IL MAGLIONE

Norman Manea


Partiva il lunedì e tornava il venerdì. Partiva piangendo, come fosse un addio. La prossima volta non dovrà più lasciarci soli - in una settimana possono succedere tante cose. Magari, finiti i giorni di assenza, accadrà il miracolo e non sarà più necessario che parta, che ci separiamo: a un tratto, il cielo si aprirà e ci ritroveremo tutti su un treno con carrozze vere, non come quello da cui ci hanno scaricati in questo deserto in capo al mondo, simili a bestie portate al macello. Un treno riscaldato, illuminato, coi sedili imbottiti... sul quale dame dolci e gentili avrebbero servito a ciascuno i suoi piatti preferiti, come si addice a dei viaggiatori di ritorno dall'altro mondo. Oppure, ancor prima del venerdì, giorno del suo ritorno, sarebbe finalmente crollato, per annientarci o redimerci, quel cielo infinito, di cenere, in cui aspettavamo con timore di essere accolti una volta per sempre, perché tutto finisse.
E così se ne tornava frettolosa, inquieta, curva sotto il sacco carico dei giorni e delle notti penati per noi.
Pareva un'ombra, si era rinsecchita, incupita. Aspettavamo alla finestra che spuntasse dai fumi della pianura, la vedevamo avvicinarsi febbrilmente, come un fantasma. Lo sapevamo, aveva lottato, supplicato: infine le avevano concesso di andare nei villaggi stranieri dei dintorni. Non avrebbe avuto né come né dove fuggire, con noi rimasti sul posto. Il lavoro del babbo lo pagavano con un quarto di pane al giorno. Se non era per lei, ci saremmo spenti rapidamente, fin dal principio.
L'avevano, dunque, autorizzata a partire; mostravano una cinica benevolenza, cedendo alle suppliche, come se si trattasse di un gioco da protrarre e seguire per un po', per poi interromperlo di colpo, con una giunta di crudeltà e piacere.
Lavorava a maglia dal lunedì al venerdì dai contadini stranieri dei dintorni, di cui non conosceva la lingua. Sapevamo che il gioco si sarebbe potuto interrompere in qualsiasi momento, nel tugurio dove ci aveva abbandonati, o nelle case riscaldate dove lavorava in silenzio guadagnandosi le patate, i fagioli, ma anche farina, a volte persino formaggio, prugne secche, mele. Solo lei credeva ancora che saremmo scampati, aggrappandosi a qualunque cosa potesse salvarci.
Il venerdì significava, di conseguenza, una sorta di nuovo principio. Come se avessimo ottenuto un altro rinvio. Sgusciava verso di noi, schiacciata dal peso, trascinandosi, curva, sotto il sacco. La gioia di rivederci diventava così intensa da impedirci di parlare. E lei si agitava a lungo, come fuori di sé, quasi incredula di averci ritrovati e di poterci vedere. Impotente e spaventata, si aggirava nella stanza senza avvicinarsi a noi. Si riprendeva a stento, ritrovava la forza di aprire il sacco che, entrando, aveva gettato per terra. Quando si chinava a spartire, voleva dire che si era calmata.
Ne aveva cavato, disponendoli a terra com'era sua abitudine, sei mucchi per i sei giorni successivi: patate, barbabietole; aveva messo da parte tre mele. Nessuno si sarebbe aspettato qualcosa di diverso dal solito. Si era passata la mano sulla fronte, si era rannicchiata per la stanchezza accanto al sacco. "Ho portato qualcos'altro" non significava, necessariamente, una sorpresa. Non ci aspettavamo qualcosa di nuovo, ci eravamo disabituati a desiderare doni diversi; già ci stupivamo che si dimostrasse capace di tanto.
Lo trasse con difficoltà dal fondo del sacco, come se dovesse cavare, sfinita, un animale, prendendolo per le orecchie o per le zampe anteriori. Non aveva la forza di tenerlo tra le braccia, di mostrarcelo. Lo lasciò scivolare dalle sue mani scheletrite sulla bocca del sacco, dove pareva ancora più spesso, pesante.
Naturalmente, non poteva essere che per il babbo; anche se pareva troppo bello, o forse proprio perché ognuno sarebbe stato tentato, fin dal primo istante, di appropriarsene, semplicemente, benché non gli fosse destinato. Splendeva con tutti i suoi colori, come se il mago che ci avrebbe salvati volesse mostrarci tutto il suo potere. La notte soffiava intorno a noi solo fumo, freddo, buio; non sentivamo che detonazioni, urla, il latrato delle guardie, le cornacchie e le rane - avevamo dimenticato da tempo simili bagliori.
Non era riuscita a distenderlo, perché ne vedessimo bene le dimensioni, i particolari, ma non aveva più alcuna importanza. Ormai era chiaro che si trattava di una cosa reale. Anche la nostra salvezza ora pareva più vicina, o almeno possibile, dal momento che potevamo vedere e toccare una tale meraviglia.
Non potendo trattenermi, mi ero avvicinato per accarezzarlo. Si mostrava soffice, buono, morivo dalla voglia di rannicchiarmici dentro, dimentico di tutti. Gli passavo la mano sulle maniche, sul collo. Lo strinsi, lo rigirai, mi si abbandonava. Lo distesi, lo aprii, poi lo ripiegai; lo presi per portarlo al babbo. Avrei cominciato a smemorare, se la sua voce mi avesse fermato in tempo, come mi aspettavo, per annunciarmi che, invece, era proprio per me.
Ma se poteva essere ambito da tutti, tanto più era adatto a lui, che aveva perduto per primo, da tempo, ogni speranza.
Era spesso, pareva grande, senza dubbio lo aveva fatto per lui. Dovevo darglielo, era inutile tergiversare.
"No, non è per il babbo", riuscì a sussurrare lei, quasi in colpa.
Mi ero fermato, sconcertato. Lo tenevo ancora tra le braccia, accecato dai suoi colori e dal suo tepore. Mi rendevo conto che non avrei dovuto intromettermi o, almeno, che avrei dovuto capire fin dall'inizio come stavano le cose. Finalmente, poverina, si era fatta qualcosa anche per sé. Sulle strade innevate della steppa le sarebbe stato più utile che a noi. Dovevo arrivarci da solo, ricordare come partiva,
stretta solo in una tela di sacco, i piedi ravvolti in stracci. Non mi era consentita una tale cecità, una tale stupidità. Mi erano quasi spuntate lacrime di rabbia. Non avrei voluto separarmene, si mostrava arrendevole e sottomesso ma, se era suo, non potevo più dire nulla. Lo apersi, per guardarlo un'ultima volta. Non mi sembrava più tanto grande.
Lo aveva fatto per sé, aveva pensato una volta tanto anche alle sue esigenze.
Mi ero voltato, mi diressi verso la fata buona, rannicchiata nell'angolo della stanza che pareva più caldo.
"Il maglione è per Mara", disse lei sorridendo, o piangendo, non so.
Si era fatto buio, non la vedevo più, non sapevo se mi avesse sorriso, come avevo creduto, o se si fosse accasciata, come talora accadeva. Su di me e intorno a me era calata una nebbia livida o, forse, era la notte imminente.
Non avrei dovuto, ma ero rimasto immobile a lungo, la testa ficcata nella morbidezza delle maniche e del davanti: mi ci ero annidato, per non uscirne più. Ben presto, però, attraverso lo spessore buono della lana, percepii il silenzio glaciale, sempre più pesante, che stava diventando per loro insopportabile; non si udivano più nemmeno i loro respiri.
Mi girai e andai con decisione verso Mara. Mi ero diretto infine, ne ero convinto, là dove dovevo. Lo deposi sulle braccia della bambina.
Lo guardai con più attenzione solo il giorno seguente. Non mi sembrava più così straordinario. Primo, perché la maglia era tutta nodi, si vedeva. Lo rovesciai, lo mostrai a Mara, perché se ne convincesse: un nodo vicino all'altro. Come se fosse cresciuto solo da avanzi di filo, annodati. E poi, il colore. E vero, pareva avesse, in certi punti, un po' più di rosso. Ma per il resto un guazzabuglio, non ci si capiva nulla. Del bianco con del cenerognolo, del nero, una traccia di giallo, un rimasuglio di verde, dell'altro verde, più scuro, una striscia grigia, un'ombra di argilla bruna, marcia, vicino a una prugna violacea; più in là, una punta di prosciutto rosato, accanto al becco rosso e giallo di un uccello. Naturalmente, non era di foggia femminile, chiunque se ne sarebbe accorto. Ma questo non glielo dissi. Mara aveva una posizione speciale che, me lo avevano insegnato, doveva essere mantenuta a ogni costo.
Nutrivamo per lei un amore eccessivo, la difendevamo con più accanimento di noi stessi - la raccomandazione ce la ripetevano spesso. Non potevo farle notare che era troppo grande per lei, e con un girocollo da ragazzo. Avrebbe potuto, però, rendersene conto anche da sola - era cresciuta abbastanza - ma, per far questo, avrebbe dovuto sfilarselo qualche volta e guardarlo. A lei, naturalmente, veniva permessa qualsiasi cosa. Siccome aveva chiesto di tenerselo indosso, acconsentirono. Almeno nei primi giorni, fu così che dormì, vestita. E vero che il freddo ci gelava, giorno e notte, soprattutto la notte. Ma non appena uno cercava di mettersi indosso più cose, lo affliggeva sempre lo stesso medesimo guaio: i pidocchi. Spògliati, lavati, avvolgiti in altri stracci puliti, quelli li facciamo bollire, controlliamo tutte le cuciture, se no è un disastro. Sicché a me, lo sapevo bene, non avrebbero permesso di dormire vestito per tre notti di fila. Ma a lei sì, benché fosse protetta con più ostinazione. Non appena si spargeva la voce che all'altro capo delle baracche si era ammalato qualcuno, cominciavano a controllarla, come fuori di sé: le palpavano la fronte, il collo, le esaminavano gli occhi, i capelli, le unghie. Che panico, se aveva per caso la fronte o le mani calde...
Lei doveva ritornare viva, a ogni costo, ripetevano a bassa voce ogni volta. Era capitata tra noi per sbaglio: che cosa si sarebbe detto se proprio lei fosse scomparsa, e noi fossimo tornati, mostrando agli occhi di tutti che avevamo pensato solo alla nostra pelle. Forse sua madre, ora, aveva saputo dove ci trovavamo ed era in viaggio verso di noi, per ristabilire la verità documenti alla mano. La bambina non aveva alcun legame con la nostra maledizione, era innocente. Sua madre l'aveva mandata, per alcune settimane, presso la sua vecchia amica, lontano dall'ospedale dove lei era stata ricoverata. Sorpresa dal flagello, portata via e confusa tra noi, era arrivata fin lì. Le proteste non convinsero nessuno, non avevano tempo per i chiarimenti, a noi non credevano. Certo, anche noi eravamo, a nostro modo, innocenti, lo gridavano tutti, per non perdere la speranza. Ma il caso della nostra piccola ospite pareva a tutti molto più grave. Se la situazione non si fosse chiarita, e la sventurata fosse stata trattenuta insieme a noi, doveva in ogni caso - su questo erano tutti d'accordo - essere l'ultima, doveva sopravvivere a tutti. Bisbigliavano negli angoli, quando la bambina non li sentiva, facevano a gara nel proteggerla, facevano di tutto per accontentarla e, nello stesso tempo, difenderla dal pericolo. Avrei dovuto indovinarlo fin dall'inizio: il regalo non poteva essere che per lei, le avrebbero permesso di goderselo in pace.
Solo il quarto giorno fui in grado di guardarlo con calma. Una meraviglia, non potevo più nascondermelo. Gliel'avrei chiesto, magari soltanto per una notte. Me l'avrebbe prestato, me lo avrebbe anche regalato se l'avessi pregata. Si mostrava sempre buona con me. Ma era proibito, lo sapevo. Però lo potevo ammirare, indisturbato, per intere ore. Neppure il mago più esperto sarebbe riuscito a fare qualcosa di più straordinario. I nodi lo rendevano più resistente, concentravano al di sotto, aumentandolo, il calore, perché l'involucro apparisse - in superficie - morbido e liscio. Riguardo ai colori - strane isole d'inchiostro, ora nero, ora verde, ora azzurro - si poteva lasciarvi scorrere e affondare le dita e lo sguardo, a piacere, fino a trovare una distesa rossa come di sabbia africana, un brandello cenerino di nuvola, sfiorato da striature dorate, sole o fiori. Un giorno intero non sarebbe bastato per esplorare tutti quei continenti, che crescevano l'uno dall'altro tanto da dare le vertigini.
Non ebbi il tempo di farmelo venire a noia guardandolo. Neppure di prenderlo in prestito e indossarlo, fino a farmelo diventare indifferente. La settimana seguente, Mara aveva le guance rosse di febbre. E così finì per lasciarlo giacere, abbandonato, nell'angolo accanto alla finestra. Lo guardavo, pensavo a lui, ma non lo toccai, anche se avrei voluto farlo.
Mara peggiorava, stava per morire. Dopo la malattia dei nonni, sapevo come cominciava e come doveva finire. Sarebbe morta ben presto, non avrebbero potuto aiutarla. Le ore in cui si riprendeva, di nuovo allegra e chiacchierina, erano ingannevoli, lo sapevo.
Non avrebbero più avuto alcun motivo di non darlo, in seguito, a me. La malattia sarebbe progredita, le giornate si erano fatte più lunghe, pareva non avessero fine; la morte si avvicinava, lo sentivo. Spaventato, aspettavo di vedere la bambina amata irrigidirsi di colpo. Chissà se, offrendomelo ora... quasi accogliendo una mia giusta rivendicazione, si sarebbe potuto fermare il corso naturale delle cose. Non avrebbero esitato a darmelo, pur di salvarla, benché io non avessi alcuna colpa del suo male. Tanto, medicine per guarirla non ne avrebbero trovate.
Non mi ero intromesso nei loro discorsi e nei loro singhiozzi, quando decisero di seppellirla al limitare del bosco, accanto ai nonni, insieme a tutte le cose che le erano appartenute.
Aspettavo, trepidante, speravo ancora che lo dimenticassero. Ma la mamma lo strappò da quell'angolo e lo gettò con rabbia sopra le altre cose.
Rimasero per qualche istante accanto alla bambina, soffocati dai singhiozzi, stringendosi l'uno all'altro. Benché non appartenesse alla nostra famiglia, Mara era la prima a seguire i nonni. Era diventata una di noi. Quando stavano per portare la bara fuori dalla baracca, il babbo vi posò la sua grossa mano, tastò, lo trovò, lo tirò da parte, lo lasciò cadere a terra, dietro di sé. La mamma se n'era accorta, lo guardò a lungo, ma non disse più nulla: accettava che lo salvassimo.
Tornammo tardi dal bosco, infreddoliti. Pioveva, la terra si era appiccicata ai nostri stracci. Zolle intrise d'acqua avevano coperto Mara. Sapevo, da quando era successo coi nonni, che non sarebbe più tornata neppure lei. Ricordavo come si stringeva a me per il freddo nel buio, passandomi le mani intorno al collo. Il suo riso limpido e sbarazzino ci incantava. Restammo in silenzio, ci stendemmo sul pavimento di terra, dove ci colse la notte.
Non mi ero avvicinato, non lo toccai. Lo avevo solo guardato, furtivo, alcune volte: lo vedevo incupirsi, abbandonato, intorpidito. Neppure il giorno seguente qualcuno mi disse di prenderlo, benché la stanza ora sembrasse più umida e più fredda. Il lunedì, la mamma partì di nuovo; solo nel pomeriggio, quando restammo soli, il babbo me lo mise sulle spalle. Sentii le sue maniche scivolarmi sul petto, pronte a riscaldarmi. Le infilai, ficcai la testa in quell'involucro caldo. Mi stava a pennello, sembrava fatto apposta per me. Avrei voluto uscire nel cortile, a pavoneggiarmi. Avrei voluto passeggiare almeno per la camera con indosso il maglione, ma non ne avevo il coraggio. Me ne restai rannicchiato: finalmente era mio, come desideravo da tanto tempo... tremavo, non riuscivo a controllarmi.
La gioia, però, fu di breve durata. Fin dal giorno seguente lo sentii pendere floscio, senza vigore, dalle mie spalle. Era questo il segnale, me ne ricordavo. Era cominciato così coi nonni, poi con Mara. La malattia stava in agguato lì intorno, penetrava di soppiatto, subdolamente, si infiltrava a poco a poco, per poi esplodere improvvisa, verso sera: chi ne era colpito barcollava, inebetito dalla febbre, accasciandosi, senza più riuscire a parlare.
Cominciava l'agitazione, si chiedevano medicine ai vicini: almeno un piramidone, un'aspirina, un po' d'alcol. Infine compariva il termometro. Unico in tutto il lager, custodito da una vecchia maniaca, sempre avvolto nello stesso sudicio brandello di coperta, il termometro si otteneva con difficoltà, solo dopo reiterate insistenze. Prima di arrivare al malato, passava con precauzione di mano in mano, come un amuleto, per timore che si rompesse, perché sarebbe scomparso il nostro ultimo legame col mondo normale, al quale volevamo rimanere attaccati.
Poi faceva la sua comparsa il dottore, e così era stato anche questa volta. Al posto dell'uomo distinto, sicuro delle sue prescrizioni, con gli occhialini, c'era un tubercolotico gobbo, stanco, cencioso. Lo chiamavamo dottore anche lui, aveva anche lui le mani bianche e affusolate, ma non se le lavava più, all'inizio e alla fine della visita, come un tempo. D'altronde, limitava il più possibile i gesti e il consulto.
Aveva appoggiato il palmo sulla fronte della bambina, le aveva guardato le dita, poi le aveva tastato il polso contando, a fior di labbra, le pulsazioni; aveva scoperto il corpo giallognolo e smagrito, per voltarlo da una parte e dall'altra, indicando le chiazze, una, un'altra: la malattia aveva ormai preso possesso completo del corpo della piccola paziente. Non c'era più niente da fare se non levare le mani mormorando, a occhi chini, il nome del tormento che non sarebbe durato più di qualche giorno. Solo un miracolo, soltanto un miracolo... Aveva levato dunque, ancora una volta, le mani, senza forze, implorando, come facevano tutti, il miracolo. Poi se n'era andato quasi furtivo, curvo, vergognoso, com'era venuto.
Calava la sera, sentivo non soltanto la luce dileguarsi sempre più stanca, ma soprattutto l'asprezza del gelo improvviso, tagliente. Calava il freddo della sera quando sentii qualcosa di strano, come se mi avesse abbandonato: non mi proteggeva più; inerte e freddo, ora mi pendeva indosso, svigorito. Senza dubbio, aveva sempre covato dentro di sé la malattia. Aveva ingannato anche Mara, ma lei non era riuscita, morendo, a portarla con sé. Ora toccava a me. Me lo sarei strappato di dosso, per bruciarlo, per gettarlo lontano. Troppo tardi, non avrebbe più avuto alcun senso.
Non volevo finire in quella fossa umida, buia, dove non si sapeva cos'altro dovesse succedere. Ero colpevole, lo riconoscevo: non avrei dovuto bramarne, con tanta impazienza, i colori e il tepore. Mi fossi dominato, avessi aspettato, non avessi spiato con tanta spudoratezza la sofferenza di Mara, e ciò che ne era seguito, fino al momento in cui l'avevo sentito avvolgermi! Non avrei dovuto essere così debole e cieco, così impaziente, da lasciarmi vincere da lacrime di gioia quando ne venni in possesso... Ero stato visto, di certo, ero stato notato per la mia avidità e la mia abiezione. Se vi avessi rinunciato, seppure non dall'inizio, ma almeno dopo la morte di Mara, il castigo sarebbe stato, forse, evitato...
Non ne potevo più, mi avvicinai alla finestra. Il babbo spiava, come al solito, attraverso l'angusto occhio di luce, il miracolo o la sciagura. Verso sera lo prendeva la disperazione, non riusciva più a dominarsi...
"La malattia, la malattia, sto male" - ma mi udì solo più tardi. Si voltò bruscamente, mi mise la mano sulla fronte, sul collo. Mi trascinò davanti alla finestra, mi fece contare, tirar fuori la lingua, aprire gli occhi. "Sei pallido, pallidissimo, ma non hai niente" disse, prendendomi tra le sue braccia grandi, per addormentarmi.
Non avevo la forza di parlare. Indicai alcune volte le maniche infette. Volsi la mano verso il collo malato, ma non se ne accorgeva. Era ormai notte fonda, mi copriva con il suo largo sorriso, si chinava su di me, tenendomi la mano sulla fronte sudata.
Mi svegliai nella bara, mentre calavo nella fossa, accanto a Mara, poi più nulla. Tremavo, si era fatto giorno, volevo dir loro che non sarei arrivato a venerdì, sicché non ci sarebbe stato nessuno in grado di salvarmi. Era arrivata di notte, non vedevo nulla, solo una nuvola profonda, sempre più profonda, quando udii sopra di me la sua voce spaventata.
Sentii sul collo, all'orecchio, il soffio di un respiro affannoso. "Meno male che sono arrivata, che sono arrivata in tempo" diceva. Si udì anche la voce stridula del medico, che ansimava lì intorno: "Non ha chiazze, non ci sono sintomi". Così aveva detto: "sintomi". Suonava bene "sintomi": mi trascinai dietro la parola, cadevo, precipitavo; sintomi, era quasi rassicurante, scivolavo, scendevo, poi caddi in deliquio. Pesci scivolosi e umidi mi passavano sulle labbra riarse, mi lambivano le orecchie, fluivo con loro. A volte mi scrollavo le onde dal petto, cercavo di aprire gli occhi. Vedevo Mara diafana, di cera, i denti gialli e aguzzi del medico, e di nuovo la fossa.
La morte per acqua durò, probabilmente, alcune notti, finché non udii di nuovo la voce familiare. "Parto più tranquilla, meno male che è passata." Ero sfuggito alle braccia della morte; barcollante, ormai tornato in me, tentavo i primi passi, sostenuto, lungo le pareti, dal braccio del babbo, fino alla finestra della steppa che aveva ingoiato tutto.
Riuscii a chiedere se avevo ancora delle chiazze.
"Non ne hai mai avute. Non era la malattia. Soltanto uno spavento, così ha detto il medico. Deliravi, hai sempre delirato. Non si stacca più, così dicevi. Non si stacca più, e cercavi di levare le mani."
Mi aveva sollevato per le ascelle per farmi guardare dalla finestra. Mi diede una brodaglia bollente. Il venerdì, fin dal mattino, la steppa ci restituì la mamma. "Sono venuta prima, ho detto che eri malato. Mi hanno dato dello strutto, per farti riprendere le forze."
E così ripresi le forze, potei rivederlo. Sconfitto, rimpicciolito, sottomesso, in un angolo, pronto a servirmi. Ma io ero diventato un altro. Lo lasciai aspettare, non lo guardai più. Mi avevano avvolto in una coperta pesante, non sentivo più ombra di freddo. Tutti mi stavano intorno, risoluti a non lasciarmi più solo.
Si era ristretto, rimpicciolito. Finii per lasciare che mi riconquistasse. In fondo, non si era dimostrato così pericoloso. Lasciato a lungo affagottato accanto alla parete umida, il pelo ispido e irregolare si era un po' intenerito.
Ficcai le narici e tutta la faccia nella ruvidezza di quell'involucro un tempo così soffice e buono. Perché m'inebriasse di nuovo quel tepore come di pane tostato, o di patate lesse, o l'odore di segatura fresca, la fragranza del latte, la pioggia, le foglie, la nostalgia di matite e di mele. Ma non era così, piuttosto un sentore strano, di muffa. Qualcosa di putrido e greve. O soltanto pungente, soffocante, non ricordo. Si era scurito, inaridito; si estraniava, estenuato.
Nei giorni seguenti ci riabituammo l'uno all'altro, riprendevamo a conoscerci. Ci ritrovavamo a poco a poco, ridiventava se stesso. Si mostrava sempre più morbido, più caldo. I colori erano rinati, un mondo di inchiostri. Tuttavia la sua vicinanza mi spaventava, mi opprimeva. Lo avevo desiderato intensamente, come uno sciagurato, perché restasse solo mio. La mia impazienza aveva affrettato la morte di Mara! Tremavo, benché nessuno all'infuori di lui lo sapesse. Mi avvicinavo a lui senza coraggio, senza vigore. Le braccia vi si ingarbugliavano, non riuscivo a tirar fuori la testa. Quando, finalmente, mi si era incollato addosso, troppo aderente, quasi mi soffocava. Non temevo più la malattia. Mara gli aveva tolto la forza, lo sapevo: lui non poteva più contagiarmi. Restava il senso di colpa, restava la paura per l'abbraccio delle maniche che si avvinghiavano, scottando, come tentava di fare la bambina tutte le notti, quando si stringeva a me per il freddo.
Però mi abituavo a lui e lui aveva messo giudizio. Non mi saltava più agli occhi, per farmi ricordare. Mi ubbidiva, mi serviva, sempre più insignificante, acquiescente. Spesso dimenticavo le mie ossessioni, avevo acquistato una certa sicurezza.
Ma al funerale del dottore non lo indossai, sarebbe stato troppo. Infuriava la tormenta, battevo i denti di spavento e di freddo. Lo avevo nascosto, in modo che nessuno lo trovasse. Me ne dimenticai per diversi giorni; lo rimisi in libertà solo in seguito, quando i funerali si erano moltiplicati, più d'uno ogni giorno. Non c'erano altri rinvii, inutile cercare scampo. Cadevano a decine, la maledizione colpiva a caso, proprio quelli che non se l'aspettavano. Non avevano più il tempo di occuparsi di me, neppure io: la paura era diventata generale, smisurata, tanto da ingoiarci tutti. Ci assottigliavamo, inebetiti, dimentichi di noi e degli altri.
Niente contava più, né l'infamia, né la colpa. Lo aveva capito anche lui. Stingeva i suoi colori, il suo odore, per passare sempre più inosservato. Era solo utile: lo indossavo ogni giorno, mi proteggeva dal freddo, e basta. Si tendeva perfettamente, come uno scudo, niente ricordava la nostra gloriosa intimità di un tempo. Non ci vedevamo, ci difendevamo alla meglio, senza difesa. I venti della steppa si avvicinavano, per fare tra noi la loro scelta. Il loro urlo vorace copriva tutte le paure. Nessuno avrebbe più percepito un povero singulto soffocato, colpevole e infame.
Ogni giorno ci spiava. Dimenticavamo i giorni, aspettavamo, ascoltavamo il digrigno rabbioso della notte. Il tempo ci perseguitava, non c'era più niente da fare, anche il tempo era contagiato, eravamo in suo potere.


(Tratto dalla raccolta Ottobre, ore otto, Il Saggiatore, Milano, 1998, traduzione di Marco Cugno)


 

Norman Manea è nato nel 1936 a Suceava, in Bucovina (Romania). Tra i cinque e i nove anni, per le sue origini ebraiche, è stato internato con la famiglia in un campo di concentramento del regime fascista romeno, in Ucraina. Ha vissuto la sua giovinezza nella Romania stalinista del dopoguerra e, dalla metà degli anni sessanta, ha sperimentato come uomo e come scrittore la dittatura di Ceausescu. Nel 1986 ha lasciato il suo paese e vive attualmente negli Stati Uniti, dove insegna al Bard College di New York. Fra le sue opere, tradotte in più di dieci lingue: i romanzi Atrium (1974), Il libro del figlio (1986); .i saggi compresi in Gli anni di apprendistato del povero Augusto (1979), Di contorno (1984) e Clown. Il dittatore e l'artista; la raccolta di racconti Un paradiso forzato.




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