Il segreto della morte

( - brano del romanzo Giardino, cenere - )



Danilo Kiš





(...) "È morto tuo zio" disse mia madre. Il tintinnio più forte del solito del cucchiaino d'argento contro il cristallo sonoro tradiva il tremito delle sue mani e io aprii gli occhi per verificare questo mio sospetto. Era pallida nell'abbagliante splendore del giorno, come incipriata, solo gli occhi erano cerchiati di rosso. Avvertendo la mia agitazione, sussurrò, senza guardarmi: "Tu non lo conoscevi", e parve lei stessa meravigliata e toccata dal fatto che tale morte inattesa avesse reso impossibile un incontro pieno di promesse. Seguendo il corso dei suoi pensieri, o forse dei miei, aggiunse: "E non lo vedrai mai più". La parola morte, questo seme divino che mia madre gettò quel giorno sul terreno della mia curiosità, cominciò di colpo ad assorbire tutti gli umori della mia coscienza, senza che io fossi consapevole, a tutta prima, della sua crescita rigogliosa. Le conseguenze di questa gestazione prematura si fecero sentire fin troppo presto: capogiri e conati di vomito. Benché del tutto incomprensibili, le parole di mia madre mi lasciarono intuire che dietro di esse si celava un'idea pericolosa e folle. A capo chino, con il suo assenso, andai a prendere una boccata d'aria fresca, ma era solo un tentativo di fuga. Uscii fuori e mi appoggiai al muro della casa. Fissavo il cielo attraverso i rami spogli di un ippocastano. Era una giornata qualunque, del tutto banale. E all'improvviso provai una strana paura, una pena fino ad allora sconosciuta e un'agitazione negli intestini, come se avessi bevuto dell'olio di ricino. Fissavo il cielo attraverso le ciglia semichiuse, quasi fossi il primo uomo sulla terra, e pensavo che, ecco, mio zio era morto, ora lo avrebbero seppellito e io non l'avrei mai conosciuto. Era come impietrito e pensavo che anche io un giorno sarei dovuto morire. Insieme con questo pensiero, che sulle prime non mi sgomentò nemmeno troppo, giacché mi parve inverosimile, compresi con orrore che anche mia madre un giorno sarebbe morta. Tutto questo mi si rovesciò addosso di colpo, in un bagliore di luce violacea, per un attimo soltanto, e io compresi, all'improvviso agitarsi dei miei intestini e del mio cuore, che tutto quello che sulle prime mi era parso solo un brutto presagio era la pura verità. Questa esperienza mi diceva con tutta chiarezza che un giorno sarei morto e che sarebbero morti mia madre, mio padre, mia sorella Anna. Non riuscivo a immaginare come sarebbe morta un giorno la mia mano, come sarebbero morti i miei occhi. Guardando attentamente la mia mano, raccolsi sulla palma il mio pensiero, legato al mio corpo e da esso inseparabile. Meravigliato e sbigottito, capii allora che io ero un ragazzo di nome Andreas Sam, che la madre chiamava affettuosamente Andi, che ero il solo con quel nome, con quel naso, con quel gusto di miele e di olio di fegato di merluzzo in bocca, l'unico al mondo a cui il giorno avanti fosse morto un zio di tubercolosi, l'unico ragazzo ad avere una sorella di nome Anna e un padre di nome Eduard Sam, l'unico al mondo a pensare in quel momento appunto di essere l'unico ragazzo Andreas Sam che la madre chiamava affettuosamente Andi. Il corso dei miei pensieri mi fece venire in mente l'astuccio di dentifricio che mia sorella aveva comprato qualche giorno prima e sul quale si vedeva una signorina sorridente che teneva in mano un astuccio di dentifricio sul quale si trovava una signorina sorridente che teneva in mano un astuccio di dentifricio... Un gioco di specchi che mi tormentava e mi sfiniva perché non permetteva ai miei pensieri di fermarsi a loro piacimento, ma li sbriciolava fino a ridurli in una polvere minuta che restava sospesa nell'aria e sulla quale era raffigurata una signorina sorridente che teneva in mano un astuccio di dentifricio sul quale... una signorina, ah! una signorina...
Sulle prime, mi fu più facile sopportare l'idea della mia morte, alla quale, semplicemente, non volevo credere, che non l'idea della morte di mia madre. Al tempo stesso mi resi anche conto che in realtà io non avrei assistito alla mia morte, così come non assistevo al mio sonno, e questo pensiero mi tranquillizzò alquanto. Per di più, cominciai a credere alla mia immortalità. Pensavo che, dal momento che conoscevo il segreto della morte, cioè il fatto stesso della sua esistenza (era questo che chiamavo dentro di me "il segreto della morte"), avevo con ciò stesso scoperto il segreto dell'immortalità. Con tale fede, con tale illusione della mia onnipotenza, riuscii a tranquillizzarmi e non sentivo più tanto la paura di dover morire quanto piuttosto una struggente tristezza per la morte di mia madre. Giacché, nonostante tutto, non ero tanto folle da credere che sarei riuscito a salvare dalla morte anche lei e tutti i miei cari. Questo diritto pazzesco lo riservavo a me solo, non per egoismo, ma perché mi rendevo conto che non sarei mai stato capace di tanta astuzia e che ero sì e no in grado di badare a me stesso. (...)


(Tratto dal romanzo Giardino, cenere, Adelphi, Milano, 1986. Traduzione di Lionello Costantini)


Danilo Kiš





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