L'emigrazione come ferita aperta

 

Andrea Lombardi

 

 


Primo Levi ha definito effetto Anna Frank quel particolare, individuale movente che rende partecipe il pubblico a un dramma collettivo:
"Non esiste proporzionalità tra la pietà che proviamo e l'estensione del dolore da cui la pietà è suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi che soffrirono con lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra." In fondo, il destino di Anna Frank - è questo il ragionamento di Levi - è stato condiviso da milioni di altri ragazzi e ragazze di origine ebraica. Ma il pubblico è attratto dal dramma annunciato di un'unica persona, col suo nome e cognome, le sue idiosincrasie e - come dimostrano le recenti scoperte - i suoi pregi ed i suoi difetti. Salvate il soldato Ryan, di Steven Spielberg, non fa che riprendere lo stesso punto di vista, a partire da una prospettiva completamente diversa. Spielberg affronta l'epopea dei sopravvissuti della seconda guerra mondiale: un tema non nuovo che mostra, però, i segnali del nuovo. La scena di Ryan in equilibrio instabile fra vita e morte (al momento dello sbarco affonda pesantemente nell'acqua agitata). Il particolare di un narratore suppostamente non affidabile perché pauroso, giustamente pauroso, pur sempre pauroso.
Prima ancora di affrontare temi di attualità in questa riunione (l'emigrazione, la cultura), è bene esorcizzare atteggiamenti retorici. La focalizzazione di un unico momento o di una figura emblematica, ma reale, elementi questi che sfuggono alla generalizazione e quindi alla spersonalizzazione - l'effetto Anna Frank - può diventare un antidoto alla retorica. Entrambi gli esempi hanno come base il tema del trauma: trauma di guerra, o meglio, nevrosi di guerra, secondo quanto scrive Freud : "Da molto tempo c'è la consuetudine di descrivere la situazione prodotta da traumatismi meccanici - incidenti ferroviari e altro: traumatismi legati a un pericolo di vita. A questa situazione è stato dato il nome di 'nevrosi traumatica'. L'ultima guerra, appena conclusa, ha provocato un certo numero di malattie di questo tipo ed ha messo fine alla tentazione di ricondurle a una lesione organica del sistema nervoso tramite immissione della forza meccanica."
L'accento potrebbe ricadere, in questa citazione di Freud, sull'aspetto non organico delle lesioni o dei disturbi che il trauma provoca. Il tema del trauma ha reso la psicanalisi accettabile anche a soggetti restii a convivere con i suoi presupposti. Per questo ragionamento, però, vale pensare alla psicanalisi come erede dell'insieme della tradizione letteraria occidentale, come afferma il critico nordamericano Harold Bloom . Un esempio tipico di soggetto traumatizzato nella storia letteraria potrebbe essere considerato il personaggio di Orlando di Ariosto - al di là della maschera rappresentata dalla cosmica ironia dell'autore. Quando scopre di essere stato scartato a favore di Medoro, leggendo dell'amore fra Medoro e Angelica sulle pareti della capanna, perde letteralmente la connessione fra parole, senso, senno. Quando Freud descrive i traumi di guerra o quando noi facciamo appello alla nostra stessa esperienza, non ci risulta che il trauma faccia perdere il senno, come avviene con Orlando. Certamente, però, può provocare dei sintomi: balbettio, tic nervosi, sindrome di panico, depressione e molti altri ancora.
Anna Frank non ha subito un trauma, o meglio: il suo testo non riguarda direttamente il trauma. È piuttosto il pubblico di lettori che lega il suo diario al trauma collettivo posteriore o a elementi della propria vita. Il suo dramma, comunque, è indicativo dell'Olocausto, o Shoah , letteralmente una catastrofe. Il diario copre infatti solamente il periodo della prigionia di Anna nell'appartamento e non la sua deportazione ad Auschwitz. Il diario non parla di persecuzioni e sevizie, ma del suo anelito a vivere, delle minuzie del quotidiano: il pathos, la commozione deriva dalla possibilità di potersi identificare con le sensazioni banali della routine, pur sapendo che questa descrizione, un leggero ricamo, in realtà conduce all'abisso: lo stesso abisso affrescato all'inizio dell'Inferno della Commedia: qualcosa che viene percepito dall'alto e da lontano . Poiché da vicino - forse - è troppo mostruoso, è come la Medusa nella mitologia greca: pietrifica e acceca, rende muti. Anna Frank è una delle porte letterarie dell'inferno. Permette a noi di realizzare ciò che Dante ha effettivamente descritto e che noi non siamo più in grado di percepire: vedere ciò che non può essere visto, decrivere ciò che è impossibile descrivere.
Salvate il soldato Ryan è evidentemente molto diverso, perché il vedere in un film è tutto, è anima e essenza di questo genere, nato nel secolo XX, il secolo dei vari traumi. Per cui noi vediamo Ryan tra la vita e la morte e vediamo la sua paura della morte, la paura di uccidere. Infine lo vediamo come reduce, finalmente riappacificato, che racconta qualcosa ai suoi nipotini. Un reduce pauroso che, suo malgrado, è diventato un eroe. Un narratore che è un pauroso (e un mentitore). Un eroe che è in effetti un antieroe. Ma il suo compito è raccontare il momento del trauma. Non un dramma futuro - come nel caso di Anna Frank - ma presente, visibile, palpabile e angosciante. L'angoscia viene qui rappresentata: come strettoia (a partire dalla sua etimologia), anticamera della morte. Ryan sta per morire e la sua - come tutte le morti in guerra - diverrebbe una morte inutile. Ma Ryan non muore. E ci racconta la sua storia. E noi ne siamo avvinti (indipendentemente dalla qualità del film), perché ciò che viene narrato è la morte, che è "la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare", come dice Walter Benjamin ed aggiunge, sarcasticamente: "Dalla morte il narratore attinge la sua autorità."
Anche l'emigrazione rappresenta un trauma. Un trauma individuale, raccontato in alcune delle saghe e storie personali. L'emigrazione, però, rappresenta anche un trauma collettivo, di un paese, di un popolo, di una nazione. In A mezza parete , si studia il problema della nostalgia (una parola coniata nel Rinascimento) in connessione con la malinconia o, più semplicemente, legata alla depressione. Secondo gli osservatori antichi, questa malattia era responsabile per l'improvviso ammutolimento di lanzichenecchi, avventurieri, mercenari e, finalmente, emigranti. Abbandonata improvvisamente la propria regione natale (la patria, la casa, i familiari) per motivi diversi questi reietti si sentivano struggere in terra straniera da un desiderio fortissimo di ritornare al proprio contesto familiare. Nell'impossibilità di ritornarvi, deperivano a vista d'occhio, dimagrivano, non mangiavano più e, in casi non eccezionali, morivano. A mezza parete si occupa della patologia dell'emigrazione, e mette il dito sulla piaga: l'emigrazione può anche uccidere. Ultimamente in Brasile e in Italia l'onore delle cronache è stato raggiunto da Terra nostra, una telenovela brasiliana. Al di là degli eventuali meriti o demeriti e della sua corposa e stereotipata love story, ci sono alcuni aspetti da segnalare: i morti gettati nell'oceano durante il penoso viaggio di andata in Brasile e - lo stesso titolo lo sottolinea - l'appropriazione di questa terra, che è nostra: accogliente e familiare, qualcosa che sostituisce la rottura definitiva del cordone ombelicale fra emigrante e la propria terra natale. Esiste certamente l'attaccamento degli emigranti e dei loro discendenti alla terra d'arrivo. Le loro motivazioni sono state oggetto di analisi del sociologo Weber. Questo enorme movimento è registrato nei suoi numeri, nelle sue statistiche, nei suoi lati più esteriori e, in piccola parte, descritto nei suoi drammi individuali. Si può dire, però, che qualcosa si è definitivamente perso. Si è persa la memoria del numero dei morti di questa spaventosa saga. Si sono persi i conti di quanti hanno smarrito definitivamente il senno - come Orlando - di quanti lo hanno perso anche solo parzialmente; di quanti problemi psicanalitici, quante menomazioni psicologiche, di quante sofferenze dell'anima hanno patito quelli che sono partiti e quelli che sono rimasti. Esiste un racconto di Luigi Pirandello, "L'altro figlio", che simbolizza meglio di molte analisi ciò che è realmente accaduto, a livello psicologico. Maragrazia, una vecchia contadina abbandonata da marito e due figli (emigrati a Rosario di Santa Fé, in Argentina) e vive di stenti nel suo paese di origine, in Sicilia. Da quattordici anni detta una lettera a Ninfarosa, anche lei abbandonata, ma che ha deciso di cavarsela senza molte remore morali. Queste lettere mai riceveranno risposta, finché si saprà che Ninfarosa scriveva solo degli sgorbi, sapendo che gli emigrati non avrebbero mandato notizie. Maragrazia, il cui nome è già un programma amaro, si rifiuta di considerare l'altro figlio, prodotto di una violenza all'epoca dell'arrivo dei garibaldini in Sicilia e preferisce vivere come mendicante. Doppiamente emarginata, dunque, come effetto dello stupro e dell'emigrazione dei familiari. Due traumi che si sovrappongono. Anche lei, come Orlando nella capanna di Medoro, si è persa attorno a una decifrazione di lettere e scarabocchi. E l'emigrazione senza ritorno viene simbolizzata dalle lettere senza risposta. Scrittura e ripetizione, poiché una delle caratteristiche del trauma è il sintomo della ripetizione. Maragrazia continuerà a scrivere ai figli, ripetendo un movimento senza effetto, quindi il trauma non sarà effettivamente superato. Anche il trauma dell'emigrazione, con le sue morti, le sue desertificazioni fisiche e psichiche, continuerà a produrre i suoi effetti (dislocamento, incapacità di rapporto con l'altro, intendendo l'altra cultura, la diversità).
Alcuni autori, per lo più legati al tema della letteratura della testimonianza, mostrano che il concetto di trauma e, sopratutto, l'attività psicanalitica per superare il trauma può essere esteso ad altri ambiti: per es., la pratica pedagogica, la lettura. Shoshana Felman afferma a tutta voce che esiste un rapporto fra educazione e crisi e quindi mostra quanto lo studio del trauma storico possa e debba essere intrapreso quasi 'alla maniera psicanalitica'. Felman descrive la sua esperienza e tratta l'insieme dei suoi studenti come un gruppo terapeutico. Di conseguenza, lo studio del trauma si identifica con la sua presentificazione, così come nella pratica psicanalitica è tramite la regressione che il trauma può essere fatto 'rivivere' e può essere verbalizzato, primo passo verso l'eliminazione dei suoi sintomi. È problematico che tale pratica possa avere successo, poiché il paziente non può essere sostituito da un gruppo collettivo. Inoltre, il transfert non deve essere appiattito sul rapporto che si instaura durante una lezione e non esiste una identità fra lo studio analitico del trauma e la sua esperienza diretta. Forse, però, è il concetto di analogia che può aiutare qui, analogia fra una pratica terapeutica come quella psicanalitica, fondata su un metodo analitico, interpretativo e una pratica come quella didattica, fondata sulla rielaborazione delle esperienze, riletture dei testi: entrambe, quindi, una interpretazione a posteriori, in un certo senso una cura tramite la parola.
L'emigrazione, un trauma della storia italiana
In questo senso, il trauma potrebbe definire - per analogia - un aspetto centrale del fenomeno migratorio italiano, rappresentato da problematiche laceranti e aspetti controversi che fanno del problema dell'identità (nazionale, culturale, linguistico) italiano un puzzle di difficile e interessante soluzione. Si può affermare, per esempio, che lo stato unitario sorto nell'intervallo 1860-70 non corrisponde alle aspettative della maggioranza dei suoi fautori ed, anzi, crea ostacoli, nodi e problemi all'ulteriore sviluppo che in parte pesano ancora sull'immaginario italiano. La scelta dell'unificazione rappresenta, in sostanza, un vero e proprio equivoco, poiché lo stato centralizzato si realizza contrariando le tendenze a soluzioni diverse prospettate da parti molto diverse, come Gioberti e Pisacane. Il primo decreto del nuovo stato è l'abolizione delle oltre trecento barriere doganali, senza alcuna compensazione e con l'effetto devastante sulle economie periferiche e modeste. È così che il brigantaggio meridionale (un evidente eufemismo di un fenomeno sopratutto sociale) mostra le difficoltà da parte del nuovo stato di arginare la pressione sociale. La soluzione, quindi (radicalizzata dalle crisi agrarie degli anni 70) è l'apertura delle frontiere: così come per l'importazione del grano, il principio liberista prevale per l'esportazione della mano d'opera. L'emigrazione diviene la prima grande radicale inappellabile sconfitta del giovane stato unitario. Poiché - per analogia - uno stato che promette redenzione tramite l'unificazione non può che pensare all'espulsione degli emigranti come un tradimento. Ciò che doveva diventare patria, un concetto familiare, tramite il processo d'espulsione violenta, diviene 'non familiare', perturbante e, quindi, unheimlich per usare il termine freudiano. Un'unione familiare promessa ma non realizzata, un tradimento. Anche se le statistiche hanno un valore relativo, secondo una stima approssimativa, circa il 20% dei cittadini sono stati espulsi in cento anni: un quinto dei cittadini sul totale (in cento anni), ma con punte del 50% ed anche del 100% in alcune regioni particolarmente toccate. Paradosso insuperabile, questo, per uno stato con pretese storiche e culturali notevoli. La frana, si trasforma in vera ecatombe, una catastrofe nazionale, un trauma, appunto, sopratutto se risaliamo alla radice etimologica della parola: una ferita, una ferita aperta. Ma il trauma - afferma Freud - non è un fatto organico, quindi non è eminentemente statistico. La ferita metaforica, però, resta tale e, se non rimarginata, può suppurare oppure creare sintomi malefici. In un futuro più o meno prossimo, minaccia di apparire nuovamente, sotto mentite spoglie. Esiste un processo del ritorno del rimosso (cioè grosso modo l' affiorare di ciò che veniva 'ricordato' incoscientemente, analogo al ricordo incosciente di Maragrazia).
Una domanda resta nell'aria nella novella "L'altro figlio" di Pirandello, in Salvate il soldato Ryan di Spielberg e nel Diario di Anna Frank e, di conseguenza, nella nostra storiografia. È realmente possibile evitare i sintomi del trauma? La risposta è parzialmente positiva. Elaborare è sinonimo di verbalizzare, cioè un lavoro di interpretazione del passato. Esattamente ciò che Maragrazia non riesce a fare, nella novella di Pirandello, poiché non è in grado di esprimere tramite parole il suo dolore, il suo sdegno. Per analogia, l'assenza di parole nella storiografia, la mancanza di verbalizzazione del trauma dell'emigrazione (al di là di vuote litanie statistiche) significa metterci tutti al posto di Maragrazia ed essere condannati all'eterna ripetizione e alla manipolazione di Ninfarosa, la sua contendente e la scrivana falsificatrice o di un qualsiasi manipolatore che accetta la rimozione del trauma e dei suoi sintomi (depressione, cinismo, aggressione, razzismo).
Reinterpretare non significa cambiare la concezione della storia italiana (impresa di difficile realizzazione), ma ristudiarne i presupposti, verificarne le responsabilità, comprenderne le dimensioni. Rendere un necessario omaggio ai morti, agli sconfitti, agli sradicati. Realizzare un lavoro di lutto. Perché senza lutto non è possibile eliminare i sintomi del passato traumatico. In questo senso, è necessario chiederci cos'è la cultura italiana, un concetto la cui lontana origine è contadina: cultura dal coltivare e Italia da vitello, un totem di un antico popolo mediterraneo . Nell'epoca contemporanea, il concetto di cultura è legata a quello di popolo, nazione, stato, legame stabilito indissolubilmente dal romanticismo tedesco. È il romanticismo che ha stabilito tramite Friedrich Schleiermacher e Wilhelm v. Humboldt la necessità di un rapporto reciproco fra lingua e cultura (fra lingua e nazione, fra lingua e stato). Per il romanticismo, la lingua determina la cultura, la nazione e, quindi, il popolo. Il rapporto era considerato talmente stretto che secondo gli stessi fratelli Grimm, autori delle famose fiabe, il compito della cultura era 'correggere'il carattere del popolo tedesco, quando divergeva dalla lingua 'pura'. Il carattere di una nazione - concetto quindi prevalentemente romantico - è sopravvissuto ai suoi stereotipi e ci condiziona ancora. Si pensi alle fiabe di Calvino, pubblicate negli anni cinquanta, che affermano un 'carattere ' pacifico degli italiani, in contrapposizione a quello germanico, pretesamente aggressivo. Popolo, nazione, stato focalizzano necessariamente il problema dell'identità che la lingua permea, ma non definisce completamente. Esiste una storia d'Italia, dello stato italiano, degli italiani, della lingua italiana, dei linguaggi d'Italia, come hanno affermato diversi autori. Il passato romano, medievale e rinascimentale è prerogativa della storia italiana o, prevalentemente, di quella europea? Un problema apparentemente minore se non fosse il complesso enorme di inferiorità che ne viene alla cultura italiana dopo l'unificazione.
Frustrazione che insieme al problema del brigantaggio, dell'emigrazione, dell'infelice espansione coloniale e delle frustrazioni della Grande Guerra possono aver costituito la miccia esplosiva del fascismo, appunto come ritorno del rimosso, come aveva affermato in un certo senso lo stesso Gadda in Eros e Priapo. Possiamo oggi avere, dunque, una comunità che si situa dentro la cultura italiana, pur non dominandone la lingua. Possiamo avere diverse rappresentazini della storia italiana, dove l'emigrazione traccia sì una demarcazione (se non una frontiera) fra vincitori e vinti.
In questo quadro, la questione dell'emigrazione dovrà essere considerata un vero e proprio trauma, in senso freudiano? Forse sarà più opportuno considerare il trauma come un'analogia produttiva, per motivare lo studio degli effetti devastanti dal punto di vista psicologico, superando l'agiografia e i facili entusiasmi riguardanti l'integrazione, ormai avvenuta da tempo. Il trauma è frattura, rottura. Riconoscerne l'esistenza, anche solo in forma metaforica, può liberare delle forze creative che, sì, possono contribuire a elaborare un nuovo concetto d'identità.



Note

1 - LEVI, Primo. I sommersi e i salvati. Torino: Einaudi, 1991, p. 42
2 - FREUD, Sigmund. Jenseits des Lustprinzips [Al di là del principio del piacere] in: Studienausgabe. Fischer: Frankfurt A M. , 1982, p. 222
3 - BLOOM, Harold. The Western Canon. New York.: Harcourt, 1993 (specialmente il capitolo su Freud come lettore di Shakespeare).
4 - AGAMBEN, Giorgio. Quel che resta d'Auschwitz. Torino: Einaudi , 1998. I due termini (Olocausto e Shoah) non sono affatto equivalenti, anche se proprio Agamben mostra che hanno la stessa origine tematico-religiosa.
5 - E io, che del color mi fui accorto,/ dissi "Come verrò se tu paventi/ che suoli al mio dubbiare essere conforto?" (Inferno, IV, 16). I riferimenti alla Commedia sono costanti in tutta la letteratura della testimonianza (il cui tema è la terribile esperienza dei campi di concentramento). In particolare, in Se questo è un uomo di Primo Levi il contrappunto è permanente.
6 - BENJAMIN, Walter. "Considerazioni sull'opera di Nicola Leskow". In Angelus Novus (trad. R. Solmi). Saggi e frammenti. Torino: Einaudi, 1982, p. 259
7 - FRIGESSI CASTELNUOVO, Delia e Michele RISSO. A mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale. Torino: Einaudi, 1982
8 - FELMAN, Shoshana. "Testimony: Crisis of Witnessing" in Literature, Psychoanalysus and History. New York: Routledge, 1992
9 - DEVOTO, Giacomo. Avviamento all'etimologia. Milano: Mondadori, 1978


Andrea Lombardi è docente di letteratura italiana presso la USP (Università di San Paolo), nel Brasile



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