IN COLLISIONE CON LA MORTE

- Entrare in collisione con la morte a 11.000 metri e sopravvivere -


Joe Sharkey



SÃO JOSÉ DOS CAMPOS, Brasile, 1 ottobre 2006 - Era stato un volo molto tranquillo. A bordo di un jet privato da 25 milioni di dollari, che stava volando a 11.000 metri di altezza sopra l'enorme distesa della foresta amazzonica, mi stavo godendo un po' di relax seduto al mio posto, nella poltrona di pelle, con la tendina del finestrino abbassata. Il jet poteva portare fino a tredici persone, ma a bordo eravamo in sette, e ce ne stavamo ognuno per conto nostro.
All'improvviso ho avvertito uno scossone tremendo e ho sentito uno schianto, seguito da uno strano silenzio, salvo il rumore dei motori in sottofondo.
E poi le tre parole che non dimenticherò mai. "Siamo stati colpiti," ha detto Henry Yandle, uno degli altri passeggeri, che si trovava in piedi nel corridoio, vicino alla cabina di pilotaggio del jet Embraer Legacy 600.
"Colpiti? E da cosa?," ho pensato. Così ho alzato la tendina. Il sole basso nel cielo terso, la foresta che si estendeva a perdita d'occhio. E sull'ala, proprio in fondo, nel punto esatto in cui si sarebbe dovuta trovare l'aletta, dell'altezza di un metro e mezzo circa, una specie di cresta alta una trentina di centimetri, con il bordo tutto frastagliato.
È così che è cominciata la mezz'ora più terribile della mia vita. Nei giorni successivi non avrebbero fatto altro che ripetermi che a una collisione in volo non si sopravvive mai. Che ero fortunato ad essere vivo. (Al contrario delle 155 persone imbarcate, su volo interno, a bordo del 737 che a quanto pare ci aveva colpiti. Ma questo l'avrei saputo solo in seguito.)
Gli investigatori stanno ancora cercando di capire che cosa sia accaduto, e come sia potuto succedere che il nostro jet, molto più piccolo dell'altro, sia riuscito a rimanere in volo mentre il 737, un aereo più lungo, più largo e tre volte più pesante del nostro, cadeva giù dal cielo in picchiata.
Ma alle 15:59 di venerdì scorso tutto quello che vedevo, tutto quello che sapevo era che una parte dell'ala non c'era più. Ed era chiaro che la situazione sarebbe peggiorata rapidamente. Dal bordo d'attacco dell'ala stavano venendo via i bulloni, e il metallo stava già cominciando ad aprirsi piegandosi all'indietro su se stesso.
La cosa più strana è stata che nessuno di noi si è fatto prendere dal panico. E tanto meno i piloti che con calma, esaminando strumenti e carte geografiche, o anche guardando in basso attraverso i vetri, si sono messi a cercare nei paraggi tracce di un aeroporto, di un posto dove atterrare.
Ma più passavano i minuti, più l'aereo perdeva velocità. A quel punto eravamo tutti consapevoli di quanto la cosa fosse grave, e io mi stavo domandando quale sarebbe stata l'entità del dolore nel caso fossimo ammarati - per essere ottimisti e non usare il termine 'schiantati'.
Ho pensato alla mia famiglia. Recuperare il cellulare e provare a telefonare non sarebbe servito a niente, non c'era campo. Insieme al sole stavano tramontando anche le nostre speranze, e qualcuno di noi si era messo a scrivere messaggi alla persona amata, ai propri cari. Per poi metterli nel portafogli, confidando che in seguito potessero essere ritrovati.
All'inizio del volo, anch'io mi ero preoccupato di buttar giù qualche riga; di tutt'altro genere, però. Da sette anni mi occupo della rubrica "Sulla Strada", presente ogni settimana nella sezione 'viaggi e affari' del New York Times. Ma sull'Embraer 600 mi trovavo in qualità di libero professionista, per conto della rivista Business Jet Traveler.
Tra gli altri passeggeri c'erano alcuni dirigenti dell'Embraer e dell'Excel Aire, la compagnia di noleggio che aveva da poco acquistato il jet. Era stato David Rimmer, vice presidente dell'Excel Aire, a invitarmi a fare il viaggio di ritorno a bordo del jet di cui la sua compagnia era appena entrata in possesso, alla sede centrale che l'Embraer aveva proprio qui.

E fino ad allora era stata una passeggiata. Poco prima che fossimo colpiti mi ero spinto fino alla cabina di pilotaggio e avevo parlato coi piloti. L'apparecchio si stava comportando benissimo, dicevano. Ricordo di aver letto sull'indicatore la cifra che misurava la nostra altitudine: 37.000 piedi.
Ero da poco tornato al mio posto quando c'è stato lo scontro (in seguito al quale, come abbiamo saputo più tardi, anche la coda era stata in parte troncata).
Appena successo il fatto non ci siamo quasi scambiati parola.
Il Signor Rimmer, un omone, era davanti a me nel corridoio e, accovacciato di fronte al finestrino, fissava l'ala che era stata appena danneggiata.
"È molto grave?" gli ho chiesto.
Lui mi ha guardato fisso e ha detto: "Non lo so."
Allora ho guardato i piloti. I loro movimenti parlavano da soli: erano come soldati, tutti e due all'opera per togliersi dai guai, proprio come erano stati addestrati a fare.
Per i venticinque minuti che sono seguiti, i piloti Joe Lepore e Jan Paladino hanno continuato a scandagliare gli strumenti in cerca di un aeroporto. Ma non hanno trovato niente.
Intanto hanno lanciato il Mayday, raccolto da un cargo che si trovava più o meno in quella zona. Non eravamo entrati in contatto con nessun altro velivolo che stesse volando nel nostro stesso spazio aereo, e tanto meno con un 737, questo è certo.
Poi, attraverso la cortina sempre più scura e fitta degli alberi, il signor Lepore è riuscito a scorgere una pista d'atterraggio.
"C'è un aeroporto, lo vedo", ha detto.
Così hanno provato a mettersi in contatto con la torre di controllo di quella che si è poi rivelata una base militare, nascosta nel cuore dell'Amazzonia. Hanno eseguito una virata molto ampia, per evitare di sollecitare troppo l'ala danneggiata.
Mentre si avvicinavano alla pista sono riusciti finalmente a mettersi in contatto con la stazione di controllo.
"Non sapevamo quanta pista avessimo a disposizione, né se fosse sgombra," avrebbe detto il signor Paladino più tardi quella sera, alla base di Cachimbo nella giungla.
Siamo venuti giù molto veloci. Vedevo che, con la maggior parte dei comandi automatici fuori uso, i piloti faticavano a manovrare. Eppure sono riusciti a fermare l'aereo molto prima che la pista finisse. Così noi, barcollando, abbiamo tutti raggiunto l'uscita.
"Bel volo," ho detto ai piloti mentre passavo loro davanti. A dire la verità, dopo 'bel volo' ho aggiunto altre due parole che però non posso scrivere.
"Alla prossima," ha risposto il signor Paladino con un sorriso tirato.
Più tardi quella sera, alla base militare ci hanno dato qualcosa da mangiare e birra fredda da bere. Non smettevamo di fare ipotesi su cosa potesse aver causato l'impatto. Un pallone sonda sfuggito al controllo? Un caccia in volo acrobatico il cui pilota si fosse poi lanciato col paracadute? Un aereo di linea che fosse esploso nelle vicinanze e i cui detriti ci avessero investiti?
Ma qualunque fosse stata la causa, era ormai chiaro che eravamo rimasti coinvolti in un vero e proprio scontro in volo, al quale nessuno di noi sarebbe dovuto sopravvivere.
"Magari siamo tutti morti per davvero e questo è l'inferno," ho fatto io. "Rivivere in eterno le lunghe discussioni che facevamo al college, con le lattine di birra in mano". Ci trovavamo nel capannone adibito a dormitorio, dove avremmo passato la notte, e io mi ero lasciato andare per un attimo all'umorismo nero.
Verso le 19:30 Dan Bachmann, un dirigente dell'Embraer e l'unico di noi che parlasse il portoghese, ci ha raggiunti a mensa con le ultime notizie dall'ufficio del comandante. Un Boeing 737 con 155 persone a bordo era dato per disperso, proprio nel punto in cui il nostro aereo era stato colpito.
Fin o a quel momento ci eravamo tutti sentiti uniti, ci eravamo scambiati continue battute su quanto vicina fosse stata la nostra chiamata. Eravamo diventati i Sette dell'Amazzonia e d'allora in poi avremmo vissuto un tempo prezioso, un tempo che non ci apparteneva più, ma di cui, in qualche modo, ci eravamo riappropriati. E ogni anno ci saremmo riuniti per raccontarci come lo stavamo impiegando, quel tempo.
Ma adesso era diverso. Abbiamo tutti abbassato la testa e siamo rimasti a lungo in silenzio, a soffocare le lacrime.
I piloti, che sono tutti e due piloti di jet e hanno esperienza, sono stati messi a dura prova e ne sono usciti molto scossi. Il signor Lepore, quarantaduenne di Bay Shore, N.Y., continuava a ripetere: "Se proprio doveva venir giù qualcuno, sarebbe dovuto toccare a noi".
Il signor Paladino, che ha trentaquattro anni ed è di Westhampton, N.Y., non riusciva quasi a parlare. "Tutte quelle persone morte. Sto cercando di capacitarmene e sento che comincia a farmi davvero male", ha detto.
Allora è stato il signor Yandle a dire: "Ma voi siete degli eroi. Ci avete salvato la vita". E loro hanno risposto con un sorriso stanco. Ormai era chiaro che si sarebbero portati dietro quel peso per sempre.
Il giorno seguente, le autorità brasiliane incaricate di indagare sulle cause dell'incidente e di dirigere le operazioni di ricerca del 737 precipitato hanno letteralmente invaso la base. A detta di uno degli ufficiali, i resti dell'aereo dovevano trovarsi più a sud, a meno di 100 miglia da noi, e potevano essere raggiunti solo a piedi, facendosi strada a colpi di bastone nella fitta vegetazione della giungla.
Sebbene gli investigatori lo stessero esaminando, ci è stato ugualmente permesso di accedere al nostro aereo. Ralph Michielli, vice presidente del settore manutenzione dell'Excel Aire, e anche lui con me sull'aereo, ha voluto che salissi su un sollevatore perché vedessi il punto in cui l'ala era stata danneggiata, accanto all'aletta troncata.
Uno dei pannelli vicini al bordo d'attacco dell'ala si era alzato di trenta centimetri buoni. Più vicino alla fusoliera, delle macchie scure indicavano che c'era stata fuoriuscita di carburante. Parti dello stabilizzatore della coda erano andate distrutte, e all'equilibratore sinistro mancava un pezzo.
Accanto a me c'era un ispettore brasiliano che, con mia grande sorpresa, si ostinava a voler parlare, per quanto la nostra conversazione fosse limitata dal suo inglese scarso e dal mio portoghese inesistente.
Stava facendo ipotesi sull'accaduto, ma quello che in effetti mi ha detto è questo. È inspiegabile, eppure tutti e due gli apparecchi volavano alla stessa quota, nello stesso spazio aereo. I piloti del 737 diretto verso sud-est avevano individuato il nostro Legacy 600, che stava volando in direzione nord-ovest verso Manaus, e avevano virato di colpo per evitarci. Nel virare, l'ala del 737 ci era passata sfrecciando tra l'ala e la parte alta della coda, colpendoci due volte. Poi l'aereo più grande era caduto, avvitandosi su se stesso in una spirale mortale.
Detta così sembrava una cosa impossibile, lo riconosceva anche l'ispettore. Eppure ha ammesso: "Credo che sia andata proprio in questo modo." Nessuno può dire con certezza quale sia stata la dinamica dell'incidente, ma altri tre ufficiali brasiliani mi hanno riferito di essere stati informati del fatto che i due aerei stavano volando alla stessa altitudine.
Ma allora com'era possibile che io, il più vicino di tutti al punto d'impatto, non avessi sentito niente, nemmeno il rombo di un 737?
L'ho domandato a Jeirgen Proust, collaudatore dell'Embraer. È stato il giorno seguente, quando, a bordo di un aereo militare, ci hanno trasferiti in una centrale di polizia di Cuiabá. Qui le autorità hanno rivendicato la propria giurisdizione e piloti e passeggeri del Legacy 600, me incluso, sono stati interrogati fino all'alba da uno scrupoloso capitano di polizia e dai suoi interpreti.
Il signor Proust ha tirato fuori una calcolatrice e ha iniziato a battere veloce sui tasti per calcolare quanto tempo avremmo avuto a disposizione, se ci fossimo trovati a bordo di un jet, per sentire il rombo di un'altro jet in avvicinamento, nel caso in cui tutti e due gli aerei fossero volati alla velocità di 500 miglia orarie e in direzioni opposte. Mi ha fatto vedere il risultato e ha detto: "Addirittura meno di una frazione di secondo". Tutti e due abbiamo guardato i piloti, che erano sdraiati sui divani dall'altro lato della stanza.
"Questi due uomini e quell'aereo ci hanno salvato la vita", ho fatto io.
"In base ai miei calcoli," ha convenuto lui.
Più tardi ho pensato che forse anche il pilota dell'aereo di linea brasiliano ci aveva salvato la vita, grazie agli ottimi riflessi che aveva dimostrato di avere. Quanto vorrei che anche i suoi passeggeri potessero dire lo stesso.
Alla centrale di polizia ci hanno fatto scrivere su un foglio nome, indirizzo, data di nascita, professione e titolo di studio, e pure il nome dei nostri genitori. Ci hanno anche sottoposto tutti a visita medica. Il medico aveva i capelli lunghi e portava un camice bianco che gli arrivava quasi fino agli stinchi. Poi ci hanno fatto spogliare fino alla vita e ci hanno fotografato davanti e dietro.
Il medico, di cui non sono riuscito a capire il nome, ma che presentandosi mi ha detto di essere un 'medico legale', mi ha spiegato che sarebbe tutto servito a provare che non eravamo stati torturati 'in alcun modo'.
Per quanto cercassimo di evitarlo, abbiamo ricominciato a fare dell'umorismo nero.
"Questo qui è il coroner," ha sottolineato poco dopo il signor Yandle. E poi ha aggiunto: "Mi sa che siamo morti sul serio".
Ma di ridere davvero, adesso non eravamo più capaci. Non potevamo far altro che pensare ai corpi dispersi nella giungla e ancora in attesa di essere identificati. A come le loro e le nostre vite si fossero letteralmente e metaforicamente intersecate in quella terribile frazione di secondo.




(Tratto dal The New York Times del 30 Ottobre 2006. Traduzione di Federica Merani.)




Joe Sharkey è un conosciuto giornalista statunitense.



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