza, viene infatti smembrato e trasformato dall’ironia caustica di Kundera.
Per demistificare i topoi della nostalgia dell’émigré e dell’esilio distruttore, Kundera si serve di un’idea di Vera Linhartová, poetessa ceca « aux semelles de vent » émigrée in Francia, viaggiatrice, « nomade », che esprime una visione del tutto singolare dell’esilio.
La sua posizione provocatrice e allo stesso tempo lucidissima è ripresa da Kundera in un articolo apparso su Le Monde il 7 maggio 1994, sotto il titolo “L’exil libérateur” nel quale l’autore affermava “Lo scrittore è prima di tutto un uomo libero, e l’obbligo di preservare la sua indipendenza da ogni costrizione supera qualsiasi altra considerazionexix”. In questo articolo Kundera sembra davvero appropriarsi delle parole di Linartova : la libertà dello scrittore nei suoi movimenti (geografici, linguistici, letterari) insieme alla distruzione del mito “sacro” dell’esilio, sono in effetti temi centrali nella sua opera. La volontà estrema di libertà e indipendenza, unita ai vantaggi apportati dal cambiamento di prospettiva, era già presente in altri articoli e interviste rilasciate da Kundera, che già nel 1980, dichiarava a Philip Roth: “For a writer, the experience of living in a number of countries is an enormous boon. You can only understand the world if you see it from several sides.xx
Nel suo saggio sulla persistenza della memoria in esilio, Hana Pichova ha spinto ancora più lontano l’idea di polivalenza e moltiplicità di visione : secondo le parole di Pichova, ogni émigré gode di una visione vantaggiosa, la cui doppia coscienza permette una visione multipla e multiforme, ossia una sopra-visione.
Sarebbe dunque estremamente riduttivo considerare l’esilio solamente come “luogo doloroso”.
Tutte le dichiarazioni di Kundera si muovono dunque nella stessa direzione, quella di sfatare i topoi letterari iper-sfruttati a vantaggio di una libertà narrativa, creativa, artistica tout court, che superi i limitanti orizzonti delle distinzioni fatte in base all’appartenenza geografica o geopolitica.
Rifiutando la romantica idea dello scrittore dissidente, Kundera vuole sottolineare anche la propria volontà di trascendere e sormontare i ristretti confini delle letterature nazionali, per proclamare la sua appartenenza alla cultura europea.

Quale patria per lo scrittore émigré?

Come lo stesso Kundera ha affermato, solo il cambiamento di prospettiva permette la comprensione della realtà nella sua complessità.
Vivere “in-between”, non comporta dunque necessariamente solo lati negativi, e può indurre al contrario ad una maggiore consapevolezza esistenziale. Il nostro percorso nella complicata topografia dell’emigrazione, ci ha portato a delineare una doppia definizione di esilio: non solo luogo doloroso per antonomasia, ma anche terra di libertà narrativa e linguistica di cui nutrire l’opera letteraria stessa. L’esilio è così trasformato in strumento di analisi che consente uno sguardo lucido e disincantato sulla realtà e agevola l’opera di demistificazione di falsi miti e verità imposte.
La vita “entre-deux” si caratterizza proprio per l’assenza di una verità univoca e imposta: ad ogni immagine cristallizzata della realtà ne viene sostituita una nuova e versatile, frutto dell’osservazione da prospettive e punti di vista originali. Come scrive Hana Pichovaxxi, l’émigré acquisisce una polivalenza esistenziale che gli consente di effettuare operazioni di collegamento e scambio: egli è figura-ponte tra culture e realtà diverse, capace di apportare ad entrambe elementi di novità. In questo senso la prospettiva dell’émigré diviene caleidoscopica, nel senso originario della parola.
Se l’attaccamento ancestrale al paese natio è sfumato, confondendosi con il nuovo legame dell’émigré al pays d’accueil, quale patria resta, dunque, allo scrittore émigré?
Il nostro studio si chiude sulla definizione di appartenenza che ci è data dallo stesso Kundera: con il percorso tracciato dalla sua opera, l’autore finisce per affermare un singolare “chez-soi” che non si trova nelle carte topografiche, ma piuttosto nell’universo del romanzo, definito dall’autore “la sua unica vera patria”. Così come Kundera lo concepisce, il romanzo è infatti l’espressione più profonda dell’arte europea, una lente d’ingrandimento che evidenzia i fenomeni storici e sociali e finisce per disegnare “la carte de l’existence humaine”xxii.
In esilio, Kundera disegna per se stesso la sua terra d’appartenenza, ricavandola tra le pagine dei grandi romanzi europei. Leonardo Sciascia ha scritto “il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria”.
Quale patria, dunque, per lo scrittore émigré? La risposta di Kundera è banale quanto veritiera. Nessun’altra patria all’infuori dell’eredità di Cervantes.xxiii



i Pichova, Hana, The Art of Memory in exile, Southern Illinois University Press, 2002.
ii Hana Pichova, The Art of Memory in Exile, London, 2001.
iii L’art du roman, op. cit., p.22.
iv Jan Culik si riferisce soprattutto ai traumi dovuti ai problemi comunicativi e all’impossibilità di cominciare da capo la propria vita una volta giunti all’età adulta. Culik nota questo tipo di trauma soprattutto nei poeti.
v Jan CULIK, op. cit., “the process of acquiring knowledge of one’s new environment, as Jaroslav Hutka put it, the process of “being born again, but this time without childhood.”
vi Milan Kundera, La plaisanterie, Paris, Gallimard, 1968. Il romanzo viene presentato al pubblico francese come “roman-témoignage” sulla situazione cecoslovacca, in cui “l’écriture ne représente que peu de chose”. Autori influenti e politicamente schierati come Sartre e Aragon non hanno fatto che incoraggiare questa (dis)lettura. ( A questo proposito vedere la préface di Aragon alla prima edizione francese de La plaisanteriee l’interessante studio di Martin Rizek, Comment devient-on Kundera?, Paris/Montréal, L’Harmattan, 2001).
vii Vedere a questo proposito Martin RIZEK, Comment devient-on Kundera?, op. cit., p. 145.
viii Le Monde des livres, 12 octobre 1968.
xi Loc. cit., Martin RIZEK, Comment devient-on Kundera ?, p. 146.
x « […] le roman de Kundera, plus que tous les documents politiques imaginables et inimaginables, éclaire la situation qui s’est en près de vingt ans créée, et à la vraie tragédie de quoi nous assistons aujourd’hui, ce n’est pas une assertion à la légère, une vue subjective due à l’obsession que la tragédie fait passer sur nous », Louis Aragon, « Préface pour la première édition française de La Plaisanterie », Paris, Gallimard, 1968, p. VI.
xi Jane CRAMER, “When There is no Word for Home”, The New York Times, Book Review, 29 avril 1984.
xii Jocelyn MAIXENT, Le XVIIIe siècle de Milan Kundera, Paris, P.U.F., 1998.
xiii Ian McEWAN, “An Interview with Milan Kundera”, Granta, p.23.
xiv vedere a questo proposito Le livre du rire et de l’oubli, op. cit., p. 252, « Moi, en France, je les regarde de loin, du haut de ma tour. »
xv Julia KRISTEVA, op. cit., pag. 48.
xvi Julia KRISTEVA, op. cit., p. 49.
xvii Les testaments trahis, op. cit., p. 115
xviii « Diabolum », Le Monde, 24 septembre 1993.
xix « L’Écrivain est tout d’abord un homme libre, et l’obligation de préserver son indépendance contre toute contrainte passe avant n’importe quelle autre considération.» Milan KUNDERA, “L’exil libérateur”, Le Monde, 7 maggio 1994
xx Philip ROTH, op. cit.
xxi Hana PICHOVA, The Art of Memory in Exile, op. cit., p. 10.
xxii « la mappa dell’esistenza umana », Milan Kundera, L’art du roman, op. cit., p. 167.
xiii Con questa definizione Kundera intende riferirsi alla tradizione del romanzo come espressione più alta dell’arte europea. Vedere a questo proposito L’art du roman, pp. 13-32.





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