RITORNO SUL DON

( - un brano del romanzo - )


Mario Rigoni Stern

 



(...) Viaggiammo tutto il pomeriggio, e la notte, e il giorno dopo. Durante il viaggio ci fermammo brevemente un paio di volte per muovere le gambe indolenzite e cercare acqua per la bocca arsa e polverosa. In un villaggio abbandonato c'erano migliaia di oche che sguazzavano negli stagni e scendemmo velocemente a far bottino poiché eravamo anche senza viveri.
Mentre i camion correvano nella steppa, noi, dentro i cassoni e tra i sobbalzi che ci facevano sbattere uno contro l'altro, spennammo le oche. E lungo la pista, come leggeri fiocchi, restavano nell'aria le piume bianche.
Prima di sera arrivammo in prossimità della linea; davanti a noi, dicevano, avrebbero dovuto esserci dei reparti di fanteria, ma il cielo e la terra erano così vasti e vuoti che avevo la sensazione di essere dentro una voragine infinita.
Venni assegnato di ricognizione con la mia squadra, ma non c'era proprio niente da riconoscere poiché ogni luogo era uguale, e, tranne le starne che si alzavano rumorosamente in volo al nostro camminare guardingo, non vedemmo essere vivente.
Il battaglione si schierò a difesa sparpagliandosi tra le alte erbe e la nostra compagnia venne assegnata di rincalzo. Ma era rincalzo oppure avanguardia? e dov'era il nemico? Attorno a noi non c'era assolutamente nessuno.
Il vento della notte agostana dondolava l'erba e ci portava il canto delle quaglie. All'alba, spingendoci lontano, scoprimmo una decina di isbe dentro un avvallamento dove affiorava l'acqua; ma anche lì non era rimasto nessuno e scavammo negli orti abbandonati per tirar fuori le patate, che mettemmo a cucinare nelle gavette con i pezzi d'oca. Si parlava sottovoce perché ci sembrava di disturbare quella profonda quiete.
Non piantammo le tende e giacevamo nascosti tra le erbe. A sera rimettemmo in spalla gli zaini. Ancora con fretta; e camminammo e camminammo senza sostare, fino a notte fonda, e ancora.
Per dove? E chi lo sapeva dove andavamo. Ora, guardando una carta geografica, ricostruendo quei giorni e leggendo le storie ufficiali, so che eravamo nella grande ansa del Don, dove il fiume sembra voler congiungersi con il Volga e scendere giù nel Caspio, e invece, dopo, gira improvvisamente verso sud-ovest per sfociare nel Mare d'Azov.
Si camminava in silenzio, quella notte, stanchi, assonnati. Radio scarpa diceva che dovevamo entrare in combattimento assieme a un reggimento di tedeschi, per cercar di prendere alle spalle un reparto russo che premeva contro un caposaldo circondato. Diceva anche, radio scarpa, che una divisione di fanteria era stata sopraffatta e messa in fuga, e che noi dovevamo riprendere le posizioni.
Quando improvvisa scoppiò la battaglia noi stavamo risalendo un profondo calanco. Era caldo là dentro, e buio. Sopra di noi passarono sibilando i primi colpi d'artiglieria che andavano ad esplodere fuori nella steppa. Poi pallottole traccianti, raffiche di mitragliatrici e di parabellum, granate. Udimmo anche sferragliare di carri armati e gridare.
Ci stendemmo giù in silenzio con il cuore che batteva forte. Ma non si capiva dove potevano essere amici o nemici; o cosa dovevamo fare noi. C'erano caldo, afa, scoppi, strisce luminose nel cielo sopra le nostre teste, che cercavamo di tenere rannicchiate tra spalle ed elmetto.
Camminammo ancora avanti dentro il calanco, seguendo il combattimento che si spostava. Ma verso dove? fuori. In su, forse, o in giù. Noi eravamo sempre dentro il profondo calanco. Passarono parola di mettere la baionetta in canna e di posare gli zaini. Venne impressionante il silenzio che faceva sentire il vento leggero che scuoteva le erbe della steppa.
Ritornammo indietro camminando il resto della notte e parte del mattino, finché giungemmo dove eravamo la sera prima. Tutto sembrava un sogno; solo che un sogno non poteva lasciarti questa mortale stanchezza.
Alle quattro del pomeriggio vennero ancora dei camion a caricarci; gli autisti erano preoccupati e ci facevano fretta. Dissero che ci riportavano dove era il nostro reggimento, più a nord; avremmo trovato anche i battaglioni Cervino e Tirano, e la cavalleria.
Era il pomeriggio di una domenica estiva; immaginavo la gente che sulle spiagge dell'Adriatico faceva i bagni, gli escursionisti che in Valle d'Aosta e nelle Dolomiti ritornavano dalle ascensioni e al mio paese gli amici che andavano al cinema con le ragazze. Noi, dentro i camion, sballottati e pieni di sonno e di fame andavamo in nessun luogo, dentro l'abisso della steppa.
Doveva andare il Tirano al nostro posto, invece toccò al Vestone per qualche fatalità della naia e della guerra. Nel mio notes di allora trovo scritto: "Sistemati in posizione di appoggio - ci muoveremo in avanti presto", e dopo, scritto in matita perché forse avevo perduto la penna stilografica: "Domattina andremo all'assalto".

Spunta l'alba del 1° settembre e ne sta uscendo una giornata limpida e chiara. Siamo raccolti dentro un avvallamento sul fianco di una mugila; poco avanti, nell'erba come noi, sono i tre plotoni fucilieri, e un poco dietro il capitano con il plotone comando. Ma sono arrivati anche i bersaglieri con i carri Elle, le scatole di sardine, e la chimica con i lanciafiamme. Intanto, per mimetizzarci, sporchiamo l'elmetto con la terra bagnata d'orina.
Controllo i quattro mortai da 45 della mia squadra, e le munizioni, le bombe a mano, le cartucce. Moreschi è piuttosto tetro e nel distribuire i due cucchiai di cognac a testa, come una comunione, non ha voglia di scherzare. Tourn mi ammicca, ma senza brio; in testa gli balla l'elmetto e raccomando di legarselo ben stretto. Zugni si prova il mortaio sulle spalle aggiustandosi bene gli spallacci: su quella schiena così larga il mortaio sembra un giocattolo per bambini. Le reclute come Dotti, Monchieri e Cappa cercano di darsi un contegno: per loro sarà la prima volta.
Anche il sergentemaggiore Cavalieri, vicecomandante del nostro plotone e vecchio dell'Albania, controlla le tre pesanti.
Il tenente, che è appena tornato dal rapporto ufficiali, ci raccomanda di tatticare per gruppo di tiro e di non fermarci a raccogliere i feriti. A questi, dice, ci penserà il plotone comando, dietro. Si parla anche che alla nostra destra manovrerà il Val Chiese e persiano un reggimento di carri armati tedeschi, e gli aeroplani Stukas, e tanta artiglieria. Insomma non dovrebbe essere dura anche se il terreno è tutto nudo.
Quando i plotoni fucilieri escono dall'erba a squadre sparse, pure il sole è tutto fuori. Un sole caldo e gioioso, e mi godo la sua luce.
Hanno già superato il dosso e vedo gli elmetti con la penna di legno tinto sparire dall'altro versante; ci passano accanto i carri Elle e il plotone della chimica. Il tenente grida: - In piedi! Plotone pesante, avanti! Avanti, tocca a noi!
Si sente qualche scoppio di mortaio. Forse sono i nostri che fanno il tiro d'accompagnamento. Cavalleri esce dall'erba con la prima squadra mitraglieri, poi Storti con la sua, noi. - Andiamo, - dico, - in piedi.
Camminiamo svelti e curvi e siamo subito sul dosso, allo scoperto, nel mattino di sole. Sento distinti dei colpi in partenza, leggeri come fucilate di cacciatori lontani: - Corriamo svelti, - dico. Ma i colpi ci sono sopra, ci vengono incontro come un treno che corre nel cielo, e cosi, ancora su quattro file distanziate, ci buttiamo per terra, teste contro piedi.
Scoppiano tra squadra e squadra, con bagliore più forte del sole, e mi riparo la testa con le braccia facendomi piccolo. Dopo il bagliore le schegge sibilanti che tagliano l'erba e grumi di terra che mi cadono sulla testa e sulla schiena. Odore acre e fumo. - Avanti! Avanti, via! - urla il tenente.
Mi alzo sulle braccia; vedo laggiù davanti i fucilieri che avanzano, i carri Elle, l'erba e il sole sull'erba.
Attorno sento lamenti, ancora scoppi, urla. - Andiamo, - dico, - andiamo avanti, muoviti.
Ma l'alpino che scuotevo per il braccio aveva un piccolo foro sotto l'orlo dell'elmetto e non respirava più. Gridando "Portaferiti!" più volte, sento che la voce mi si strozza in gola per quel fumo acre e denso. Mi agito gridando "Portaferiti! Portaferiti! ", e sento il tenente gridare anche lui "Avanti, via! I portaferiti vengono".
Storti si sorregge sulla terra puntando i pugni: tutt'intorno è rosso di sangue e di sole e Storti mi dice: - Te', Rigoni, accendimi una sigaretta -. Gliela accendo e gliela metto tra le labbra: - Coraggio, - gli dico, - verranno a prenderti subito e andrai in Italia. - Ciao, - mi risponde, - ti saluto -. E lo lascio morire così. (...)






(Tratto da Il sergente nella neve / Ritorno sul Don, Einaudi, Torino, 1973)


Mario Rigoni Stern


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