L’ALTRA VERITÀ
– Diario di una diversa –

(Sei brani tratti dal suo diario)

 

Alda Merini

Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice pulito, sempre in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figliole e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano a scuola e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose. Insomma ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò, e morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio. Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e nemmeno io sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire.
Improvvisamente, come nelle favole, tutti i parenti scomparvero.
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calcare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Ma, non era forse la mia una ribellione umana? Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva? Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione?
Un po’ per l’effetto delle medicine e un pò per il grave shock che avevo subito, rimasi in stato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.
Dopo qualche giorno mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo. Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla. E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione.

Nel centro del giardino c’era anche un’altra appendice dell’ospedale: il ricovero delle cavie, dove si facevano continue ricerche sul cervello umano.
Io mi sono addentrata in quel posto poche volte, quanto basta per provarne un orrore incredibile. Bestie lobotomizzate, castrate e, dappertutto, un senso di innaturale forza malvagia, ridotta al massimo della sua violenza. Certe bestie, sotto i veleni delle medicine, avevano perso del tutto la loro identità. E dei gatti parevano tigri feroci, dei topolini erano presi da sindromi strane che li facevano girare su se stessi senza posa alcuna né alcun senso di conservazione.
L’uomo che dirigeva questo brutto traffico era un po’ eguale alle sue bestie, pareva un lobotomizzato; unto e untuoso, cercava di arraffare qualche malata per portarla di sotto per “montarla”, come diceva lui.
A me faceva talmente ribrezzo che una volta giunsi a sputargli in faccia. La cosa non me la perdonò più, e ogni volta che passavo di lì mi guardava con aria sempre più torva.

La cosa che maggiormente mi spaventava erano i miei rapporti con i figli. Nella mia mente malata i figli dovevano necessariamente far parte del mio corpo, del mio io, e non potevo prevederne un altro che fosse al di fuori del mio centro focale. Finché i miei figli li portavo in grembo, tutto poteva rientrare nella normalità; ma una volta che li mettevo al mondo mi riallacciavo inequivocabilmente al mito di Cronos che divorava la propria progenie.
Ho chiesto al mio medico il perché di questa mia particolare mostruosità. Ma il mio medico non ha mai saputo darmi una esauriente indicazione. Tutt’al più poteva identificare i miei figli col pene, il che era tipicamente freudiano, come qualcosa di fallico, come una appendice che mi ricordava il vecchio trauma. E fin qui la cosa potevo anche accettarla. Ma non potevo certo accettare di essere io l’autrice di una infamia qualsiasi, o di una altrui infelicità. La morale era che i figli li dovevo affidare ad altri, perché mi facevano insorgere paurose allucinazioni e la cosa mi sgomentava. E ancor oggi non l’ho risolta per cui, non sentendomi amata dai miei figlioli, mi sento virtualmente sola. Potrà anche essere vero che in passato un uomo mi abbia violentata, ma mi ricordo benissimo che quand’ero bambina pregavo ogni sera il buon Dio che mi facesse dono di un bimbo. Perché? Anche queste cose sono contemplate nelle teorie freudiane. Ma si dà il fatto che la bambina voglia un bimbo, secondo Freud, perché si sente castrata.

ALDO

Nel recinto degli uomini Aldo era il più lungo e allampanato, con due occhi immensi e stravolti. Era visibilmente pazzo ma con un che di infantile e aggraziato che non poteva non commuovermi. Insieme ad altri ammalati stava dietro un recinto di reti e gridava tutto il giorno a squarciagola, quasi che ce l’avesse con il cielo che l’avevano messo lì dentro. Un giorno ottenni che lo si lasciasse andare per qualche ora. Di fatto era un uomo che non faceva male a nessuno. Si limitava a gridare e a imprecare. Pieno di Serenase com’era, malgrado fosse molto giovane, Aldo non aveva alcun senso della sua mascolinità, e con le grosse mani non faceva che tagliare e strappare l’erba e portarsela alla bocca come un cavallo forsennato che avesse fame. A me chiedeva solo sigarette e mi diceva, guardandomi dritto negli occhi: “Sei dolcissima”.
Poi mi carezzava teneramente la pelle. E mi guardava se mai sorgesse in me qualche visibile emozione.
“ Ma tu sei donna?” mi chiese una volta.
“ Certamente”, risposi io.
“ Non mi sembra; guarda, io sì che sono un uomo!”.
E tirò fuori il suo pene diritto come una alabarda che subito mi impaurì.
“ Non devi fare questo, Aldo. Ricordati che ti tolgono il permesso”.
Aldo si guardò in giro e assentì con la sua grossa testa. “E’ vero”.
Comunque, continuava a guardarsi in basso, verso i calzoni.
“ Ma io ‘sono’ un uomo”, continuava a ripetere.
“ Certo” gli dicevo io, “che sei un uomo. Solo che adesso devi pensare a curarti”.
“ E i miei figli?”, proseguiva lui.
“ I tuoi figli sono in mani buone, e anche tu; perché io ti voglio bene”.
Allora mi abbracciava e rideva forte e mi faceva rotolare per terra e mi impasticciava di baci che non avevano nulla di adulto. Erano baci di un bambino teneramente commosso e felice di qualche caramella. Quando lo riaccompagnai in reparto Aldo era visibilmente fiero di starmi a fianco. “Vede” diceva al suo caposala, “questa è la mia donna”.
E mi faceva un largo inchino che pareva una genuflessione. Io annuivo ridendo: in fondo piaceva anche a me di avere un amico così sincero, e poi, forse, in fondo Aldo non era più tanto malato. Ma un giorno che mi portò delle rose bianche, mi disse tra le lacrime; “Sai, Alda, mi trasferiscono. Dicono che sono inguaribile”.
“ Non è possibile” dissi io, “tu devi stare bene per i tuoi figli!”. Ma dovetti arrendermi alla realtà. E quella volta piansi con profondo dolore per la sorte di Aldo, per la sorte di tutti coloro che non potevano sconfiggere quel terribile male.

All’ottavo mese, il dottor G., che al principio aveva cercato di farmi abortire, mi mandò a chiamare e mi disse: “E’ ora che tu vada in maternità”.
Io ritenevo che fosse presto: avevo bisogno di cure e lì non me ne avrebbero date. In più, sapevo bene che cosa aspettava negli altri ospedali per i dimessi dal Paolo Pini. Comunque, stetti al suo parere e andai al Niguarda. Mi si guardò subito con sospetto. Poi la suora, che aveva un piglio non propriamente umano o cristiano, mi disse: “Oggi passeremo per farti partorire”.
“ No!” dissi io, “non è ancora giunto il momento”.
E difatti avevo ragione. Non volevo in alcun modo uccidere la mia creatura. Ma la suora insisteva e mi guardava con un ghigno sadico. Io, che ero già sofferente nel fisico, non trovai altra scelta che fuggire di lì, per salvare il mio bimbo. Raccolsi la mia povera roba.
Ma mi presero subito e mi mandarono al neurodeliri, cella ancora più rigorosa dell’ospedale psichiatrico, dove c’erano pochi metri quadrati per muoversi e nessun dialogo, nemmeno col dottore.
Al neurodeliri rimasi ancora un mese, finché veramente non era giunto il termine del parto. E in tutto quel mese non facevo che piangere perché non c’erano donne in quel reparto, ma solo giovinette e qualche infermiere che non capiva nulla di ginecologia.
Finalmente, un giorno, persi le acque e andai angosciata a dirlo ad un infermiere.
“ Vieni”, mi disse. “E’ il momento. Ti porto di sotto”.
Per precauzione fui fatta partorire in un locale singolo, lontana dagli occhi della gente perbene, e fu, quello, un parto pilotato sommamente laborioso e doloroso, tanto più che la piccola era completamente soffocata dal cordone ombelicale.
Ma finalmente venne alla luce e io volevo prenderla tra le braccia e baciarmela e poterle dimostrare la mia gratitudine di essere ancora viva dopo tante peripezie ma me la levarono subito di torno e a me mi riportarono alla neuro. Lasciandomi là, sporca, con tutto il bisogno delle cure del caso, e per parecchi giorni della bambina non seppi più nulla, finché un giorno, col seno colmo di latte e una vera tempesta nella mente, non mi alzai come una tigre dal letto ed entrai di botto dal primario e così l’apostrofai: “O tu mi dai mia figlia o io ti ammazzo”.
Fu quella, credo, la prima volta che impazzii davvero. Ma il buon uomo capì immediatamente, e dopo avermi dato un tranquillante ordinò che la piccola mi fosse portata.
“ Sono forse una bestia io, che non posso dare il latte alla mia bambina?”, continuavo a urlare.
“ Ma no!”, mi disse il medico. “Non è questo. E’ che tu hai sempre preso pastiglie e il tuo latte può non essere idoneo per la piccola. Può farle male”.
Comunque, il latte dovettero levarmelo e quella fu la più dolorosa operazione morale che avessi mai subito dall’entrata in quel terribile luogo.
Dopo tre giorni mi dimisero col mio roseo fardello che sorrideva, quieto, ignaro di tutte le brutture della vita.
Ma qualcosa di ancora più grave mi aspettava a casa. Col tempo mio marito aveva perso ogni affetto per me e quando gli feci vedere la bimba non la guardò neppure. Io ero così stremata, che avevo tanto bisogno di lui: dovevo accudirla, la bimba piangeva in continuazione.
Un giorno mi disse: “Senti. Tu non stai bene. E, d’altra parte, mi sei venuta a noia. La bimba non so veramente di chi sia. Quindi, portala al brefotrofio”.
Mi sentii schiaffeggiata nell’anima.
Ma stavo anche tanto male. La lunga odissea passata al manicomio e poi al neurodeliri mi aveva completamente prostrata. Presi quella dolce bambina che era così gracile, che altro non mangiava che acqua e zucchero, e la portai in Viale Piceno. Poi, dopo averla raccomandata al medico, e non avendo più motivo di vivere, tornai a ripresentarmi al manicomio dove avevo deciso di trascorrere il resto dei miei giorni e, semmai, di morire. Avrei dato la mia vita per tenermi mia figlia, ma altri me l’aveva impedito.
Ma il destino volle che io guarissi. Ma intanto lei è stata adottata e non la vedo ormai da molti anni.

Avevamo un medico di guardia che pareva uscito dalle fila delle S.S.; di fatto, quest’uomo dalla grossa testa che pareva un melone, e che era di origine germanica, aveva una crudeltà senza limiti, e un senso del sadismo veramente infantile e patologico. Gironzolava tutto il giorno con la sua bicicletta mandando sguardi furtivi al di là di ogni siepe, per vedere se qualche malato era “passibile di punizione”. Era un essere esecrando che a un certo punto si innamorò dell’infermiera del nostro reparto, della più bella, della più bionda. E questa era talmente timida e spaventata da quell’omaccione che, quando lo vedeva, cercava di scappare. Ma lui aveva un fare così untuoso, proprio come il Mangiafoco di Pinocchio, che a lei non rimaneva che stare ad ascoltare, con gli occhi bassi, fissi sul carrello dei medicinali, e ascoltava delle profferte d’amore che saranno state anche oscene, o che forse volevano essere dolci, ma, dette da delle labbra così sottili e sarcastiche, non potevano che nascondere la vigliaccheria. E quest’uomo ogni giorno veniva nel nostro reparto per lei, e tutti ne eravamo sconvolti finché, grazie a Dio!, un giorno si capovolse sulla sua bicicletta e morì sul colpo. Quando si dice la giustizia di Dio…
Quest’uomo crudelissimo, quando uno di noi stava male, cominciava a propinargli medicinali, in misura, in quantità degne di un cavallo. Apparteneva ovviamente alla vecchia psichiatria dove i malati venivano legati con aggeggi di ferro ai polsi e alle caviglie. Ne ho proprio vista ieri una raccolta davvero edificante. Questi arnesi vennero poi sostituiti dalle fascette di canapa, egualmente mortificanti e costrittive. Ma anche i medicinali avevano lo stesso effetto di offendere e di abbrutire il malato. E a questa tremenda e silenziosa consegna, quest’uomo era estremamente fedele
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(Brani tratti da L’altra verità – Diario di una diversa, di Alda Merini. Edizioni Libri Scheiwiller, Milano 1992.)



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