CIBO
( – due brani del romanzo Cibo – )


Helena Janeczek


(...) Daniela è più vecchia di tutti loro, più normale. Spiccava soltanto per un caschetto di capelli rossi quando si è presentata, truccata pallida, vestita di nero, spiccava per quel suo rosso semaforo che è pur sempre un rosso come il mogano, il rame, l’henné chiaro o scuro e persino quello vero, piuttosto raro. Invece le teste dei suoi colleghi sono addirittura bicolori, o non c’è niente tranne un ciuffo o una treccia, o tantissime treccine aggrovigliate come quelle dei negri, e tanti o grandi tatuaggi a vista, e al naso anelli, bottoncini in faccia, finti diamanti sulla fronte come finte divinità indiane. Portano calzature che sembrano piccoli trampoli, il che potrebbe risultare comodo per lavorare alle teste dei clienti, che se non vanno spesso a tagliarsi i capelli trovano i loro parrucchieri cambiati di colore, o calvi, o con un altro disegno sul collo, sul braccio, sul dorso della mano, e da qualche parte nuovi buchi, bottoni, brillantini, perché quello non è un parrucchiere come gli altri, bensì, come dice Daniela, un parrucchiere di tendenza. Quei pantaloni di lucida plastica nera, quelle camicie fantasia con i colli a punta, non sono i vestiti che ti compri perché vuoi vestirti in quel modo, bensì, spiega Daniela, la divisa: due camicie e un paio di pantaloni, da lavare e stirare nel giorno libero, lunedì.
Non so se anche gli anelli al lobo o al naso, se anche i serpenti, le greche e i draghi sulla pelle facciano in qualche modo giovane, ancora più o meno al grado di shampista, che si sta sempre più riempiendo di chincaglierie e chiazze colorate; non so cosa farà di tutta quella roba se un giorno volesse cambiare il posto di lavoro, da un parrucchiere di tendenza a un parrucchiere per signore, non so se debba rimanere lì per sempre, legata ai suoi anelli. Non oso chiederglielo, mi farebbe impressione vedere i pezzi metallici che cominciano a muoversi insieme alla sua faccia quando mi risponde. Così di recente mi sono rivolta all’altra ragazza di nome Daniela, Daniela parrucchiera, ho chiesto se le avesse fatto male bucare carne e cartilagine fra le narici e allora lei si è sfilata il suo anello, rideva tutta felice dicendomi, vero che sembra vero! Ah certo, ho detto, sembra vero. Ma non essendolo, ha potuto riattaccarlo al naso senza neanche guardarsi nello specchio, e anzi ha continuato a spiegarmi che il piercing in faccia per lei assolutamente non esiste, non mi va di diventare vecchia piena di buchi. Devo aver annuito sollevata.
Se li vedi una, due volte alla settimana, come capita a me da quando vado da Daniela, ti rendi conto che sono tutti educati, cioè salutano quando ti incontrano al bar e non ti frastornano di chiacchiere quando sei nelle loro mani: una decina di giovani parrucchieri dediti seriamente a tagliare, rapare, decolorare e colorare teste, dalle nove di mattina alle sette di sera in quel finto loft tutto colori e divani maculati, nascosto nel cortile di una vecchia casa in questa zona detta signorile.
Ci vengono molti ragazzini, sembrano tutti arrivare con i soldi delle mamme che raccomandano, vatti a tagliare i capelli, e loro, per una volta, ci vanno felici, e poi restano immobili sotto i rasoi mentre quelli falciano via buona parte di quanto cresceva sopra ai loro crani per lasciare soltanto un centimetro di stoppie in cima e in fronte. Fra tutti i parrucchieri nei dintorni, io l’ho scelto per questo, per vedere gli adolescenti passare dal lungo al semicalvo, per vedere il biondo platino, il viola, il verde, l’arancione e tutti gli altri colori impossibili, interi o a ciocche. È andare al carnevale più che dal parrucchiere. Solo da poco noto la magrezza di Daniela parrucchiera, lunga lunga, nera nera, mezza indiana e mezza cornacchia su zeppe alte una spanna, e commento con Daniela estetista che la sua collega sarebbe una bella ragazza senza tutto quel nero che la indurisce e con qualche chilo in più, ma lo sai che non mangia, dice Daniela che è d’accordo, sempre solo insalata, se non si facesse la lampada sembrerebbe la morte.
Poi vedo pure che alcuni parrucchieri spariscono nonostante i loro trivellamenti di tendenza com’è scomparso da poco il parrucchiere degli occhi miti e dalla pelle priva di piercing ma solcata d’acne, quel ragazzo gentile che continuava a darmi del “lei” e a chiamarmi signora, come quando mi aveva presentato a Daniela. Non ne possono più di lavorare in quel posto, appena si mettono a scambiare due parole, anche se non c’è gente, arriva uno dei proprietari e li divide: ramazza di qui, pulisci di là. Li pagano anche poco. Dicono che è perché sono giovani, la clientela è giovane, le esigenze sono diverse, più basse, i costi da tenere bassi. Sono troppo giovani per protestare, sostiene Daniela. Anche dal parrucchiere dove andavo prima, parrucchiere per signore, il padrone era così. Ho concluso che il mio parrucchiere di tendenza dev’essere in fondo un parrucchiere normale. (...)


(...) Vorrei ricordare le cose che facevo in quel periodo dell’adolescenza, i giochi, gli incontri, le piccole avventure o quelle che allora potevano sembrarmi tali, al limite anche i libri che avevo letto, le materie apprese con interesse, o cose simili. Invece al posto dei ricordi c’è una memoria diversa, generica, quasi astratta. So che leggevo molto, praticamente non facevo altro. Finivo i compiti e poi leggevo tutto il pomeriggio, dopo cena spesso riprendevo, in vacanza mi portavo dietro dozzine di libri, il fondo della valigia ricoperto dalle mie letture, ma stento a ricordarmi qualche titolo. So che erano quasi tutti libri per ragazzi, devono esserci stati in mezzo i libri di Salgari, un po’ in italiano un po’ in tedesco, un romanzo contemporaneo che parlava di una certa Julie cresciuta in mezzo ai lupi, un altro che raccontava la vita e le avventure degli uomini blu nelle montagne dello Hoggar, forse era una grande storia d’amore, ma io ricordo solo i nomi di quei luoghi, e poi ricordo il libro dal quale seppi che avevano buttato il napalm sugli indios dell’Amazzonia perché volevano costruire una grande strada o una linea ferroviaria in mezzo alla foresta, credo si chiamasse Ombre sull’Amazonas; mi ricordo che da quei tempi mi sono familiari parole come sampan, manioca e kajal, ma è già quasi tutto. Poi mi ricordo la strada che portava alla biblioteca comunale dove tutte le settimane andavo a fare la mia scorta, la grande vetrata dietro al banco e agli scaffali in legno chiaro, e mi ricordo di una libreria in centro, del reparto per ragazzi al primo piano, e finalmente anche di una persona, la mia libraia tonda e bassa, dai capelli striati di bianco che scendevano sempre un po’ unti sulla faccia piena di efelidi e di rughette intorno agli occhi; aveva quelle rughe perché rideva sempre, rideva con i ragazzi suoi clienti, ma chissà come si chiamava.
So che a scuola non studiavo molto, perché comunque riuscivo bene nelle materie che mi piacevano, e che durante le lezioni stavo attenta, non mi annoiavo. Ma sono cose che so e basta, non ho un’immagine che affiori, un episodio da raccontare, e so che è stato un tempo infelice, che spesso uscivo di scuola e piangevo, continuavo a piangere sulla strada di ritorno e pure a casa, perché so che i miei andavano a parlare con i professori, i quali a loro volta non sapevano che cosa consigliare, anche se ho in mente che una volta un professore avrebbe detto, sono cose che si risolvono col tempo, i ragazzi, sapete, sono fatti così.
Eppure per ricordarmi di quell’infelicità, per avere un’idea della sua proporzione e della sua durata, devo concentrarmi. Devo fare calcoli, misurazioni, cercare punti di riferimento invisibili, come se fossi in alto mare dove il contorno di una terra diventa pura nozione. Non ho idea di quanto un uomo di mare riesca a trattenere del tempo di una lunga traversata, ma io di quel dolore costante e invariabile ho perso il senso, non lo ricordo. Ricordo solo la vergogna: a ginnastica, davanti allo specchio nella camera da letto dei miei genitori, nella vetrina di Yves Saint-Laurent, nella mia classe.
Ero sola a quei tempi, non avevo amici o amiche, compagne con cui trovarmi dopo la scuola. Per questo non ho episodi da raccontare. Per questo leggevo, divoravo i libri tanto da non ricordarmene quasi nessuno. Se mia madre mi chiamava a tavola o a fare qualsiasi altra cosa, io non le rispondevo o, come nel sonno, gridavo, adesso arrivo, finisco solo questa pagina, questo capitolo, soltanto due minuti, nur das Kapitelchen. Qualche volta, quando era di buon umore, nur das Kapitelchen lo gridava lei. Sapeva che fra libri e cibo vincevano i libri. E forse è per questo, per questa lotta ravvicinata fra cibo e libri, che dall’oblio di titoli, storie e personaggi si sono salvate cinque piccole patate lesse che costituiscono il pasto giornaliero di un indio dell’Altiplano, la manioca delle tribù del Mato Grosso, le pannocchie di mais da cui nacquero i Maya, la carne, il grasso, il sangue e le interiora del bisonte americano, e uccelli cotti nella creta con le piume, e i datteri e il latte di cammello del deserto, e il tè arricchito di burro rancido fatto bollire su un fuoco alimentato da escrementi di vacca, perché in Tibet, ai piedi dell’Himalaia, il legno non si trova. Amavo i libri che si svolgevano in paesi, e magari in tempi lontani, anche se i personaggi e i popoli soffrivano la fame, pativano la fame e molte altre privazioni, pativano tragedie e soprusi, soffrivano rischiando di morire, anzi di estinguersi. Ma soffrivano insieme. C’era una trama di fatti chiaramente terribili e commoventi, c’erano destini, potevo sognarli nella mia testa, farli continuare con me nel ruolo della figlia del corsaro o della sua amata, e se proprio non riuscivo a farne a meno, raddrizzarne il finale. Ancora oggi, se trovo in giro la foto di un tuareg, di un dajako, di un qualsiasi indio o indiano dipinto per un rito o per la guerra, mi prende una commozione lieve, una sorta di complicità così immediata e fugace che non riesco a distinguerne l’origine. Vorrei ancora essere con loro, uno di loro.



Helena Janeczec è nata a Monaco di Baviera nel 1964 e vive in Italia dal 1983. Ha esordito come poetessa in lingua tedesca con la raccolta Ins Freie (Suhrkamp, 1989) e come narratrice in italiano con Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997); premio Bagutta opera prima).


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