I musulmani nell'India

V. S. Naipaul

 


Per più di seicento anni dopo l'anno Mille gli invasori musulmani avevano saccheggiato il subcontinente indiano. Avevano fondato regni e imperi e si erano combattuti l'un l'altro. Nel Nord avevano distrutto i templi delle religioni locali; erano penetrati in profondità nel Sud profanando i templi anche laggiù. Per il nazionalismo indiano del Novecento quei secoli di sconfitte erano fonte di imbarazzo. Così la storia venne falsificata e i suoi protagonisti prima degli inglesi diventarono una cosa sola: sovrani e sudditi, conquistatori e popoli soggiogati, credenti e infedeli. Di fronte alla grande potenza britannica, in qualche modo quadrava. Comunque sia, al fine di promuovere l'idea di un'integrità dell'India prima degli inglesi, per gli scrittori nazionalisti era più facile risalire a tempi lontanissimi, all'epoca preislamica, al quinto e settimo secolo, quando l'India era per alcuni il centro del mondo e gli studiosi buddhisti cinesi si recavano in pellegrinaggio nei centri del sapere buddhista in India.
Il marocchino Ibn Battuta, teologo musulmano e grande viaggiatore del Trecento, non si inseriva facilmente in quest'idea di integrità indiana. Ibn Battuta si era prefisso di visitare tutti i paesi del mondo musulmano. Ovunque andasse viveva della munificenza dei sovrani musulmani e in cambio offriva la più pura pietà araba.
Giunse in India al tempo della conquista musulmana. Gli vennero concessi i proventi (o raccolti) di cinque villaggi, poi - nonostante la carestia - quelli di altri due; rimase per sette anni. Alla fine, però, dovette fuggire. Il sovrano musulmano di Delhi, l'ultimo mecenate di Ibn Battuta, amava il sangue e le esecuzioni quotidiane (e la tortura) sulla soglia della sala delle udienze, dove i cadaveri venivano lasciati per tre giorni. Lo stesso Ibn Battuta, benché abituato agli usi dei despoti musulmani di tutto il mondo, cominciò ad aver paura. Quando quattro guardie ricevettero l'ordine di sorvegliarlo, pensi che fosse giunta la sua ora. Aveva continuato ad assillare il sovrano e i suoi funzionari, lamentando che i doni del sovrano venivano fatti sparire dai cortigiani prima di arrivare fino a lui. Ora, in preda al terrore, annunciò di voler fare penitenza e rinunciare al mondo. Fece un digiuno completo di cinque giorni, leggendo il Corano dal mattino alla sera, dopodiché si presentò al cospetto del sovrano vestito da mendicante. Il sacrificio del teologo toccò il cuore del sovrano, ricordandogli l'esistenza di cose più alte, e Ibn Battuta ebbe il permesso di lasciare il paese.
Negli scritti di Ibn Battuta la gente del posto è vista solo in modo mediato. Erano servi della gleba (di proprietà del sovrano, parte dei doni munifici che potevano essere offerti al viaggiatore) o semplici schiavi (Ibn Battuta amava viaggiare accompagnato da giovani schiave). Le credenze di questa gente avevano un che di pittoresco, ma per il resto non erano di alcun interesse per un teologo musulmano; a Delhi i loro idoli erano stati letteralmente abbattuti. La terra non apparteneva più alla gente del posto e per il sovrano straniero non aveva nulla di sacro.
In Ibn Battuta era possibile vedere gli albori della grande desolazione dell'India. Agli occhi dei viaggiatori europei del Seicento come Thomas Roe e Bernier la diffusa miseria della popolazione - che viveva in capanne tutt'intorno ai palazzi del moghul - rendeva ridicola la pretenziosità dei sovrani. E secondo William Howard Russell, che nel 1858 e 1859 fece per il "Times" la cronaca dell'ammutinamento dell'esercito indiano e viaggiò in lungo e in largo da Calcutta al Punjab, la regione era ovunque un ammasso di rovine antiche, mentre la gente comune, mezza morta di fame ("dalle cosce incavate"), ciecamente impegnata nel proprio umile lavoro, serviva gli inglesi come aveva servito ogni sovrano del passato.
Da bambino, anche se non lo sapevo esprimere a parole, avevo creduto nell'integrità dell'India. Il Ramlila - lo spettacolo basato sul Ramayana che avevamo visto rappresentare in un campo vicino al nostro paese -, i riti religiosi e tutti i nostri usi e costumi facevano parte di quell'integrità, ma ce li eravamo lasciati alle spalle. Questa visione nuova del passato, di cui avevo preso coscienza nel corso degli anni, vanificò quell'immagine idilliaca, mostrandomi come la nostra civiltà avita - alla quale avevamo reso omaggio in molti modi nella nostra lontana colonia e che avevamo considerato antica e perenne - fosse stata inerme davanti agli invasori musulmani quanto i messicani e i peruviani lo erano stati davanti agli spagnoli; e ne fosse uscita semidistrutta.




(Brano tratto dal saggio Leggere e scrivere, Adelphi editrice, Milano, 2002. Traduzione di Franca Cavagnoli.)




V. S. Naipaul ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2001.


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