DI NASCOSTO


Olivier Adam



A volte me lo chiedo, con la vita che facciamo, mi chiedo se ci farebbe caso. Se per lei sarebbe lo stesso non vedermi più girare per casa come un'ombra, un fantasma o un morto. Che cosa cambierebbe se sparissi dalla sua vita. Finisco il bicchiere ed è domenica sera, la domenica sera penso sempre a queste cose e mi sento soffocare. Penso al giorno dopo, al lavoro al supermercato, ai colleghi, al padrone e vorrei morire. Quando ero piccolo i miei guardavano il film e io non riuscivo a dormire, pensavo al giorno dopo, alla settimana che mi aspettava, alla scuola ai compiti in classe e mi veniva un nodo in gola. A partire dalla domenica mattina mi veniva un nodo in gola.
Al bar ricevitoria butto giù una birra dopo l'altra per stordirmi e non sentire più l'angoscia e il dolore. Posso andare avanti a lungo. Fino alla chiusura. Il dolore e l'angoscia non se ne vanno, non si arrendono, non mollano mai la presa. Non posso dire che questo bar mi piaccia, ma è domenica ed è l'unico aperto e non ho voglia di tornare a casa. Il pavimento è coperto di foglietti bianchi e mozziconi. Fuori, nei paraggi, non c'è niente, è tutto chiuso. Finisco il bicchiere e guardo le auto, i ragazzini, i carrelli lasciati dove capita, il parcheggio dove svolazzano sacchetti di plastica. I ragazzi in motorino che sgominano tra gli alberi. Al bancone siamo in molti e parliamo del più e del meno, di cazzate, tanto per parlare, e finisce che ci conosciamo tutti. Ci sono Majid, Jacques e il signor Henri e quella vecchia con i suoi mozziconi di sigaretta raccattati da terra che si fuma tra le gengive sdentate. Sono quasi tutti senza lavoro, alla loro età è finita, per loro non c'è più niente. Il signor Henri si è fatto trent'anni di fabbrica, ne ha quarantacinque ma vi posso assicurare che ne dimostra il doppio. Dice che le macchine continua a sentirle, che gli rimbombano nella testa, che non lo fanno dormire. Io so soltanto che fa fatica a sfamare i figli e se ne vergogna come un ladro.
Quando hanno chiuso il reparto, in fabbrica c'è stato un gran casino per due o tre settimane e poi nessuno ne ha più parlato. È venuta la televisione e anche qualche politico. Hanno diviso con noi le salsicce e il caldo dei bracieri e poi se ne sono andati garantendoci che avrebbero fatto il necessario per il nostro reinserimento. Siamo finiti tutti nelle liste di collocamento. Jacques tira avanti a forza di permessi per malattia. È l'unico a percepire ancora lo stipendio. Io invece sono l'unico che ha trovato qualcos'altro, perché sono più giovane. Ormai sono due anni che lavoro in quel supermercato. Non è né meglio né peggio di prima. È insopportabile e basta, come qualsiasi altro lavoro di merda.

Il bar sta chiudendo e l'insegna verde si spegne. Ci ritroviamo fuori come dei cretini e ci salutiamo buttandoci le braccia al collo. Cammino con Majid sulla statale con le insegne in fila, i semafori, le macchine, i ristoranti e i cubi giganti di latta, il Carrefour, la Fiera del Mobile, il Mercato della Scarpa, le aree commerciali, le zone industriali, più su l'ospedale e la stazione della RER1 più giù il circolo ricreativo, l'ufficio di collocamento e le villette a schiera, i giardini e i terreni incolti. È qui che vivo. Majid mi saluta con un cenno e lo guardo mentre si allontana. Non so dove abita. Il sabato mattina ogni tanto lo vedo, fa i mercati, aiuta i venditori a caricare e scaricare la merce. Se ne va a casa pieno di cassette di verdura invenduta e di enormi sacchi di patate.
Rientro e lei dorme già. Sono due anni che non lavora ma continua ad andare a letto presto e a svegliarsi alle sei del mattino. Dice che altrimenti è l'inizio della fine. Io credo che la fine l'abbiamo oltrepassata da un pezzo. Su tutti i fronti e in tutti i sensi. Si vede con uno, lo so che si vedono e che lui se la scopa, però mi sa che non me ne frega niente. Si sono conosciuti facendo la coda alla previdenza sociale, si ritrovavano lì molte volte al mese, anche per quattro o cinque ore di seguito. Un giorno mi ha parlato di lui, mi ha detto sai, credo di aver trovato un amico e sono contenta perché non vedo mai nessuno e questa non è vita, non uscire e non vedere mai nessuno, tutte le sere a casa davanti alla televisione non è vita. Hanno cominciato a frequentarsi, andavano al supermercato, a bere qualcosa in centro, forse una volta sono anche andati al cinema.
Mi siedo sulla poltrona del salotto e accendo la televisione per ammazzare il silenzio. Mi trattengo ma so benissimo che basterebbe un niente per far saltare tutto, per farmi gridare o scoppiare a piangere. Lei dice che sono malato e che mi devo curare, che devo andare da un dottore, da uno psichiatra o qualcosa del genere. Non sopporto quando dice così, le dico di chiudere quella maledetta bocca e le stringo le guance con le mani fino a che non sta zitta. Non sopporto che dica così ma in realtà sento anch'io che tutto sta andando a rotoli. Venerdì ci sono stato, dal dottore. Ho preso un giorno libero e sono andato all'ospedale sopra la città. Da lì la ferrovia sembrava microscopica e la Senna un nastro grigio costeggiato da alberi malati. Ho aspettato a lungo in un corridoio coi muri rosa che puzzava di etere, di minestra e di varechina. Ho aspettato il mio turno e mi ha ricevuto nel suo ufficio tirato a lucido. Ho vuotato il sacco e a essere sincero mi faceva star male mettermi a nudo così davanti a uno stronzo simile. Mi sono sentito un povero sfigato. Lui prima mi ha ascoltato senza aprire bocca, poi ha tirato fuori la sua voce impostata e i suoi modi ampollosi del cazzo e si è messo a parlare di tutte quelle cose, storie di rottura e ha aggiunto che devo farmi curare. Ha parlato di iniezioni e medicine, di un posto con le infermiere e il parco, le visite il silenzio gli alberi spogli, l'erba gelata la calma lo stagno, corridoi camere luminose pasti regolari e calma e ancora calma e riposo. Gli ho chiesto se piuttosto non poteva darmi un permesso per malattia e lui ha detto va bene, certo, capisco. Per questo è venuto qui a raccontarmela. Qua curiamo i malati. non gli scansafatiche. Questo ha detto, proprio queste parole. Sono uscito dall'ufficio, ho dato un calcio a un carrello e ho fatto volare tutto. Le siringhe, i flaconi, le medicine. Ho lasciato l'ospedale, ho preso strade in discesa. cadeva una pioggerella schifosa. Sono tornato a casa. Ho parcheggiato davanti, proprio davanti al cancello di casa, all'albero spoglio, al posto macchina, alla ghiaia, alle tuie, proprio davanti alle pietre molari alle tegole rosse e vedevo le finestre illuminate, a sinistra la cucina a destra il salotto, ho spento il motore e ho acceso la radio, era già notte e i lampioni brillavano. Sono rimasto così a lungo. Ho pensato a quello che aveva detto il dottore, a quelli del bar, a Majid, al signor Henri. Al lavoro e a quant'ero stanco. Al weekend che sarebbe finito ancora prima di iniziare. A lei che vedeva quel tipo, alla vita che avrebbero potuto fare se io non ci fossi stato. Una vita nuova e tranquilla, una vita ripulita.
I vicini tornavano a casa uno dopo l'altro, tornavano dal lavoro e li vedevo scendere dalla macchina, aggiustarsi la camicia e aprire la porta. Li ho visti tutti e ho pensato chi se ne frega, troverò una soluzione ma non metterò mai più piede in quella merda di supermercato. Ogni tanto vedevo la sua ombra passare dietro le tende. La vedevo, vedevo che non mi stava aspettando, che non si avvicinava nemmeno alla finestra per controllare se arrivavo, di sicuro non gliene fregava niente. E poi l'ho visto uscire. quel tipo che frequenta e che se la scopa, almeno lui. L'ho visto uscire e a dire il vero non mi ha fatto né caldo né freddo, pensavo solo al lavoro. Non ci volevo tornare.

"Non vieni a dormire?"
Non l'ho sentita arrivare. Si accende una sigaretta. "Che cosa guardi?"
"Non so, non stavo guardando".
Do un'occhiata allo schermo e c'è Derrick.
"Ricordati di portare fuori l'immondizia", mi dice. Poi va a dormire.
Mi rendo conto che non mi ha nemmeno chiesto del dottore. So quello che pensa, che ormai sono irrecuperabile e non c'è più niente da fare, per lei sono solo un peso morto e aspetta che tiri le cuoia o che me ne vada. In cucina cerco una birra in frigo ma non ne è rimasta neanche una. Scendo in cantina ma non trovo niente nemmeno lì. Salgo e vado direttamente in camera da letto, la scuoto e le chiedo che fine hanno fatto le mie birre. Lei si gira e mugugna. fa finta di non sentire e mi dà sui nervi, le stringo il braccio con tutta la forza che ho, lei si mette a urlare.
"Smettila, cazzo, mi fai male!"
"Che fine hanno fatto le mie birre?"
"Quali birre'?"
"Piantala, sai benissimo di cosa parlo".
"Ascolta, Eric, devi smetterla di bere. O ti decidi a ragionare o lo farò io per te. Ho buttato via tutto".
Quello che non sopporto non è che lo abbia fatto, e neppure che me lo venga a dire, no. È la sua faccia e quel tono da maestrina. La guardo e mi dico che davvero, quella donna l'ho amata con tutto me stesso, ma è passato talmente tanto tempo che quasi non me ne ricordo. Torno in salotto, mi metto sul divano, prendo una vecchia coperta e spengo la luce. Una volta tanto mi addormento subito.

Verso le sei mi batte sulla spalla e sento l'odore del caffè. Traffica in cucina e in televisione passano dei video tutti uguali. Faccio la doccia e mi vesto, bevo un caffè in piedi nel salotto e la saluto come se niente fosse. E lì capisco che non rivedrò mai più quella casa e neppure lei ma la cosa mi lascia indifferente. È ancora buio. Metto in moto e vado verso Parigi. Lascio la macchina in un parcheggio sotterraneo con le chiavi nel cruscotto. In un supermercato compro del whisky
e mi ci riempio le tasche. Faccio il giro di tutti i bancomat del quartiere, prelevo il massimo ogni volta. La stazione è piena di gente. Guardo gli orari e le destinazioni, prendo il primo treno per il Portogallo.

Dormo per tutto il viaggio. Poi cammino senza meta tra i vicoli storti. Le facciate delle case sono scrostate, sento voci e conversazioni e non capisco una parola, bevo un sorso e mi confondo con il tutto. Di fianco a una porta vedo un cartello con scritto pensione in francese. Entro e chiedo una camera. Pago con il bancomat per due settimane. Non è un granché ma può andare. Un letto una scrivania e un armadio, carta da parati marrone a fiori sui muri e una finestra che dà sulla strada. La padrona ha l'aria simpatica, è grassa e bruna con un vestito blu e un grembiule che di sicuro non si toglie mai. Mi chiede se ho fame, le dico di sì e lei scompare in cucina. Mangiamo insieme seduti nel salotto di casa sua, i muri sono tappezzati di immagini della Madonna e di foto di uno coi baffi. Dopo mangiato usciamo a fumare davanti alla porta di casa. Ci sono panni stesi arie finestre, c'è odore di aglio e di olio d'oliva. di bucato e di pesce alla griglia. Alcune donne ci salutano passando, scambiano due parole con lei. Rimaniamo così a guardare la strada, i ragazzini che passano e litigano, i motorini e il sole che tramonta. Tra le case si vedono il Tago e i vicoli stretti.
Comincio a sentirmi più calmo. Salgo in camera. Prendo una bottiglia di vino. Spengo la luce e resto un attimo con gli occhi aperti. non riesco ad addormentarmi. Non è che pensi a lei o a quello che ho fatto, è solo che non ho sonno. Esco in mutande e a piedi nudi nel corridoio e incollo l'orecchio alle porte. Gente che russa respiri colpi di tosse e televisori accesi.
Faccio tutti i piani così, toccando i muri con le mani, e all'ultimo incontro quella ragazza, è alta e la sua pelle luccica nella penombra. Parliamo sottovoce con il poco inglese che sappiamo. Mi dice che viene dall'Angola e che da una settimana è rintanata nella sua stanza perché ha paura di uscire per via dei poliziotti e dei controlli. Le dico di stare tranquilla che mica siamo in Francia, dico così ma che ne so. dico per dire. Mi guarda con un sorriso malizioso, ha un buon odore e io sono ubriaco, ho una gran voglia di baciarla. Lo faccio e sembra che baciarsi così non le dispiaccia. In camera mia si spoglia e scopiamo lentamente, con calma. Canticchia con voce roca, non conosco la sua lingua ma la trovo bella. La bacio e mi dico che solo in bocca si sente davvero la dolcezza delle persone. Vengo ed erano secoli che non mi succedeva. Poi lei si sdraia vicino a me e si addormenta. Resto per ore con gli occhi aperti a guardare il suo corpo lungo e scuro e splendente nel buio.
Al mattino la lascio dormire, mi vesto e vado a bere al bar dell'angolo. Fuori piove, e l'interno del bar è rosso e verde con trofei di calcio, gagliardetti e bottiglie vuote. Quando esco sono ubriaco al punto giusto. Quel tanto che basta. Cammino per le vie dell'Alfama e mi gira un po' la testa ma riesco a ritrovare la pensione in mezzo ai vicoli. Quando entro in camera lei si sta svegliando, è nuda e mi viene duro, lei me lo succhia piano e io vengo appena glielo infilo dentro. Le dico di vestirsi e di seguirmi fuori. Prendiamo un treno a caso e lei stringe la mia mano, mi morde le orecchie e la pelle del collo. Costeggiamo il Tago e poi il mare. Per le strade di Estoril fa caldo e sembra primavera. Dormiamo insieme sulla spiaggia. con la sua testa appoggiata sulla mia pancia e il sole che mi cuoce le guance. Sono ancora ubriaco e sento il rumore delle onde, faccio scorrere la sabbia tra le dita. Ci scoliamo una bottiglia di vinho verde, lei non è abituata e gli occhi le brillano e ride per ogni cosa. Mi fissa e scoppia a ridere, le chiedo perché ride e mi risponde che sembro un pazzo. Mi guardo in una vetrina ed è vero che sembro un pazzo scappato dal manicomio. Poi torniamo a Lisbona. Ci avviamo verso la pensione e sulla porta mi dice di aspettarla, che ne avrà per un'ora o due, una storia di documenti.

L'aspetto in un bar e fuori è buio. Piove e l'odore del mare sale fino a qui. Bevo un bicchiere dopo l'altro e vorrei essere stanco morto e dormire come un sasso su di lei. Sento che ho i nervi a pezzi e che potrei mettermi a piangere per niente o a ridere o a gridare ma ora basta, sono in questo bar, sono calmo, come anestetizzato e assente. Esco sotto la tettoia, da lì si vede tutta la città. Piove sul fiume e sui vicoli, di traverso sulle case e sulle scale. Mi accendo una sigaretta e la fumo in piedi a due spanne dalla pioggia. Chiedo da bere al padrone. Guardo le coppe e le figurine sui ripiani, in tv danno una partita, tre uomini mangiano in silenzio. Forse non tornerà. Forse si è fatta prendere. Adesso è su un charter per l' Angola. L'hanno ammanettata, sbattuta per terra e i cani l'hanno annusata. I poliziotti l'hanno palpata e l'hanno guardata con occhi vogliosi. Trattata come un animale o peggio. Cerco di non pensarci.
Il cameriere mette una bottiglia sul tavolo. E un tipo grande e grosso e baffuto. Con un cenno mi fa capire che la berremo insieme. Riempie i bicchieri e brindiamo, beviamo in silenzio. Sono completamente ubriaco e ormai la mia vita non ha più senso, non ha più una direzione. E martedì e io non ci sono più.


Nota:
1 - Réseau Express Régional, linea di metropolitana veloce della regione parigina. [ndt.]




(Racconto tratto da Passare l'inverno, Minimum Fax, Roma, 2006.Traduzione da Elisa Artuffo, Lilia Barmina, Teresa Benincasa, Ester Borgese, Alessandra Bussolino, Monica Cirtoli, Dario Gianozzi, Sara Merlino e Alessandra Molino.)


Olivier Adam è nato nella banlieue parigina nel 1974. Oltre a Passare l'inverno, che ha vinto la Bourse Goncourt de la Nouvelle nel 2004, ha al suo attivo altri sette romanzi.


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