IL POETA E LA MUSA

Tat'jana Tolstaja

 

 

Nina era una meravigliosa donna normale, medico di professione, e si era indubbiamente guadagnata, come tutti, il diritto alla felicità. Di questo era pienamente consapevole. Intorno ai trentacinque anni, dopo un lungo periodo di prove infelici ed errori – non vale neanche la pena di parlarne – comprese perfettamente di cosa aveva bisogno: aveva bisogno di un amore folle, pazzo, fatto di singhiozzi, mazzi di fiori, attese di telefonate notturne, inseguimenti in taxi, ostacoli insormontabili, infedeltà e perdoni; aveva bisogno di una passione talmente selvaggia – notte ventosa e oscura, punteggiata di luci – da far sembrare un'inezia la classica impresa femminile: sette paia di stivali consumai, sette bastoni di ferro spezzai, sette pagnotte rosicchiai, aveva bisogno di ricevere in premio, come dono supremo, non una banale rosa d'oro, non un bianco piedistallo, ma un fiammifero consumato o un biglietto dell'autobus accartocciato – una briciola del banchetto dove si è fermato il principe azzurro, l'eletto del cuore. Ma certamente moltissime altre donne hanno bisogno più o meno della stessa cosa, quindi Nina, come si è già detto, era da questo punto di vista una donna normale, una donna meravigliosa, medico di professione.
Era stata sposata: le pareva di essere rimasta seduta a lungo, per un tempo interminabile, sul sedile di un treno internazionale ed esserne uscita stanca, a pezzi, sopraffatta dagli sbadigli, nella notte senza stelle di una città estranea, dove non c'è neppure un'anima amica.
In seguito aveva vissuto da eremita, dedita a lavare e lucidare i pavimenti del suo lindo appartamento, si era dedicata a piccoli lavori di cucito, ma poi aveva finito per annoiarsi di nuovo. Portava stancamente avanti una relazione con il dermatologo Arkadij Borisovich che, senza contare Nina, aveva già due famiglie. Dopo il lavoro lei passava nel suo studio – nessun romanticismo: la donna delle pulizie svuota i cestini, batte la ramazza umida sul linoleum, Arkadij Borisovich si lava a lungo le mani, strofina con lo spazzolino ed esamina sospettoso le unghie rosate, si guarda con disgusto allo specchio. In piedi, roseo, satollo, ottuso, rotondo come un uovo, non si accorge che Nina è già sulla soglia con il cappotto indosso. Poi tira fuori la lingua appuntita, la fa ruotare da una parte e dall'altra – teme le infezioni. Come principe azzurro, poteva trovare qualcosa di meglio! Che passione può esserci tra lei e Arkadij Borisovich? Nessuna, certo.
Lei però il suo diritto alla felicità se l'era era guadagnato, aveva tutti i buoni motivi per mettersi in fila là dove la distribuiscono: un bel viso, carnagione chiara, sopracciglia larghe, capelli lisci e neri con l'attaccatura bassa sulle tempie, raccolti dietro. Anche gli occhi erano neri: sui mezzi di trasporto gli uomini la prendevano per una moldava e una volta, nella metropolitana, nel passaggio per la stazione Kirovskaja, un tizio l'aveva persino seguita, assicurandole di essere uno scultore, insistendo perché andasse subito da lui a posare, pare, per la testina di una uri, ma subito, altrimenti l'argilla si sarebbe seccata. Lei naturalmente se ne era guardata bene per un'abituale sfiducia verso gli artisti: aveva avuto un'esperienza sgradevole una volta che aveva acconsentito a bere un caffè con uno che asseriva di essere un regista e l'aveva scampata quasi per miracolo, un appartamento così grande, con tanti vasi cinesi e il soffitto a mansarda, in un vecchio palazzo.
...Ma il tempo passava in fretta e il pensiero che nel nostro paese vi fossero all'incirca centoventicinque milioni di uomini, mentre a lei il destino, poco generoso, aveva concesso solo Arkadij Borisovich, a volte la faceva stare male. Avrebbe potuto trovare qualcun altro, ma non era nemmeno disposta ad accettare il primo venuto. La sua vita interiore, poi, con gli anni diventava sempre più ricca, lei capiva e sentiva in modo sempre più acuto e durante le serate autunnali si compiangeva sempre di più; non aveva nessuno a cui offrirsi, lei così slanciata, dalle sopracciglia così nere.
Talvolta andava a trovare qualche amica sposata e, dopo aver regalato a un altrui moccioso orecchiuto una tavoletta di cioccolata presa alla panetteria più vicina, beveva il tè, conversava a lungo, specchiandosi nel vetro scuro della porta della cucina che rendeva il suo riflesso ancora più conturbante e trionfante, a confronto con la silhouette sformata dell'amica. E sarebbe stato semplicemente legittimo se qualcuno ne avesse cantato le lodi. Dopo avere ascoltato i discorsi dell'amica, gli acquisti, le cose bruciate, le malattie dell'orecchiuto bambino, dopo aver osservato il mediocre marito dell'altra, fronte stempiata, tuta sbrindellata all'altezza delle ginocchia, certo, di uno così si può pure farne a meno, se ne andava via delusa e portava la sua eleganza oltre la porta e sul pianerottolo e giù per le scale nella notte fresca: non era quella la gente giusta, era venuta per niente, invano si era offerta e aveva lasciato nella scialba cucina la propria impronta profumata, invano aveva fatto mangiare la deliziosa cioccolata dal gusto un po' amaro a un bambino non suo, e lui se n'era ingozzato e si era impiastricciato senza nemmeno apprezzarla, si coprisse di bolle dalla testa ai piedi!
Sbadigliava.
Poi ci fu un'epidemia di asiatica, tutti i dottori vennero mobilitati, e anche Arkadij Borisovich andava a fare le visite a domicilio, con la mascherina di garza e i guanti di gomma per non prendersi i microbi; ma non ci fu nulla da fare, si mise a letto e i suoi pazienti passarono a Nina. Proprio qui l'aspettava al varco il destino e aveva assunto le sembianze di Grisha, disteso sulla panca, sotto le coperte lavorate ai ferri, la barba lunga e in deliquio. Successe allora. Il quasi cadavere rapi all'istante il suo cuore estenuato dall'attesa: le tristi ombre sulla sua fronte di porcellana, la tenebra profonda delle occhiaie infossate, la barba tenera, trasparente come il bosco in primavera, diventarono gli elementi di una scena magica, violini invisibili suonarono un valzer nuziale: la trappola era scattata. Si sa come vanno queste cose.
China sul morente si torceva le mani una donna schifosamente bella, con i capelli tragicamente sciolti (si scopri poi trattarsi di Agnija, compagna di scuola di Grisha, attrice fallita, che canticchiava accompagnandosi con la chitarra, insomma niente di serio, non poteva certo rappresentare una minaccia), sì, lei aveva chiamato il dottore, salvatelo! Sa, era passata di lì per caso, lui non chiudeva le porte e non chiedeva mai aiuto, Grisha, il portiere, il poeta, il genio, il santo! E così... Nina distolse lo sguardo dal portiere diabolicamente bello e gettò un'occhiata alla stanza: una grande sala, bottiglie di birra sotto il tavolo, stucchi polverosi al soffitto, dalle finestre i riflessi azzurrati dei mucchi di neve, un inutile camino, pieno di cianfrusaglie e roba vecchia.
– È un poeta, un poeta, fa il portiere per avere una casa, – mormorava Agnija.
Nina cacciò Agnija, si sfilò la borsa, l'appese a un chiodo, prese con cautela il suo cuore dalle mani del suo Grisha e lo inchiodò al suo capezzale. Grisha delirava in rima. Arkadij Borisovich si sciolse come zucchero nel tè bollente. Era l'inizio di un cammino cosparso di spine.
Quando riacquistò l'udito e la vista Grisha scopri che la felice Nina sarebbe rimasta con lui fino alla tomba; all'inizio ne fu un po' sorpreso e avrebbe desiderato procrastinare l'arrivo di quella felicità inattesa o, se questo non fosse stato possibile, accelerare almeno l'incontro con la tomba, ma in seguito, per mitezza di carattere, divenne più arrendevole e la pregò solo di non essere allontanato dagli amici. Temporaneamente, finché non si fu ripreso, Nina lo assecondò. Naturalmente fu un errore; riacquistò in fretta le forze e si lasciò di nuovo trascinare in quell'assurda relazione con quella banda sconfinata. C'erano giovani senza un'occupazione definita e un vecchio con la chitarra, poeti alle soglie della maturità, attori che in realtà facevano gli autisti e autisti che in realtà facevano gli attori, una ballerina in congedo che non faceva che ripetere: "Dài, chiamiamo pure i miei amici" e signore con brillanti, gioiellieri senza licenza e ragazze di nessuno con sguardi supplichevoli, filosofi semianalfabeti, un diacono di Novorossijsk che portava sempre con sé una valigia di pesce salato, un tunguso rimasto a Mosca, che temeva di rovinarsi la digestione con il cibo della capitale e mangiava solo il suo, del grasso che raccoglieva con il dito da una scatoletta.
Tutti, oggi gli uni e domani gli altri, si accalcavano di sera nella portineria; la piccola dépendance a tre piani cicalava senza tregua, scendevano gli abitanti dei piani superiori, strimpellavano la chitarra, cantavano, leggevano i propri versi e quelli altrui, ma soprattutto ascoltavano quelli del padrone di casa. Grisha veniva considerato un genio, già da molti anni doveva uscire una sua raccolta, ma un certo malvagio Makuskin, dal quale tutto dipendeva, glielo impediva: Makuskin giurava che prima sarebbero dovuti passare sul suo cadavere. Maledicevano Makuskin, esaltavano Grisha, le donne lo pregavano di recitare ancora e ancora, Grisha si confondeva e recitava: versi densi, pieni di significati, simili a costose torte su ordinazione con ghirigori e solenni torri di meringa, versi appesantiti da viscose creme verbali, con improvvisi scricchiolii sonori di noci frantumate e caramelle gelatinose di rime tormentose quanto nefaste per l'intestino. "Eh-eh-eh-eh-eh" scuoteva la testa il tunguso, che pare non capisse una sola parola di russo. "Allora non gli piace?" chiedevano a voce bassa gli ospiti. "No, pare che da loro sia un complimento," Agnija scuoteva i capelli, timorosa che il tunguso le facesse il malocchio. Gli ospiti se la mangiavano cogli occhi e la invitavano a proseguire la serata in un altro posto.
Naturalmente tutta questa gente a Nina non era gradita. La cosa più spiacevole però era che ogni santo giorno, in qualunque momento lei lo andasse a trovare, di pomeriggio, di sera o dopo il lavoro, nella portineria stava seduta a bere il tè e a contemplare la soffice barba di Grisha, una certa Lizaveta, un essere meschino, secco come una forchetta, una gonna nera fino ai piedi, un pettinino di plastica nei capelli scialbi. Certo, era impensabile che Grisha avesse una relazione con quel pidocchietto. Sarebbe bastato vedere come lei, dopo aver liberato dalla manica la rossa mano ossuta, la protendesse incerta verso un biscotto pietrificato, abbandonato da un secolo, come se si aspettasse da un momento all'altro che qualcuno la picchiasse e la privasse del dolce. Aveva pure le guance più piccole del normale, le mascelle più grandi e il naso cartilaginoso, insomma c'era in lei qualcosa del pesce, un nero, scialbo pesce di acque profonde, che striscia sul fondo nella più fitta oscurità e non osa salire in superficie, dove filtra la luce del sole, dove si inseguono le specie azzurre e scarlatte degli abitanti dei fondali sabbiosi.
No, l'amore non c'entrava! Eppure Grisha, sempliciotto, guardava con piacere quel relitto umano, le recitava versi, ululando e piegandosi sulle ginocchia alle rime, poi, commosso dalla propria arte, sbatteva forte le palpebre sugli occhi umidi e si voltava guardando il soffitto per ricacciare indietro le lacrime, mentre Lizaveta scuoteva il capo, rappresentando in questo modo il turbamento di tutto il suo organismo, si soffiava il naso e imitava i singhiozzi soffocati dei bambini, proprio come se avesse versato anche lei lacrime copiose.
Questo era estremamente sgradevole per Nina. Bisognava liberarsi di Lizaveta. Al suo Grisha invece questa sfacciata adorazione era gradita; a lui, poco selettivo, piaceva tutto: agitare al mattino la pala sulla neve soffice, vivere nella sala con il camino pieno di cianfrusaglie, stare al primo piano e lasciare la porta sempre spalancata – entrasse pure chi voleva – il trambusto e l'andirivieni, la pozzanghera di neve nell'androne, e tutti quei ragazzi e ragazze, attori e vecchi, la trascurata Agnija, quasi fosse l'essere migliore della terra, e il tunguso che stava lì non si sa per quale motivo, tutta quella gente strampalata, riconosciuti e non riconosciuti, geni e reietti, e Lizaveta, rosicchiata come un osso, e — per far cifra tonda — già che c'era, anche Nina.
I frequentatori della piccola dépendance consideravano Lizaveta un'artista, e in effetti le sue opere erano state esposte in mostre di terz'ordine, Grisha, però, ispirandosi alle sue croste scure, aveva composto un adeguato ciclo di versi. Per preparare le sue tele Lizaveta, come uno stregone africano, doveva giungere a uno stato di possessione, e allora nei suoi occhi spenti si accendeva un fuoco e con grida, rantoli, con un'ira oscena, si avventava sulla tela e impastava con i suoi stessi pugni gli azzurri, i neri, i gialli, e subito graffiava con le unghie l'impasto prima che si asciugasse. Questa corrente artistica si chiamava ‘artiglismo’, ed era uno spettacolo terribile. Malgrado ciò, venivano fuori piante acquatiche, stelle, castelli sospesi nel cielo, qualcosa che strisciava e volava allo stesso tempo.
"Ma non si può farlo in modo più tranquillo?" sussurrava Nina al suo Grisha, dopo aver osservato per un po' una performance di artiglismo, "Be' no, evidentemente non si può," sussurrava in risposta il caro Grisha, alitando dolci caramelle al latte "è l'ispirazione, è lo spirito, cosa puoi farci, soffia dove vuole." E i suoi occhi risplendevano di tenerezza e rispetto per l'indemoniata imbrattatele.
Le mani ossute di Lizaveta si coprivano di piaghe causate dai colori velenosi, e delle stesse piaghe si ricopriva il cuore geloso di Nina, inchiodato sopra il capezzale di Grisha. Non voleva dividerlo con nessun'altra; a lei sola dovevano appartenere gli occhi azzurri e la barba trasparente del bel portinaio. Oh, poter diventare non l'amica mobile, occasionale, ma la padrona assoluta, mettere Grisha in un baule, spandervi la naftalina, coprirlo con uno straccetto di tela, chiudere bruscamente il coperchio e sedercisi sopra facendo scattare per bene le serrature: resisteranno.
Allora sì, allora ben venga perfino Lizaveta. Viva pure e graffi i suoi quadri, li rosicchi pure con i denti, si metta pure a testa in giù e stia così come una colonna di nervi, tutta agghindata, con il fiocco arancione nei capelli smorti, alle esposizioni annuali, vicino alle sue tele barbare, con le mani e il viso arrossati, madida di sudore e pronta a scoppiare in lacrime di risentimento o felicità, mentre in un angolo, su un tavolino malfermo, riparandosi con il palmo della mano per sottrarsi ai curiosi, i visitatori scrivono nel ricco, rosso in folio un giudizio fino a quel momento ignoto: magari "è una vergogna", oppure "magnifico", oppure "ma l'amministrazione sa quello che fa?" oppure qualcosa di languido, di lezioso, firmato da un gruppo di bibliotecarie di provincia — come se l'arte sacra ed eterna le avesse trafitte da parte a parte.
Oh, strappare Grisha da quell'ambiente dannoso, ripulirlo dalle estranee, attaccate come piccole conchiglie al fondo di una nave, trascinare in salvo questa nave dal mare in tempesta, capovolgerla, incatramarla, stopparla, issarla sul sostegno in un luogo silenzioso e tranquillo!
Ma lui, spensierato, pronto ad aggrapparsi al collo di qualsiasi cane randagio, antigienico vagabondo, si sprecava per chiunque, distribuiva se stesso a manciate; anima semplice, prendeva una reticella, la riempiva di yogurt e panna acida e andava a trovare Lizaveta ammalata; bisognava accompagnarlo e, Dio mio, che razza di tana, che stanza gialla, orrenda, piena di sudiciume, cieca, senza finestre! E, appena visibile, sul lettino di ferro, sotto una coperta militare, Lizaveta che si riempiva beata la bocca nera di panna acida e, china sui quaderni di scuola, stava la figlia di Lizaveta, impaurita, grassa, per niente somigliante.
"Nel complesso come te la passi qui?" chiedeva Grisha. E Lizaveta vicino alla parete gialla reagiva debolmente. "Così così." "Ti serve qualcosa?" chiedeva insistente Grisha. E il lettino di ferro scricchiolava: "Pensa a tutto Nastja." "Allora studia," il poeta poggiava ora sull'uno ora sull'altro piede, carezzava la grassa Nastja sulla testa e indietreggiava nel corridoio, mentre Lizaveta, sfinita, già dormiva.
"Bisognerebbe che io e lei... ci mettessimo insieme," indicava vagamente con le mani Grisha, e distoglieva lo sguardo. "Vedi che difficoltà ci sono con la casa. Lei viene da Tot'ma, affitta questo tugurio, ma che talento, eh? Anche sua figlia è molto portata per l'arte. Modella bene, ma chi le insegnerà a Tot'ma?" "Io e te ci sposeremo, io sono tua," ricordò severamente Nina. "Sì, certo me lo ero dimenticato," si scusò Grisha. Era un uomo mite, soltanto aveva la testa piena di sciocchezze.
Annientare Lizaveta fu faticoso come tagliare in due il verme di una mela. Quando vennero a farle la multa per aver contravvenuto alle leggi sulla residenza, lei si era già sistemata in un altro buco, e Nina mandò laggiù la polizia. Quando Lizaveta si nascondeva negli scantinati Nina allagava gli scantinati; quando passava la notte nei depositi Nina demoliva i depositi; infine Lizaveta si ridusse a un'ombra.
Sette paia di stivali consumò Nina negli uffici amministrativi e nei commissariati, sette bastoni di ferro ruppe sulla schiena di Lizaveta, sette chili di biscotti rosicchiò nell'odiata portineria, ma il matrimonio doveva essere celebrato.
Ormai la variopinta compagnia si assottigliava, ormai un piacevole silenzio regnava di sera nella dépendance, ormai solo qualche temerario di passaggio bussava rispettosamente alla porta e scrupolosamente si puliva le scarpe sotto lo sguardo di Nina, rimpiangendo subito di essere venuto. A Grisha non restava più molto tempo per abbrutirsi con la pala e seppellire il proprio talento nei mucchi di neve, stava per trasferirsi da Nina dove lo aspettava una solida spaziosa scrivania col piano in plexiglass, a sinistra un vasetto con due rametti di salice, a destra, nella cornice, sorrideva la foto di Nina con un angolo incurvato, per così dire, il viso nella sua semplice incastonatura'. E il suo sorriso assicurava che tutto sarebbe andato bene, tutto sarebbe stato abbondante, caldo e pulito, che Nina sarebbe andata dal compagno Makuskin per risolvere finalmente il problema della raccolta che andava per le lunghe, avrebbe chiesto al compagno Makuskin di esaminare attentamente il materiale, di dare dei consigli, di ritoccare qualcosa, di tagliare la torta viscosa dell'arte di Grisha in paste commestibili di una porzione.
Nina consentì a Grisha di salutare gli amici per l'ultima volta, e alla cena d'addio si riversarono le innumerevoli orde: bambine e mostri, vecchi e gioiellieri, e vennero, contorcendo le gambe, tre giovani ballerini con occhi femminei e vi si trascinò uno zoppo con le stampelle, condussero un cieco e balenò l'ombra di Lizaveta, ormai quasi incorporea, ma la folla aumentava, ronzava e si riversava lì dentro come l'immondizia dall'aspirapolvere, lanciata in senso contrario, qua e là si sparpagliavano tipi barbuti e le pareti della dépendance si gonfiavano sotto la pressione umana — c'erano grida, pianti e nervosismo. Rompevano le stoviglie. I giovani ballerini trascinarono via di peso l'isterica Agnija, dopo averle chiuso i capelli nella porta; l'ombra di Lizaveta, che si rodeva le mani e si rotolava sul pavimento, pretendeva che la calpestassero — soddisfecero la richiesta; il diacono portò il tunguso in un angolino e gli chiedeva a segni quale fosse la loro fede, il tunguso rispondeva, anche lui a segni, che la loro fede era la migliore.
Grisha, invece, batteva la fronte di porcellana contro il muro e gridava che d'accordo, sarebbe morto, ma dopo la sua morte, aspettate e vedrete, sarebbe di nuovo tornato dagli amici e mai più si sarebbe separato da loro.
E il diacono non approvava tali discorsi. E neppure Nina li approvava. Ma verso il mattino tutta quella gentaglia sparì e Nina, messo Grisha in un taxi, lo portò nel suo palazzo di cristallo.
...Ah, sapete, nessuno è in grado di fare il ritratto dell'uomo amato quando lui, stropicciandosi gli occhi azzurri assonnati e liberata la giovane gamba pelosa da sotto la coperta, sbadiglia a tutta bocca! Lo guardi come incantata, e tutto in lui è tuo, tuo: il difetto nella chiostra dei denti, il principio di calvizie, la magnifica verruca!
E ti senti una regina, la gente fa largo per la via, i colleghi salutano rispettosamente, e Arkadij Borisovich tende gentilmente la mano, avvolta in un pezzo di garza sterile.
Era bello medicare i malati fiduciosi, era bello portare a casa borse piene di cosine buone, la sera era bello controllare, come una sorella premurosa, quanto aveva scritto Grisha durante la giornata.
Soltanto, ecco, lui era deboluccio, piangeva molto, non voleva mangiare e non voleva scrivere per benino sulla carta pulita ma, per vecchia consuetudine, continuava a raccattare pezzetti e scatole di sigarette, scarabocchiava, oppure disegnava ghirigori e svolazzi. E scriveva di una strada gialla, gialla, sempre di una strada gialla, e sopra la strada una stella bianca. Nina scuoteva la testa. "Rifletti, tesoro mio, non è possibile portare versi di questo tipo al compagno Makuskin, e tu devi pensare alla tua raccolta di poesie, noi viviamo nel mondo reale". Ma lui non ascoltava e continuava a scrivere della stella e della strada, e Nina gridava: "Tesoro, mi hai capito?! Non ti azzardare a scrivere cose del genere!" E lui si spaventava, scrollava la testa e Nina, addolcitasi diceva: "Su-su," e, dopo averlo messo a letto, gli faceva bere menta e tiglio, adonide e leonuro, ma lui, ingrato, piangeva senza lacrime e inventava versi offensivi per Nina sul fatto che il leonuro gli era cresciuto dentro il cuore e aveva inselvatichito il suo giardino, e i boschi erano brulli, e un corvo si beccava tutto, anche l'ultima stella, dalla volta celeste ammutolita; era come se lui, Grisha, in una qualche isba non ben definita, non facesse che spingere la porta bloccata dal gelo, ma uscire non era possibile, e c'era solo un picchiettio di tacchi rossi in lontananza..." E di chi sarebbero questi tacchi?!" Nina agitò il foglietto. "Toglimi una curiosità, di chi sarebbero questi tacchi?!" "Tu non capisci nulla," Grisha le strappava via la carta. "No, io capisco tutto benissimo," rispondeva Nina con amarezza, "voglio semplicemente sapere di chi sono questi tacchi e dove picchiettano?" "A-a-a-a!!! Mi picchiettano in testa!!!" urlava Grisha, infilando la testa sotto la coperta, mentre Nina andava nel gabinetto, strappava i versi e li gettava nell'inferno acquatico, nel piccolo Niagara domestico.
Una volta alla settimana gli controllava la scrivania e gettava via le poesie che per un uomo sposato era sconveniente comporre. E talvolta, di notte, gli faceva l'interrogatorio: stai davvero scrivendo per il compagno Makushkin o fai lo scansafatiche? E lui si nascondeva la testa tra le mani, incapace di sopportare la forte luce della spietata verità.
Così, bene o male, andarono avanti due anni; lui però, malgrado fosse circondato da ogni cura, non apprezzava il suo amore e smise di darsi da fare. Vagava per l'appartamento e mormorava, mormorava che quando sarebbe morto l'avrebbero coperto di terra, di strati d'argilla del cimitero, e le foglie di betulla sarebbero cadute come una pioggia di monetine d'oro sul tumulo, sotto le piogge autunnali sarebbe marcita la croce di legno o la piramide di compensato per i non credenti – qualunque cosa avessero voluto mettere sopra di lui – e tutti lo avrebbero dimenticato, e non sarebbe venuto nessuno a fargli visita, solo un passante ozioso avrebbe sofferto per un attimo, leggendo i numeri di quattro cifre – lui era passato dai versi in rima a un pesante verso libero, verde come legna d'abete, o a una prosa ritmica, malinconica; e dai versi di cattiva qualità al posto della pura fiamma usciva un fumo così bianco e soffocante che Nina prendeva a tossire istericamente, agitava le mani e gridava, soffocando: "Smettila di scrivere una volta per tutte!!!"
Poi alcune brave persone le raccontarono che Grisha aveva intenzione di tornare nella dépendance, era andato dalla nuova portinaia che aveva preso il suo posto – una donna grassa – aveva trattato con lei la cifra in cambio della quale lei gli avrebbe ceduto la vita di un tempo, e il donnone era entrato in trattative. Nina aveva delle conoscenze all'ufficio di Sanità: diede a intendere che in centro c'era uno splendido edificio di tre piani, poteva essere occupato dall'ente, del resto stavano giusto cercando. La ringraziarono, quelli dell'ufficio di Sanità, a loro andava bene, e di lì a poco la portineria scomparve, il camino venne demolito, e uno degli istituti di medicina trasferì le sue cattedre nella dépendance.
Grisha smise di parlare e per circa due settimane fu silenzioso e ubbidiente. Poi però diventò addirittura allegro, cantava nel bagno, rideva, ma non toccava cibo e si accostava sempre allo specchio, si palpava. "Come mai sei così allegro?" lo interrogava Nina. Lui aprì il passaporto e glielo mostrò, indicandole il punto dove il campo azzurro era sigillato da un grosso timbro color lilla ‘Non soggetto a sepoltura’; "Che roba è?" si spaventò Nina. E Grisha rise di nuovo e disse che aveva venduto il suo scheletro all'Accademia delle Scienze per sessanta rubli, sarebbe sopravvissuto al suo cadavere e scampato alla decomposizione; non giacerà, come temeva, nella terra umida, ma starà in mezzo alla gente in una sala pulita, calda, inventariato a dovere, e gli studenti, gente allegra, gli daranno pacche sulla spalla e colpetti sulla fronte, e gli offriranno pure una sigaretta; ecco come aveva ben sistemato le cose. E in risposta alle urla di Nina non aggiunse altro, ma le propose di andare a dormire; tenesse solo presente che d'ora in poi lei abbracciava una proprietà dello Stato e ne aveva la responsabilità materiale di fronte alla legge, per una somma di sessanta rubli e venticinque copechi.
E da quel momento, diceva in seguito Nina, il loro amore andò a catafascio, perché lei non poteva certo ardere di totale passione per un patrimonio sociale e baciare un reperto accademico. Di lui non le apparteneva più nulla.
E cosa credete che provasse lei, meravigliosa donna normale, di professione medico, che aveva indubbiamente meritato, come tutti, il suo piccolo posto nella vita, una donna che aveva lottato, come hanno insegnato a noi tutti, per la felicità personale guadagnandosi, sarebbe il caso di dire, nella lotta il suo diritto?
Tuttavia, nonostante il dolore che lui le aveva procurato, il suo sentimento, diceva, rimaneva intatto. E se l'amore non era stato come l'aveva sognato, non era certo Nina ad averne colpa. Ma la vita. E dopo la morte di lui soffrì molto, e le sue amiche provarono compassione per lei, e al lavoro, per venirle incontro, le diedero dieci giorni di ferie senza paga. E quando tutte le formalità furono espletate, Nina andava a fare visite e raccontava che Grisha adesso si trovava nella piccola dépendance come materiale didattico, gli avevano attaccato un numero di inventario, e lei era già andata a trovarlo. Di notte stava nello scaffale, ma per il resto del tempo era sempre in mezzo alla gente.
E Nina aggiungeva che all'inizio si era rattristata molto per quello che era successo, ma poi le era passata, si era tranquillizzata dopo che una donna, anche lei una persona molto piacevole e che, come Nina, aveva perso il marito, le aveva confidato che lei, ad esempio, in fondo era persino contenta. Il fatto è che questa donna aveva un appartamento di due stanze e aveva sempre voluto arredarne una in stile russo, con al centro solo un tavolo e nient'altro, e intorno tutte panche, panche molto semplici, non levigate. E appendere sui muri ogni tipo di scarpe tradizionali, icone, falci, filatoi, roba così, insomma. E adesso che una camera le si è liberata, questa donna ha realizzato il suo desiderio: è la sua sala da pranzo e piace molto agli ospiti.


(Racconto tratto dall’antologia I fiori del male russi, a cura di Viktor Erofeev, Voland editrice, Roma, 2001)


Tat'jana Tolstaja



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