Speciale: IMMAGINI E VERSI




Si tratta di una poesia del marzo 1958, pubblicata nella prima raccolta (e l'unica non postuma) della Plath, Il Colosso (1960). Fa parte di una serie di testi ispirati ai quadri di Klee, Henri Rousseau e de Chirico. Con le atmosfere straniate e perturbanti di quest'ultimo la Plath sente una particolare affinità almeno fin dagli anni universitari. Parlando di questa poesia nel corso di una lettura radiofonica fatta per la BBC, la Plath dice, "Per tutta la poesia ho in mente le figure enigmatiche di questo quadro: tre terribili manichini da sarta senza faccia, vestiti in abbigliamento classico, seduti o in piedi e immersi in una luminosità strana che proietta le lunghe ombre nette tipiche delle primo de Chirico. Fanno pensare a una versione novecentesca di altri sinistri terzetti femminili: le tre Parche, le streghe del Macbeth, le sorelle della follia di de Quincey". La poesia costituisce un atto di accusa contro la madre, che viene incolpata per avere ignorato i terrori che dominano l'inconscio della scrittrice. Come le cattive fate al battesimo, questi terrori sono i compagni di vita più intimi, di cui la madre, lontana dalla realtà della figlia turbata, non vuole ammettere l'esistenza. Nel corso del testo vengono tessuti insieme ricordi dell'infanzia, echi di antiche ballate ("E questo è il regno a cui mi hai portato, mamma, mamma") e la classica fiaba a lieto fine, qui ironicamente capovolto.
La figura vista nel quadro di de Chirico della testa ovale liscia e luminosa diverrà ricorrente nella poesia della Plath, fondendosi talvolta con quella dell'infermieria calva, talvolta con quella "di volta in volta muta, selvaggia, calva, materna, petrosa della musa-luna" (A. Ravano, Silvia Plath, Opere, I Meridiani).

Brenda Porster



Le muse inquietanti

Sylvia Plath

Mamma, mamma, quale zia maleducata
o cugina sfigurata e repellente
dimenticasti cosi sconsideratamente
d'invitare al mio battesimo, che quella
al posto suo mandò queste signore
dalla testa come un uovo da rammendo,
per dondolarla e dondolarla ai piedi,
al capo e a sinistra della culla?

Mamma, tu che su ordinazione inventavi le avventure
di Mixie Blackshort, l'orsetto coraggioso,
mamma, tu le cui streghe sempre sempre
finivano cotte in forno insieme al panpepato,
chissà se le hai viste, se hai detto parole
per liberarmi da quelle tre signore
che annuivano di notte intomo al letto,
senza bocca, senz'occhi, la testa calva tutta toppe?

Quando ci fu l'uragano e nello studio
di papà s'incurvarono le dodici finestre
come bolle prossime a scoppiare, tu preparasti
a mio fratello e a me biscotti e Ovomaltina
e ci insegnasti a cantare tutti in coro:
"Thor è arrabbiato: bum bum bum!
Thor è arrabbiato: che ce ne importa?"
Ma quelle signore ruppero le vetrate.

Quando a scuola le bambine eseguirono la danza
sulle punte e facendo lampeggiare le pile
cantarono la canzone delta lucciola, io non riuscivo
a muovere un piede nella mia veste coi lustrini
ma me ne stavo in disparte, goffa,
nell'ombra gettata dalle mie madrine
dalla lugubre testa, e tu piangevi, piangevi,
e l'ombra si allungò, si spensero le luci.

Mamma, mi mandavi a lezione di piano
e lodavi i miei trilli e arabeschi,
benché tutte le maestre giudicassero il mio tocco
stranamente legnoso nonostante le scale
e le ore di esercizio, e il mio orecchio
stonato e, sì refrattario alle lezioni.
Ho imparato, ho imparato, ho imparato altrove,
da muse non assunte da te, mamma cara.

Un giomo mi sono svegliata e ti ho vista, mamma,
che galleggiavi nell'azzurro più azzurro
su una mongolfiera verde coperta di un milione
di fiori e uccellini azzurri che mai mai
si videro, in nessun luogo mai.
Ma il piccolo pianeta volò via saltellando
come una bolla di sapone mentre tu gridavi: "Vieni, vieni!".
E io restai sola davanti alle mie compagne di viaggio.

Giomo e notte ora, al mio capo, al fianco, ai piedi,
stanno a veglia con vesti di pietra,
le facce vuote come il giomo in cui nacqui,
le ombre lunghe nel sole calante
che mai splende più vivo e mai tramonta.
E questo è il regno a cui mi hai portato,
mamma, mamma. Ma nessuna espressione del mio viso
tradirà la compagnia che frequento.

(trad. Anna Ravano)




The disquieting muses

Sylvia Plath


Mother, mother, what ill-bred aunt
Or what disfigured and unsightly
Cousin did you so unwisely keep
Unasked to my christening, that she
Sent these ladies in her stead
With heads like darning-eggs to nod
And nod and nod at foot and head
And at the left side of my crib?

Mother, who made to order stories
Of Mixie Blackshort the heroic bear,
Mother, whose witches always, always
Got baked into gingerbread, I wonder
Whether you saw them, whether you said
Words to rid me of those three ladies
Nodding by night around my bed,
Mouthless, eyeless, with stitched bald head.

In the hurricane, when father's twelve
Study windows bellied in
Like bubbles about to break, you fed
My brother and me cookies and Ovaltine
And helped the two of us to choir:
'Thor is angry; boom boom boom!
Thor is angry: we don't care!'
But those ladies broke the panes.

When on tiptoe the schoolgirls danced,
Blinking flashlights like fireflies
And singing the glowworm song, I could
Not lift a foot in the twinkle-dress
But, heavy-footed, stood aside
In the shadow cast by my dismal-headed
Godmothers, and you cried and cried:
And the shadow stretched, the lights went out.

Mother, you sent me to piano lessons
And praised my arabesques and trills
Although each teacher found my touch
Oddly wooden in spite of scales
And the hours of practicing, my ear
Tone-deaf and yes, unteachable.
I learned, I learned, I learned elsewhere,
From muses unhired by you, dear mother.

I woke one day to see you, mother,
Floating above me in bluest air
On a green balloon bright with a million
Flowers and bluebirds that never were
Never, never, found anywhere.
But the little planet bobbed away
Like a soap-bubble as you called: Come here!
And I faced my traveling companions.

Day now, night now, at head, side, feet,
They stand their vigil in gowns of stone,
Faces blank as the day I was born.
Their shadows long in the setting sun
That never brightens or goes down.
And this is the kingdom you bore me to,
Mother, mother. But no frown of mine
Will betray the company I keep.


Sylvia Plath nata a Boston, trascorse l'infanzia nella cittadina costiera di Winthrop nel Massachusetts. Suo padre Otto, un entomologo di origine tedesca, morì quando Sylvia era ancora piccola, un tragico episodio che lasciò un segno profondo nella sua psiche. Studentessa brillante e creativa, nel 1950 ottenne una borsa di studio per il prestigioso Smith College e nel 1953 vinse un soggiorno a New York come guest editor della rivista femminile "Mademoiselle" che aveva pubblicato un suo racconto. Il suo unico romanzo The Bell Jar (La campana di vetro, 1963), è basato su quella esperienza profondamente deludente di vita nella metropoli. Il ritorno a casa coincise con il manifestarsi di gravi crisi nervose che culminarono in un tentativo di suicidio. Dopo alcuni ricoveri in ospedale e dolorose cure (tra cui l'elettroshock), Plath tornò allo Smith per laurearsi nel 1955 con una tesi sul "doppio" in Dostoevskij. Nello stesso anno vinse una borsa Fulbright per l'università di Cambridge in Inghilterra: fu questo il setting dell'incontro col poeta inglese Ted Hughes, che sposò nel 1956 e con il quale tornò negli Stati Uniti. Dopo un breve periodo di insegnamento a Smith, lavorò in un ospedale psichiatrico, e nello stesso periodo seguì le lezioni di poesia di Lowell a Boston, dove conobbe Anne Sexton. Tra le due poetesse nacque una forte amicizia sorretta da grande empatia e da sconcertanti analogie biografiche. Nel 1959 Plath e Hughes tornarono in Inghilterra e si stabilirono in un villaggio del Devon. Nel 1960 nacque la loro prima figlia Frieda e nello stesso anno uscì The Colossus (Il Colosso), il suo primo volume di poesie. Poco dopo la nascita del secondo figlio Nicholas (1962), i due si separarono. Trasferitasi a Londra da sola coi figli, Sylvia continuò a scrivere, ma nel febbraio del 1963, all'età di 31 anni, incapace di trovare una sintesi tra le ambizioni artistiche e le quotidiane incombenze esistenziali, si tolse la vita. Le sue poesie furono in gran parte pubblicate postume da Ted Hughes che curò anche l'uscita dei suoi Diari. Lo stile di Sylvia Plath è etichettabile come "confessionale", ma non nel senso della semplice restituzione realistica di eventi e emozioni individuali, bensì come incessante produzione di una mitologia personale capace di dar voce al perturbante che sta alla radice dell'identità. Oltre a un rapporto con la realtà esterna segnato dall'oscillazione tra ansia di adeguamento e sentimento di insignificanza (fear of neutralità), questa scrittura muove dal confronto con la più intima ferita, legata alle figure primarie della madre e del padre, proponendosi come unica "cura" di essa. La poesia della Plath è dominata da un'attrazione morbosa verso la morte, da un senso di disastro incombente elaborato spesso con surreale lucidità e allucinata intensità visionaria. Dopo la morte la sua vicenda esistenziale e artistica diventò paradigmatica per molte donne scrittrici che la accolsero tra le "maestre" e contribuirono a darle la straordinaria popolarità di cui ancora oggi gode.



Giorgio De Chirico (1888-1978) nacque in Grecia da genitori italiani. Nel 1906 si trasferì a studiare a Monaco, dove venne a contatto con la cultura tedesca più viva del momento. Si interessò alla filosofia di Nietzsche, Schopenhauer e Weininger e fu molto colpito dalla pittura simbolista e decadente di Arnold Böcklin e Max Klinger. Nel 1910 si trasferì a Parigi dove divenne amico dei poeti Valery e Apollinaire, ma rimase estraneo al cubismo che, in quegli anni grazie a Picasso, rappresentava la grossa novità artistica parigina. Egli rimase comunque sempre estraneo alle avanguardie, nei confronti delle quali manifestò spesso atteggiamenti polemici. In quegli anni dipinse molti dei suoi quadri più celebri che vanno sotto il nome di "Piazze d'Italia". Si tratta di immagini di quinte architettoniche che definiscono spazi vuoti e silenziosi. Vi è la presenza di qualche statua e in lontananza si vedono treni che passano. L'atmosfera magica di queste immagini le fa sembrare visioni oniriche. Nel 1916, all'ospedale militare di Ferrara, De Chirico incontrò Carrà, ed insieme elaborarono la teoria della pittura metafisica. Il termine metafisica nasce come allusione ad una realtà diversa che va oltre ciò che vediamo allorché gli oggetti o gli spazi, che conosciamo dalla nostra esperienza, sembrano rivelare un nuovo aspetto che ci sorprende. E così le cose che conosciamo prendono l'aspetto di enigmi, di misteri, di segreti inspiegabili. In questo periodo, oltre agli spazi architettonici, entrano nei soggetti dechirichiani anche i manichini. Questa forma umana, pur non essendo umana, si presta egregiamente a quell'assenza di vita che caratterizza la pittura metafisica. Dal 1918 al 1922 partecipa attivamente alla vita di "Valori Plastici", mentre nel 1924 torna a Parigi dove frequenta il gruppo dei Surrealisti. Benché i surrealisti riconoscono in De Chirico un loro precursore, il pittore italiano non accettò mai di integrarsi nella loro poetica o nel loro stile. A lui era estranea soprattutto quella accentuazione della dimensione onirica, fatta di automatismi inconsci. In seguito la sua pittura si rivolse sempre più ad una classicità di tipo archeologico, dove il ricorso alle mitologie venne sempre interpretata in chiave metafisica, che rimase comunque il suo principale amore. E alla pittura metafisica fece costantemente ritorno anche negli anni successivi, fino a quando morì a Roma nel 1978, all'età di novanta anni.



        
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