Timballo connection

 

Marko Ferrari

 

 





UNO


- Ma che cazzo dici la colpa non e' di Moratti , è dei giocatori, sono tutti mercenari- . Questa e altre pillole di filosofia provenivano dal bancone del bar. Un ciccione sulla trentina birra in mano, teneva le redini della conversazione ed era il più incazzato di tutti. Sudato, sbraitava stronzate dall'alto del suo sgabello e sembrava crederci davvero. Alcuni lo ascoltavano, altri facevano finta di farlo. Di fronte al banco un gruppo di ex giovani consumava il rito del tressette scomodando qualche santo. Bevevano vino, fumavano di brutto e smadonnavano con un certo stile. Anni e anni di esperienza affinano la tecnica. Dalla parte opposta del bancone provenivano i suoni dell'affollatissimo videopoker, il vorace mostro mangiastipendi. Il vecchio flipper di fianco era ormai ridotto a mensola. Era li semplicemente perché disfarsene era più faticoso che spolverarlo.
Radio Shock ricordava a tutti che erano le 18.00 e tutti ovviamente se ne fottevano. Il bar e' un buco nero che divora il tempo.
L'apparente tranquillità era rotta solo da qualche avventore occasionale che entrava a comprare le sigarette per poi fuggire con gli sguardi di tutti ancora addosso.
Non c'erano donne nel locale, ma se ne fosse entrata una tutti se ne sarebbero accorti immediatamente, non si sa come: c'avevano il radar. Alcuni avevano il sesto senso, si giravano ancora prima che si aprisse la porta. La "femmina" talvolta genera fenomeni paranormali incontrollabili, soprattutto nei bar. Roba da brividi! Ci sarebbe stato un improvviso silenzio, più o meno cinque secondi per organizzarsi le idee, poi qualche commento e infine grasse e sguaiate risate.
A pensarci bene una donna c'era, anche se di femminile forse aveva solo il nome: Gisella, la moglie del padrone del bar o meglio, la padrona del padrone del bar. In sua presenza la chiamavano tutti Lella, ma era meglio conosciuta come : "la cinghiala". Delicata come un tir, gentile come un attacco di diarrea, elastica come un vigile urbano, aveva il pieno controllo della situazione. La cinghiala era l'unico vero uomo lì dentro. Il marito non aveva nessuna voce in capitolo, era un animale da compagnia nelle mani della moglie e per sopravvivere, aveva bisogno di cure. Due o tre bottiglie al giorno di Montepulciano d'Abruzzo erano la sua terapia.
Nel piccolo bar di un piccolissimo paese la salvaguardia della clientela è un aspetto marginale della gestione. La matrona lo sapeva e non si preoccupava di essere gentile più del necessario. Spesso, quando aveva la luna storta, per un nonnulla faceva tragedie. Imprecava e offendeva il malcapitato di turno che, per non perdere il privilegio di poter ammazzare le ore libere della sua giornata, di sfuggire alla moglie e di poterlo fare davanti a un bicchiere di vino, faceva buon viso a cattivo gioco.
Gli unici che provavano a ribellarsi a quel regime totalitario erano i più giovani del paese, una quindicina di sbarbati dai quattordici ai diciotto anni. Facce toste non ancora domate dalla vita. Quello era il solo mondo che avessero mai conosciuto ed erano intenzionati a dominare il loro spazio. Erano vivi e non facevano nulla per nasconderlo, benché non ci fosse un granché da fare per dimostrarlo. I fratelli più grandi erano già fuggiti o erano stati catturati dal loro destino. Alcuni tra i più fortunati studiavano fuori e tornavano solo per le feste; altri sgobbavano accontentandosi di sognare il bar nel fine settimana; qualcuno non sarebbe più tornato.
I pomeriggi, i mesi e le stagioni della loro prima giovinezza fuggivano via così, tra un caffè, una sigaretta a giro e qualche birretta. Ogni tanto qualcuno raccontava del sesso, "il sesso per sentito dire" era uno degli argomenti caldi. "Mio fratello quando è tornato da Bologna mi ha detto che una tipa pugliese a una festa universitaria gli ha fatto una sega in bagno".
Col passare dei giorni i racconti si arricchivano di nuovi e improbabili particolari trasformando una sega in una sveltina, poi in amplesso, infine in orgia. Era una sorta di masturbazione fantasiosa collettiva a degenerazione progressiva, un tema che ognuno nel chiuso della sua cameretta svolgeva a proprio piacimento. Una variante del "sesso per sentito dire" si configurava quando uno del gruppo riusciva ad approcciare con una ragazza del paese. Bastava solo che i due si parlassero per un po'e scattava il terzo grado, domande e sfottò che poi si trasformavano inevitabilmente in invidie, leggende e gelosie.
Insomma, tutto andava come doveva andare o meglio, andava inevitabilmente dove doveva andare. Era sempre stato così. Ci erano passati i fratelli, i padri, i nonni e i bisnonni. Quest'ultimi avevano avuto qualche guerra a movimentargli un po' le giornate. Loro avevano la televisione. Ogni epoca ha le sue tragedie.


DUE


Mario, sull'autobus che lo riportava a casa, guardava dal finestrino la campagna. I lunghi filari di vite dove spesso, a cavallo tra settembre e ottobre, andava ad aiutare lo zio per la vendemmia. Erano passati pochi mesi dall'ultima, ma gli sembravano anni. Era la prima volta che tornava a casa dall'università e un senso di malinconia misto a nostalgia lo avvolgeva. Ripensò al bambino che era stato e per la prima volta avvertì un certo distacco, una lieve distrazione temporale tra i due periodi. Ricordò la felicità che provava correndo libero nella vigna col fratello piccolo Giorgio che arrancando sulle sue orme, gli chiedeva piangente di attenderlo. Rivide la zia che preparava il pane e pomodoro ungendo le fette col dito. Vide il nonno saggio che gridava: - Non correte che vi fate male!- . L'abbaiare festoso dei cani, loro compagni di giochi, gli risuonò nelle orecchie. Risentì il profumo dolce del mosto, l'aroma deciso della terra che si sgretolava sotto i piedi ad ogni suo passo. Avvertì quasi il rumore del torchio che pigia l'uva e l'odore famigliare del sudore di suo padre al lavoro.
Da quando era ragazzino aveva sempre avuto fretta di andarsene, quel posto antico gli stava stretto, aveva voglia di viaggiare, di conoscere il mondo, di sentirsi libero. Quante volte aveva maledetto quella terra così distante dalla città per un minorenne appiedato, quante volte aveva imprecato pensando ai suoi compagni di scuola nei pub, il sabato sera e lui bloccato lì, così vicino eppure così distante. Quante volte aveva sbraitato con la povera madre che non poteva accompagnarlo e che per eccessiva apprensione non gli permetteva di usare il motorino di notte. Tutto questo era passato e anche se ne aveva sofferto, ormai era lontano e non faceva più così male. Poche volte era andato via di casa da solo prima dell'università: per i tre giorni della visita militare e alle gite scolastiche. Nelle notti passate fuori non aveva avuto nessuna nostalgia e lo stesso gli era accaduto in questi primi mesi a Bologna. Certo gli mancavano i genitori e il fratello, ma bastava alzare il telefono ed erano lì.
Si sentiva strano, quello da cui aveva sempre voluto fuggire era di nuovo davanti ai suoi occhi e per la prima volta in diciannove anni si rese conto di quanto amava la sua terra. Qualcosa che non aveva mai provato si stava facendo strada dentro di lui, le lacrime cominciarono a gonfiargli gli occhi, provò a trattenerle per pudore e quando si rese conto che nessuno poteva vederlo, pianse in silenzio.
L'autobus traballava gracchiando, poche curve e sarebbe arrivato. Già pregustava il timballo della nonna. Gli ultimi giorni non aveva mangiato granché, ma in compenso il primo mese si era divertito molto, forse troppo.
Aveva speso quasi tutto per fare bisboccia, ma non si biasimava, doveva recuperare il tempo perso a Villa Pezza. Questi pensieri furono interrotti dallo sbuffo dell'autobus, era arrivato al suo personalissimo capolinea.
I cani, due meticci che dovevano avere forse nel profondo del loro Dna qualche lontano grado di parentela con un pastore tedesco, furono i primi a salutarlo. Gli corsero incontro con le lingue penzoloni e gli saltarono addosso quasi buttandolo a terra. Nessuno al mondo manifesta il suo amore in maniera così palese, solo i cani e le mamme. Dopo essersi divincolato fece il suo trionfale ingresso in casa e, sentendosi ormai un moderno Ulisse che torna alla sua Itaca, prese fiato e disse solennemente:
- O mà…So' tornato…È pronto?- .
La madre gli andò incontro, lo cinse con le braccia, lo baciò in fronte e tornando frettolosamente verso la cucina gli rispose:
- Sto scaldando il timballo di nonna, cinque minuti ed è pronto. E vatti a lavare le mani che hai toccato i cani!-
Erano passati tre mesi e non era cambiata una virgola, sarebbero potuti passare anni ma varcata quella soglia per lui sarebbe sempre stato così, poggiò lo zaino all'ingresso, andò in bagno e con il sorriso sulle labbra, da bravo bambino, eseguì gli ordini.


TRE


Dopo pranzo, mentre disfava frettolosamente le valigie, ammucchiando la roba sporca in un angolo della stanza, Giorgio entrò portandogli il caffè.
- Allora fratè, che mi racconti.- Si aspettava questa domanda.
- Sono veramente zoccole le bolognesi, sai la barzelletta dei tortellini?-
Da uomo vissuto rispose:
- Tutto il mondo è paese Giorgiè; sai come diceva lo zio: "Di zoccole ne ho conosciute tante, ma mai come le femmine!"
Filosofeggiarono un po' sulle povere e ignare donne e "il sesso per sentito dire" fu l'argomento centrale per qualche minuto, dopodiché Giorgio fece un breve resoconto di tutte le novità avvenute in paese e immancabilmente finì col cominciare a lamentarsi:
- Ma qui non si fa nulla… Non vedo l'ora di andarmene…Appena finisco la scuola ti raggiungo…Non c'è niente…È una palla…-
Come se dalla noia si potesse fuggire lasciandosela per sempre alle spalle, nello spazio in cui ha scelto di abitare.
Mario sapeva che non bastava emigrare in cerca di gioia per trovarla, ma non obiettò nulla al fratello, vedeva se stesso un anno prima riflesso in quegli occhi e non voleva deluderlo. Se ne sarebbe accorto da solo se era destino, altrimenti meglio per lui.
Aveva capito che la noia, come molte altre sensazioni te le porti dentro, ma se sei bravo e con un po' di mestiere, puoi ficcarle in qualche angolo e far finta di non vederle, almeno per un po'.
- Noi andiamo a lavorare- gridò la madre dall'altra stanza - Verso le sette mettete l'acqua.- Appena sentì il rumore dell'auto del padre che si metteva in moto, Mario si alzò e guardando il fratello con aria complice gli disse:
- Guarda un po' che ho riportato- Tirò fuori da uno zainetto una scatola di scarpe, l'avvicinò sotto al mento di Giorgio e l'aprì di scatto; l'altro rimase a bocca aperta per una decina di secondi, poi alzò lo sguardo e severamente disse:
- Maria Santissima dell'Addolorata!-
- No no, ti sbagli, Maria e basta!- lo corresse Mario.
- Oh, ma ti sei ammattito! Ce n'è abbastanza per andarci in galera, come cazzo ti viene in mente di farti un viaggio con tutta sta roba!-
- Ma che sarà mai, in pullman non ti controlla nessuno, è stato tranquillissimo e poi ne valeva la pena, la coltivano degli amici miei pugliesi, è fatta in casa, come il timballo di nonna!-
I due si fecero una grassa risata, ne presero una manciata e uscirono di casa. Era una bella giornata benché fosse dicembre, presero il loro glorioso vecchio "Si" truccatissimo e si avviarono verso la collina che sovrastava casa loro. Arrivati nel punto più alto si sedettero sotto la quercia secolare dove l'estate da piccoli, si radunavano in gruppo per raccontarsi "lestoriedipaura". Da lì su dominavano. Il loro piccolo mondo tutto davanti agli occhi: le case, la piazzetta con la fontana, la chiesa, il bar e le terre tutt' intorno, fiere e affascinanti come vecchi contadini, geometriche sfumature verde marrone che coraggiosamente ogni giorno, sfidavano l'azzurro del cielo. Due tre boccate a testa senza parlare, le schiene poggiate sull'umido legno dell'albero, il silenzio e poi solo il rumore delle loro risa a fare compagnia al tramonto.


QUATTRO


Il sole era ormai sceso dietro le montagne alle loro spalle e cominciava a fare buio.
Una incontenibile e irrazionale "fame chimica" li spingeva a ritornare. Come lupi famelici si avvicinarono al paese. Davanti al bar c'era un gruppetto di ragazzi seduti sui motorini a fumare. Appena videro Mario cominciarono ad apostrofarlo affettuosamente. - Figliodiputtà!- Chi si rivede!- Hai fatto i soldi?- Erano le frasi più gettonate. Dopo un po' di come stai, che fai e quando te ne vai di rito, puntuale da qualcuno del gruppo fuoriuscì l'immancabile:
- Andiamo a bere?-
Dentro, più o meno le stesse scene. I vecchi, per salutarlo, addirittura interruppero per un attimo il tressette e questo era un grande onore. Il massimo dell'onorificenza che concedevano era: interruzione del tressette; abbandono del posto di combattimento; stretta di mano e posso offrirLe qualcosa da bere? Ma accadeva molto di rado ed era riservato solo alle autorità, quali: il sindaco, il parroco, il maresciallo dei Carabinieri, il dottore, l'avvocato e Piero Calzetta detto Zico che giocava a pallone in C2 e quindi era mezzo famoso.
La cinghiala dispensava birre a profusione, il signor cinghiala beveva da solo in un angolo e ogni tanto affettava i panini avanzati per farne stuzzichini. Lui non mangiava mai, a memoria d'uomo nessuno lo aveva mai visto masticare. Era come se traesse tutto il nutrimento necessario dal vino, era una figura mitologica: mezzo uomo, mezzo damigiana. C'era clima di festa nell'aria, d'altro canto si avvicinava il Natale. Le feste di Natale erano uniche, perché tutti ritornavano al paese. Si dimenticavano i vecchi rancori e le scaramucce passate, almeno quelle banali che un po' di tempo può sanare. Tutti si interessavano agli altri e in ogni casa le mamme e le nonne erano pronte ad accogliere ospiti a suon di vino nuovo e ogni genere di prelibatezza. Sembravano i campionati mondiali dell'accoglienza. Le processioni da una casa all'altra e poi le partite a Bestia, Settemezzo e Piattino, la messa del ventiquattro con le signore autorità impellicciate e i bambini piccoli a dormire in braccio ai padri. Era Natale e ogni anno faceva il suo dovere, regalando i suoi semplici miracoli.
Ormai era quasi ora di cena, il tavolo del bar era tappezzato di bottiglie vuote. Erano rimasti in cinque, oltre ai coniugi cinghiala. C'erano Mario e Giorgio, Antonio Moneta detto "il zezzone" perché si atteggiava a punkabestia, Giuseppe Di Carlo alias Peppe "lo zingaro" e Gigino detto "il muto". Gigino era la mascotte del gruppo, lo chiamavano "il muto" perché parlava poco, potevi stuzzicarlo, prenderlo in giro in tutti i modi, lui si limitava a sorridere, non ribatteva, non ti dava nessuna soddisfazione. Mario e Giorgio credevano che fosse timido, il zezzone pensava che era un po' rincoglionito e lo zingaro diceva che "ci faceva". Probabilmente avevano ragione tutti e quattro.
Si diedero appuntamento alle dieci nella cantina dello zingaro, i due fratelli accesero a spinta il Si e sparirono rapidamente nella foschia, lo zingaro e il zezzone andarono via con la Panda e il muto si incamminò a piedi salutando con un cenno della mano.


CINQUE


Arrivarono alle dieci, puntualissimi. Il muto era già li da un po'. Lo trovarono seduto sui gradini d'ingresso della cantina che fumava una sigaretta. Mario gli chiese:
- Lo zingaro non apre, dove sta? Qua fa freddo!-
Dalla finestra socchiusa, sopra la porta della cantina, una voce decisa e solenne informò presto tutti: - Sto cagando! Il momento è sacro, per me vi potete morire di freddo!-
Una voce femminile lontana e decisamente più aggraziata gli fece eco:
- Cafone, sbrigati che devo uscire.- Era la voce di Carmen, la sorella maggiore dello zingaro, unanimemente riconosciuta come "la più bella del paese". Aveva venticinque anni, pelle olivastra, alta, mora, occhi verdi e uno sguardo che difficilmente si poteva sostenere senza rischiare di perdersi.
Inutile dire che era da sempre il sogno erotico di ognuno dei presenti, ma per qualcuno era qualcosa di più, per il muto lei era la Madonna!
Non lo aveva mai detto a nessuno, ma tutti lo sapevano. L'avevano capito sulla pelle di Giorgio, quando una domenica d'estate, seduti fuori del bar a bere un caffè la videro uscire dalla messa insieme alla madre. Giorgio fece un'infelice commento:
- Si si, la domenica va a messa e tutta la settimana fa la zoccola!-
Il muto era balzato in piedi rosso in viso, l'aveva preso per la camicia e gli aveva detto:
- Linguazezza! La prossima volta che ti permetti di infamarla mi gioco la libertà!-
E proseguì con una serie di bestemmie e insulti irripetibili.
Nel piazzale antistante la chiesa regnò improvvisamente il gelo, il parroco restò a bocca aperta, alcune vecchiette fecero il segno della croce, il muto con le mani ancora attaccate a Giorgio si girò e incrociò lo sguardo esterrefatto di Carmen, mollò la presa e si incamminò nervosamente verso casa. Ci fu in attimo di imbarazzante silenzio, poi la comitiva scoppiò a ridere e tutto tornò alla normalità, fatta eccezione per le vecchiette: quella sera avrebbero fatto gli straordinari sgranando il rosario un po' più del solito.
Gigino non si vide per tre giorni, così Giorgio andò a suonargli a casa, il muto scese, salutò con la mano e salì dietro al motorino. A metà strada disse a Giorgio:
- Scus'.-
- Tuttapposto.-
Non ne parlarono più, l'amore e l'amicizia sono faccende molto serie e spesso, non hanno bisogno di spiegazioni.
Il freddo si era fatto ormai insopportabile e tutti accolsero lo scroscio dello sciacquone come la più sublime delle melodie. In tre minuti erano già al caldo di fronte al camino scoppiettante. Sul tavolo c'erano un mazzo di carte napoletane, vassoi di calgionetti e sfogliatelle, un pandoro, un panettone e due bottiglie di Montepulciano d'Abruzzo. Una serata come tante, ma sicuramente meglio di altre. Mario si sedette di fronte al camino e tirò fuori una bustina di sigarette piena di erba, la tirò addosso allo zingaro e gli disse:
- Ho portato il muschio per il presepe!-
Il zezzone e lo zingaro si incuriosirono e cominciarono a esaminarla, passandosela di mano in mano, annusandola e atteggiandosi a grandi esperti, poi sentenziarono:
- È erba!-
Gigino il muto non la guardò neanche, in compenso aveva già fatto tre filtri. Uno che non perde tempo a parlare spesso prende vantaggio sugli altri.
- Però! Sarà un Natale stupefacente! L'hai riportata da Bologna?- chiese il zezzone e Mario annuì.
- Quanta ne hai?- s'informò lo zingaro.
- Poca- tagliò corto Mario.
- Poca, o poca poca?-
- Poca!-
La serata scivolò via piacevolmente, spazzolarono tutti i dolci, bevvero il vino, fumarono il giusto e giocarono a Bestia. Il muto li ripulì ben bene e mentre tutti lo insultavano dandogli del culoso, lui se la rideva sotto i baffi, con l'aria di quello che la sa lunga, ma che in realtà è culoso.
Stavano fumando "lacannettadellabuonanotte", quando Gigino interruppe il suo mutismo è sollevò un'importante questione:
- Che facciamo a Capodanno?-
la prima risposta corale fu:
- Boh!-
- Io non c'ho una lira- disse Giuseppe - Tu zezzò come stai messo?-
- Co' le pezze al culo!-
- Qualunque cosa vuoi fare a capodanno, costa il triplo se ti va bene!- disse Giorgio - A starmi qui al paese pure quest'anno non ci penso proprio, mi sa che me ne vado a fare il cameriere così pure mi guadagno qualcosa.-
- Io a Bologna ho fatto il porco, con gli ultimi soldi ci ho comprato l'erba…un momento! Mi è venuta un'idea…!-


SEI


"…Ok, allora facciamo così, ne vendiamo quanto basta per fare un Capodanno spettacolare e per recuperare quello che ho speso, il resto ce lo teniamo per noi!-
Tutti ascoltarono pensierosi l'idea di Mario, poi lo zingaro aggiunse:
- Ragà non è che dobbiamo diventare spacciatori, quindi cerchiamo di non sputtanarci, facciamo che ognuno di noi lo dice a una persona, massimo due, non facciamo cazzate che qua il paese è piccolo!- Erano tutti d'accordo tranne il muto, che provò una leggera contestazione senza trovare seguito. Il branco aveva deciso.
L'indomani, al bar della cinghiala, avrebbero cominciato a spargere la voce, un paio di telefonate e in tre quattro giorni il Capodanno sarebbe stato servito. Si diedero appuntamento per il caffè, si salutarono e alla spicciolata s'incamminarono verso le rispettive case.
Mario, nonostante la stanchezza del viaggio e la serata balorda non riusciva a prendere sonno, la sua mente era un vortice di pensieri, che spesso si traducevano in immagini della giornata trascorsa. Nel letto di fianco il fratello sembrava dormire tranquillo. Aprì gli occhi prese una sigaretta dal comodino e l'accese. Aveva un senso di ansia addosso, un presentimento, un alone di negatività che non gli dava pace. Si sentiva in colpa, sporco, pensava ai genitori che dormivano nella stanza a fianco, distrutti da una giornata di ordinario lavoro. Loro non sapevano quello che sapeva lui. Cosa avrebbero pensato? Che dolore avrebbe provocato alla madre, se lo avessero scoperto?
Il figlio che aveva tenuto in grembo, il bimbo che aveva allattato, ora "si faceva la droga!" Anzi, molto peggio. Se la rivendeva per fare il porco!
Che delusione per suo padre, una vita onesta, piena di sacrifici, perché lui potesse studiare fuori, crearsi un avvenire migliore del suo, con la speranza di sentirlo chiamare un giorno da qualcuno "Dottò". E questo figlio ingrato cosa si accingeva a diventare?
Uno squallido spacciatore di paese, che per fare il signore una sera, si vendeva l'onore della sua famiglia!
Per più di una attimo fu tentato di alzarsi, prendere la scatola di scarpe e vuotare l'erba nel cesso, così lo sciacquone avrebbe purificato le lordure della sua coscienza e l'indomani avrebbe potuto guardare suo padre e sua madre ancora negli occhi, senza provare vergogna. Anzi, avrebbe fatto di più; il giorno seguente gli avrebbe raccontato tutto dei suoi loschi propositi e del suo conseguente pentimento. Il figliol prodigo che torna sulla retta via. Loro sarebbero stati fieri di lui, della sua onestà e del fatto che non aveva ceduto alla tentazione di una vita facile.
Ai sensi di colpa ormai si stava sostituendo una sensazione di beatitudine interiore. Decise di cavalcare questo stato d'animo fino in fondo continuando a fantasticare. Avrebbe servito lo Stato e la Giustizia, sarebbe entrato volontario nei Carabinieri, avrebbe fatto la scuola allievi sottufficiali. Era deciso! Già vedeva il padre fiero e impettito nel suo gessato delle grandi occasioni, con la madre a braccetto commossa. Immaginava di entrare in paese con l'uniforme. Davanti a tutti i paesani vestiti a festa col tricolore in mano ad accoglierlo in trionfo, accecati dallo scintillio dei suoi alamari e della sua sciabola.
Era determinato, aveva trovato la sua strada, la sua missione, aveva visto la LUCE!
Sarebbe stato il terrore degli spacciatori di tutt'Italia, anzi di più, di tutt'Europa! Avrebbe dichiarato guerra alla droga e l'avrebbe sconfitta!
E mentre stava immaginando di ricevere un riconoscimento speciale in eurovisione e a reti unificate da parte del Presidente della Repubblica e in presenza del Papa, la voce impastata del fratello spezzò il flusso dei suoi pensieri:
"O Mà, ma perché invece di impuzzonire la stanza con le sigarette, non ci facciamo un bel cannone sul balcone?"
Rimase basito per un attimo, sentì un brivido lungo la schiena, si alzò di scatto dal letto e guardandolo fisso negli occhi, chiese:
- Le cartine?-



(Racconto tratto dall'antologia Lontano da come, Demian Edizioni, Teramo, 2005, a cura di Simone Gambacorta)



Marko Ferrari è nato a Giulianova (Teramo) nel 1977. Tra il 1992 e il 1994 ha condotto un programma radiofonico per l'emittente giuliese "Radio Azzurra G". Nel 1995 ha scritto per l'emittente televisiva "Verde Tv" di Teramo dieci puntate della serie Il Mago Cnor... l'unico mago che legge i dadi da cucina. Dal 1996 si esibisce come cabarettista in tutta Italia. Attualmente partecipa al "Lab on the road Zelig-Puglia" e al laboratorio di cabaret "La fattoria dei comici" presso il "Piccolo Jovinelli" di Roma. Frequenta il corso di Recitazione nella "Nuova Università del Cinema e della Televisione" di Cinecittà.







        Successivo     VENTONUOVO     Copertina