LE CIME

Joćo Guimarćes Rosa




L'ALLONTANAMENTO INVERSO

Altra era la volta. Di modo che di nuovo il Bambino viaggiava verso il luogo dove le molte mille persone facevano la grande città. Veniva, però, solo con lo Zio, e era un'ardua partenza. Era entrato stordito nell'aereo, inciampando qua e là, lo avvolgeva da dentro un affanno come stanchezza; fingeva appena di sorridere, quando gli parlavano. Sapeva che la Madre era malata. Per questo lo mandavano via, certo per lunghi giorni, certo perché era necessario. Per questo avevano voluto che portasse i giocattoli, la Zia gli aveva messo in mano il preferito, che era il portafortuna: un pupazzetto scimmiottino, con calzoni grigi e cappello rosso, piuma alta. Il quale, il suo posto previo era sul comodino, in camera sua. Avesse potuto muoversi e vivere come noi, e sarebbe stato il più impagabile e birbante di questo mondo. Il Bambino acquistava maggior paura, man mano che gli altri si mostravano più buoni con lui. Se lo Zio, scherzando, lo incitava a guardare dal finestrino o a scegliere le riviste, sapeva che lo Zio non era del tutto sincero. Altri timori provava. Se avesse fissato il pensiero sul ricordo della Madre, si sarebbe messo a
piangere. La Madre e la sofferenza non entravano insieme nello spazio di un istante, erano l'opposto - dell'orribile dell'impossibile. Neppure lui lo capiva, tutto allora gli si confondeva nella testolina. Era così: qualcosa, più grande di tutte, poteva, doveva accadere?
Non gli serviva neppure guardare, correndo in direzioni contrarie, le nuvole sovrapposte, di lontano andare. E tutti, perfino il pilota, non erano forse tristi, nei loro modi, solo per finzione normalmente lieti? Lo Zio, con una cravatta verde, si stava pulendo con essa gli occhiali, certo non si sarebbe messo la cravatta così bella, se il pericolo minacciava la Madre. Ma il bambino nutriva un rimorso, di avere in tasca il pupazzetto scimmiottino, divertente e immutato, solo un giocattolo, e con l'alta piuma sul cappellino rosso. Doveva buttarlo via? No, lo scimmiottino dai calzoni grigi era anche lui un amichetto, che non meritava maltrattamenti. Gli tolse solo il cappellino con la piuma, questo, sì, lo buttò, adesso non c'era più. E il Bambino era molto immerso in se stesso, in qualche angoletto del suo essere. Molto all'indietro. Lui, il poverino seduto.
Quanto avrebbe voluto dormire. Si dovrebbe poter smettere di stare tanto svegli, quando se ne ha bisogno, e addormentarsi sicuri, salvi. Ma non c'era modo. Doveva tornare ad aprire troppo gli occhi, alle nuvole che sperimentano sculture effimere. Lo Zio guardava l'orologio. Allora, quando arrivavano? Tutto ora, tutto-il-tempo, più o meno uguale, le cose o altre. La gente, no. La vita non si fermava mai, perché si potesse vivere come si deve, serenamente? Anche lo scimmiottino senza cappello avrebbe conosciuto allo stesso modo la grandezza di quegli alberi, della foresta, attaccati al cortile della casa. Il povero scimmiottino, così piccolo, solo, così senza madre; lo toccava, nella tasca, sembrava che allo scimmiottino facesse piacere, e che là dentro, al buio, piangesse.
Ma la Madre, era solo la gioia di momenti. Se avesse saputo che un giorno la Madre si sarebbe ammalata, allora sarebbe rimasto sempre accanto a lei, tenendola d'occhio con tanta forza, ah. Non avrebbe giocato, mai, né fatto nessun'altra cosa, se non restarle vicino, da non separarsi neppure per un respiro, senza bisogno che succedesse nulla. Allo stesso modo che adesso, nel cuore del pensiero. Come sentiva: con lei, più che se stessero insieme, proprio, davvero.
L'aereo non cessava di attraversare l'enorme chiarità, volava il volo - che sembrava immobile. Ma nell'aria passavano pesci neri, certo al di là di quelle nuvole: lombi e artigli. Il Bambino soffriva trattenendosi. Forse l'aereo stava fermo volando - e, anzi, tornando indietro, e lui accanto alla Madre, come non aveva saputo, prima, che il così fosse possibile.


APPARIZIONE DELL'UCCELLO

Nella casa, che non era cambiata, tra e davanti agli alberi, tutti cominciarono a trattarlo con qualità di attenzioni. Dicevano che era un peccato che non ci fossero altri bambini, Sì, avrebbe dato loro i giocattoli; non voleva giocare, mai più. Mentre si giocava, incuranti, le cose cattive stavano già preparando la furia dell'accadere: aspettavano dietro le porte.
Non aveva voglia neppure di uscire in jeep, con lo Zio, verso la polvere, la gente e la terra. Si teneva forte, gli occhi chiusi; lo Zio disse che non doveva reggersi con forza così tesa, ma abbandonare il corpo all'andare e venire degli scossoni della macchina. Se si fosse ammalato, gravemente, anche lui - come si sarebbe sentito, più lontano dalla Madre, o più vicino? Egli si morse il cuore. Non volle neppure parlare con il pupazzetto scimmiottino. Il giorno, tutto, non serviva che a disperdersi nella stanchezza.
Anche così, la sera, non riusciva a prendere sonno. L'aria di quel luogo era più fresca, più fine. Coricato, il Bambino si sentiva impaurito, il cuore dava molti colpi. La Madre, cioè ... E non poteva addormentarsi subito, e per la ragione già detta. Il silenzio, il buio, la casa, la notte - tutto camminava lentamente, verso il giorno dopo. Anche se si fosse voluto, nulla poteva arrestarsi né tornare indietro, verso quello che già si conosceva e amava. Era solo nella stanza. Ma il pupazzetto scimmiottino non era più quello da mettere sul comodino: era il compagno, sul cuscino, il pancino all'aria, gambe distese. La stanza dello Zio era a fianco. La parete sottile, di legno. Lo Zio russava. Anche lo scimmiottino, quasi, come un bambino molto vecchio. Si stava forse rubando qualcosa alla notte?
E, venuto l'indomani, nel non-stare-più-dormendo e non-essere-ancora-sveglio, il Bambino riceveva una chiarezza di mente - come un soffio - dolce, lieve. Quasi come assistere alle certezze ricordate da un altro; una sorta di cinema di pensieri sconosciuti; come se potesse copiare nello spirito idee di persone molto grandi. Finché svanivano, qua e là, sfilacciate.
Ma, in quello sprazzo, egli sapeva e credeva: che non si potevano mai apprezzare, esattamente, le cose belle e buone che accadevano. A volte, perché sopraggiungevano di colpo e inaspettatamente, non si era preparati. O attese, e allora non avevano
il gusto di così buone, erano solo una grossolana imitazione. O perché le altre cose, quelle cattive, proseguivano anch'esse, da una parte e dall'altra, senza lasciare campo libero. O perché mancavano ancora altre cose, accadute in diverse occasioni, ma che non arrivavano ad organizzarsi con quelle, per completarsi. O perché, proprio mentre stavano accadendo, si sapeva già che si stavano avviando a finire, rose dalle ore, disfatte ... Il Bambino non poteva più restare a letto. Era già in piedi e vestito, prendeva lo scimmiottino e se lo infilava in tasca, aveva fame.
Il portico era un passaggio, tra il cortiletto con la foresta e l'esteso altro-lato - quell'oscuro campo, sotto squarci, nebbie, come un ghiaccio, e le perline della rugiada: che andava fino a perdita d'occhio, alla fine del cielo di levante, all'estremo dell'orizzonte. Il sole non era ancora arrivato. Ma la chiarità. Le cime degli alberi si indoravano. Gli altri alberi oltre il cortile, ancora più verdi, perché la rugiada li aveva lavati. Inframattino - e di tutto un profumo, e gli uccellini a pigolare. Dalla cucina, portavano il caffè.
E: "Pss!" indicarono. Su uno degli alberi si era posato un tucano, in blando battito orizzontale. Così vicino! L'alto azzurro, le fronde, il luminoso giallo attorno e i molti tenui rossi dell'uccello - dopo il suo volo. Era da vedere: grande, agghindato, il becco simile a un fiore parassita. Saltava di ramo in ramo, mangiava dall'albero carico. Tutta la luce apparteneva a lui, che la spruzzava dei suoi colori, lanciandosi ogni tanto nell'aria, bizzarro-languido, splendentemente sospeso. Sulla vetta dell'albero, sui piccoli frutti, tuc, tuc, ... e poi si puliva il becco sul ramo. E, a occhi spalancati, il Bambino, senza poter neppure trattenere per sé il breve istante magico, appena nei silenzi di un-due-tre. Nel tacere di tutti. Perfino lo Zio. Lo Zio, anche lui, se la stava godendo: si puliva gli occhiali. Il tucano si arrestava, udendo altri uccelli - chissà, i suoi piccoli - dalla parte della foresta. Il grande becco in alto, lanciava a sua volta, a una o due riprese, quel grido un po' rugginoso dei tucani: "Creee! " ... Il Bambino stava lì lì per piangere. Frattanto, cantavano i galli. Il Bambino ricordava senza alcun ricordo. Si bagnò tutte le ciglia.
E il tucano, il volo, dritto, lento - come volò via, sciò, sciò! - mirabile, colori librantisi, nella sfarzosità; si fece sogno. Ma non si poteva far raffreddare lo sguardo. Già indicavano verso l'altro immenso lato. Da lì, il sole voleva uscire, nella regione della stella del mattino. Al limite del campo, scuro, come un muro basso, si rompeva, in un punto, dorato rombo, dai bordi scheggiati. Laggiù, oscillò verso l'alto, soave, in lievi sussulti, il mezzo-sole, il disco, il liscio, il sole, la luce per tutto. Adesso, era la palla d'oro che si equilibrava sull'azzurro di un filo. Lo Zio guardava l'orologio. Tanto tempo, e il Bambino non apriva bocca. Afferrava con lo sguardo ogni sillaba dell'orizzonte.
Ma non aveva potuto associare al vertiginoso istante la presenza del ricordo della Madre-sana, ah, senza alcun malanno, poiché solo in allegria lei lì sarebbe dovuta stare. E neppure lo sfiorare dell'idea di tirar fuori dalla tasca il compagno pupazzetto scimmiottino, perché vedesse anche lui: il tucano - il signorino rosso a batter le mani, davanti il becco alzato. Ma come se, in ogni parte e frammento del suo volo, restasse fermo, nel tratto impossibile del punto, neppure in aria - per ora, senza fine e sempre.


IL LAVORO DEL TUCANO

Così, il Bambino, durante il giorno, nell'abbattimento, lottava con quel che non voleva volere in sé. Non sopportava di osservare, crudamente, le cose, come sono, e come sempre si vanno facendo: più pesanti, più-cose - se guardate senza precauzioni. Temeva di chiedere notizie: temeva la Madre nel brutto miraggio della malattia? Benché si sforzasse, non poteva pensare all'indietro. Se voleva immaginare la Madre inferma, male, non riusciva a connettere il pensiero, tutto nella testa gli si ingarbugliava. La Madre era la Madre, soltanto; nient'altro.
Ma, aspettava; la bellezza. C'era il tucano - senza difetti - in volo e posa e volo. Di nuovo, al mattino, si dirigeva soltanto verso quell'albero dalla chioma alta, della specie chiamata appunto tucaneira. E sorgeva lo splendore del giorno, il suo respiro dorato. Ogni alba, puntuale, il tucano, gentile, rumoroso: ... sonqui-sonqui-sonqui - in volo retto, disteso, rasente, tracciato soave nell'aria, come neppure una rossa barchetta che scuotesse lenta le vele, sospinta; così sicuro nel planare come se fosse un cigno scivolando in avanti, al di sopra della luce dorata.
Dopo l'incanto, si entrava nella totale banalità del giorno. Quella degli altri, non la sua. Gli scossoni della jeep costituivano l'avvenimento più immediato. La Madre gli aveva sempre raccomandato cura per i suoi vestiti, ma la terra qui era una sfida. Ah, il pupazzetto scimmiottino, anche se sempre in tasca, si sporcava solo di sudore e di polvere. I mille e mille uomini moltamente lavoravano a fare la grande città.
Ma il tucano, immancabile, aveva l'usanza di sopraggiungere, tutti lì lo conoscevano, al tingersi dell'aurora. Da più di un mese quella cosa era cominciata. Dapprima, se ne era presentato un branco di una trentina, vocianti, ma era di-giorno, tra le dieci e le undici. Solo quello, però, era rimasto, per ogni levar del sole. Con gli occhi tardi tonti di sonno, il pupazzetto scimmiottino in tasca, il Bambino si alzava in fretta e scendeva nel portico, animato ad amare.
Lo Zio gli parlava, con eccessi di premura, senza alcuna accortezza. Uscivano - sul farsi delle cose. La polvere copriva tutto. Il pupazzetto scimmiottino, un giorno, doveva pur poter avere un altro cappellino, con la piuma alta; ma verde, del colore della cravatta, così vistosa, che lo Zio, in maniche di camicia, ora non portava. Il Bambino, ad ogni istante, era come se fosse solo una certa parte di sé, spinto in avanti, senza volere. La jeep correva per strade a non finire, sempre nuove. Ma il Bambino, nel suo più forte cuore, dichiarava soltanto: che la Madre doveva star bene, doveva salvarsi!
Aspettava il tucano, che arrivava, giusto, in-tempo, in-punto, alle sei-e-venti del mattino; restava, inalberato, sulla cima della tucaneira, trafficando coi frutti, solo i dieci minuti, mangiati e zompettati. Poi, se ne andava, sempre in quell'altra direzione, nel prima del fluito mezzo-istante in cui il sole divampava rotondo dal suolo; perché il sole era lì alle sei-e-mezzo. Lo Zio misurava tutto sull'orologio.
Di giorno, non tornava. Da dove veniva e abitava - dalle ombre della foresta, gli impenetrabili? Nessuno sapeva le sue vere abitudini, né i suoi orari precisi: gli altri posti, dove andava a cercare da mangiare e da bere, sui punti isolati. Ma il Bambino pensava che doveva essere proprio così - che nessuno sapesse. Egli veniva dal diverso, solo da lì. Il giorno: l'uccello.
Frattanto, lo Zio, ricevuto un telegramma, non poteva non mostrare il viso preoccupato - l'invecchiamento della speranza. Ma, allora, fosse quel che fosse, il Bambino, taciturno con se stesso, testardo di solo amore, aveva bisogno di ripetersi: che la Madre era sana e stava bene, la Madre era salva!
D'un tratto, sentì che, per consolarlo, concertavano il modo di prendere il tucano: con lacci, sassata sul becco, colpo di fucile nell'ala. No e no! - si arrabbiò, afflitto. Ciò che immaginava, ciò che voleva, non poteva essere quel tucano, catturato. Ma la prima fine luce del mattino, con, dentro, il volo esatto.
Lo iato - quel che egli era già in grado di intendere con il cuore. Il giorno dopo, il successivo. Quando l'uccello, il suo rilucere, ogni volta, era un giocattolo gratuito. Così come il sole: di quella particella scura all'orizzonte, subito frantumata in fulgore e simile al guscio di un uovo - al termine dell'appianata oscura immensità del campo, dove lo sguardo avanzava come il distendersi di un braccio.
Lo Zio, intanto, davanti a lui, si fermò senza dire parola. Il Bambino non volle capire nessun pericolo. Dentro di quel che era, disse, ridisse: che la Madre non era mai stata malata, era nata sempre sana e salva! Il volo dell'uccello lo abitava di più. Il pupazzetto scimmiottino era quasi caduto e perduto: stava già con il musetto puntuto e metà corpo fuori della tasca, a curiosare! Il Bambino non gli aveva mosso rimprovero. Il ritorno dell'uccello era emozione inviata, impressione sensibile, un traboccamento del cuore. Il Bambino lo conservava, nella fuggevolezza, a memoria, in felice volo, nell'aria sonora, fino a sera. E poteva servirsene per consolarsi con, e disaffliggersi, per eludere la stretta del rigore - di quei giorni quadrettati.
Il quarto giorno, arrivò un telegramma. Lo Zio sorrise, molto forte. La Madre stava bene, guarita! L'indomani - dopo l'ultimo sole del tucano - sarebbero tornati a casa.

LO SMISURATO MOMENTO

E, poco dopo, il Bambino guardava, dal finestrino, le nuvole di bianco sfilacciarsi, il veloce nulla. Frattanto, si attardava in una nostalgia, fedele alle cose di là. Del tucano e dell'albeggiare, ma anche di tutto, in quei giorni così peggiori: la casa, la gente, la foresta, la jeep, la polvere, le notti opprimenti - tutto ciò si affinava, ora, nel quasi-azzurro del suo immaginare. La vita, proprio, non si arrestava mai. Lo Zio, con un'altra cravatta, che non era quella così bella, per la fretta di arrivare guardava l'orologio. Infrapensava il Bambino, già quasi alla frontiera soporosa. Una subita serietà gli faceva il visetto più lungo.
E, quasi in un sussulto, si angustiò: il pupazzetto scimmiottino non era più nella sua tasca! Aveva dunque perduto il suo compagno scimmiottino! ... Come era stato possibile? E ecco, gli sgorgavano le lacrime.
Ma il pilota venne a portargli, per consolazione, una cosa: "Guarda che ho trovato, per te" e era, ben stirato, il cappellino rosso, dalla piuma alta, che lui, l'altro giorno, aveva buttato via!
Il Bambino non poté più tormentarsi a piangere. Soltanto il rumore e lo stare nell'aereo Io stordivano. Tenne in mano il cappellino solo, lo lisciò, se lo mise in tasca. Ma il suo amichetto scimmiottino non era perduto, nel senza-fondo buio del mondo, per sempre. Certamente, stava passeggiando solo laggiù, alla ventura e venturo, dall'altra parte, dove le persone e le cose sempre andavano e tornavano. Il Bambino sorrise di quel che sorrise, secondo come d'improvviso si sentiva: fuori del caos pre-iniziale, come lo sgomitolarsi di una nebulosa.
E era l'indimenticabile improvviso, di cui si poteva morire, e la calma, inclusa. Durò un non-nulla, come la paglia si disfa, e, di solito, non arriva a entrare in noi: paesaggio, e tutto, fuori dalle cornici. Come se lui stesse con la Madre, sana, salva, sorridente, e tutti, e lo Scimmiottino con una bella cravatta verde - nel portico del cortiletto dagli alti alberi ... e sulla jeep dai bei sobbalzi ... e dovunque ... ma nello stesso istante ... il primo punto del giorno ... da dove assistevano, nel tempo-su-tempo, al sole nel rinascere e al volo, ancora molto più vivo, armonioso e esistente - immobile da non finire - del tucano, che viene a mangiare i piccoli frutti sulla vetta dorata, nelle alte valli dell'aurora, lì vicino alla casa. Solo questo. Solo tutto.
"Siamo arrivati, finalmente" disse lo Zio.
"Ah, no. Ancora no ..." rispose il Bambino.
Sorrideva chiuso: sorrisi ed enigmi, i suoi. E veniva la vita.




(Racconto tratto dal libro La terza sponda del fiume, Oscar Mondadori, 1988, traduzione di Giulia Lanciani.)


Joćo Guimarćes Rosa




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