CHE C'E' PER CENA?


Tommaso Chimenti




I miei mi avevano fatto studiare proprio per non essere ciò che ero diventato. Una mattina, quasi per caso. Giù al cantiere sotto la ferrovia cercavano gente, manovali forti. Dovevano costruire altre tre file di case popolari altre sette piani. Praticamente dei loculi con le finestrelle in alto. Erano dei parallelepipedi tutti bianchi con un campo da basket proprio in mezzo. Ero passato nelle settimane precedenti lì davanti decine di volte.
Il cancello arrugginito chiuso male e dietro una distesa di pozzanghere marroni e sterpi alti come me. Roba secca e informe che si estendeva giù per centinaia di metri. Sul cartellone gigantesco in compensato affisso fuori c'era il disegno di come sarebbe diventata quell'area. I disegni erano sempre migliori della realtà. C'erano signori con il cappotto ed il cappello che passeggiavano con il cane a guinzaglio, la signora con l'impermeabile rosso, i giardinetti curati e rasati, verde sgargiante come il pistacchio.
Mi ero fermato proprio sotto e stavo con il naso all'insù. Stavo controllando l'accuratezza dei tratti, la pulizia del segno del disegnatore. "Hei cerchi qualcuno?", mi fece un uomo da lontano mentre si avvicinava al cancello che ci separava. "No, no, guardavo soltanto", gli avrei voluto rispondere quasi scusandomi d'essermi fermato. Ma non ne ebbi il tempo. "Se cerchi Sergio per le assunzioni è là in quel casottino grigio in fondo al campo", disse quasi senza accento ed indicando una casupola malferma che spariva in mezzo a quel nulla. Sembrava un campo di battaglia. Una distesa brulla con alle spalle la ferrovia e davanti a sé uno stralcio dell'aeroporto.
La lingua d'asfalto costeggiava la fine del campo e la delimitava. Gli aerei sarebbero passati sulle teste di questa gente decine di volte al giorno. Partenze ed arrivi. Tanto erano case popolari. La casettina era squallida come tutto il resto quindi la sua vista non mi disturbò più di tanto. Misi il motorino sul marciapiede e tirai su il cavalletto. Una volta avevo beccato una multa proprio per sosta sul marciapiede. Un anziano della casa di fronte chiamò i vigili e disse che era lo stesso motorino che tutti i giorni sostava davanti a casa sua. Io ero passato a trovare un amico per un quarto d'ora. Ogni singolo minuto mi costò tre euro.
L'uomo che mi aveva dato le indicazioni aveva intanto invertito la rotta. Lo stavo osservando di schiena mentre anche lui raggiungeva quello che in quel deserto doveva essere il cuore pulsante dell'operazione. Aveva dei jeans ed un maglione rosso tutto slargato in vita che gli faceva da gonnellino. Sembrava avesse i fianchi larghi. Ero rimasto fuori dal cancello. L'uomo poco prima di girare la maniglia della casetta in amianto mi indicò con il braccio teso un'altra entrata sulla mia sinistra. Disse anche qualcosa ma era troppo lontano perché riuscissi a sentirlo. Vidi il labiale che si muoveva. Proseguii verso sinistra e trovai un'apertura nella recinzione, roba da prendersi il tetano a sfiorarlo. Era proprio un buco rudimentale fatto con le cesoie. Ci si doveva chinare ed abbassarsi per entrare. Quasi inginocchiarsi.
Da dentro quelle sbarre ed inferriate il viale era un'altra cosa. Più mi allontanavo dal mio motorino, dal marciapiede, dall'asfalto e più i rumori si facevano rarefatti. La visuale in avanti poteva essere la frontiera americana tutta da scoprire ed esplorare, indietro invece non bisognava guardare mai. Misi le mani nelle tasche del cappotto e mi incamminai cercando di scavalcare fango, fazzoletti usati e zolle increspate. Sembrava la strada di sabbia e mota per arrivare al castello di Mont Saint Michel.
In tre minuti raggiunsi il gabbiotto metallico. Sembrava che da un momento all'altro le raffiche di vento che improvvise si abbattevano su quel nulla dimenticato da Dio ne avrebbero divelto il tetto ondulato. Già mi immaginavo di vedere la scena dall'alto. Una scrivania, due sedie malferme ed una lampada, fogli sparsi con scritte incomprensibili. Il tetto s'alza e vola come ghigliottina. Una scheggia impazzita che tormenta per dieci minuti il quartiere. Rotea in aria come un mulinello, come un boomerang, una lama di falce, una roncola. Gira su se stessa e controlla il campo. Dentro gli uomini, Sergio e l'uomo dal maglione rosso, guardano stupefatti il cielo. "E' un segnale", direbbe certamente Sergio confuso nella sua barba. Sempre con la testa verso le nuvole grigie l'altro uomo avrebbe risposto: "Dobbiamo proprio costruirle qui queste case?".
Ancora pochi passi mi dividevano dal cubo di ferro innalzato come totem al centro di quell'orto arido. Controllai se le chiavi erano in tasca, feci le corna con la mano destra mentre mi toccavo i testicoli, mentre con la sinistra incrociavo l'indice ed il medio toccando l'acciaio dell'orologio. Prima d'entrare mi feci anche il segno della croce. Tirai fuori la destra dal pastrano di velluto beige e bussai deciso. Due colpi. Toc toc.
"Avanti", disse da dentro una voce maschile annoiata. Forse ero il duecentesimo di quel pomeriggio che andava da lui a chiedere informazioni su quel lavoro. Aprii la porta e salii il gradino improvvisato con due mattoni sbertucciati sugli angoli. Entrai guardandomi intorno. Vedendolo da quella prospettiva dentro non era così minuscolo e claustrofobico come da fuori immaginavo. Sulla destra in fondo c'era una scrivania in legno chiaro ed una sedia in finta pelle con le rotelle ed un uomo che ci si dondolava in avanti. A guardarlo fisso faceva venire il mal di mare. Sulla sua sinistra una stufetta che buttava un gettito continuo d'aria calda. Doveva essere bollente. L'orecchio sinistro del tipo al tavolo era incandescente. Ci si sarebbero potute cuocere due uova sopra.
Davanti al tavolo due sedie. Era tutto come me l'ero immaginato ma molto più umano e confortevole. Non sarebbe stato male vivere lì per un po', in un mondo da cow boy, la natura desolata ed incontaminata fuori, uscire sul gradino e guardare da lontano la vita che sfreccia sul cemento distante, tirare un bastone al tuo cane e rientrare. Mettere le mani alla stufa e far finta che sia un camino. Per una brandina ripiegabile il posto si poteva trovare. Mi chiusi la porta alle spalle. L'uomo che avevo visto al cancello stava seduto nella poltroncina sghemba alla destra di Sergio.
Si voltò appena e fece un cenno impercettibile con la mano come a dire che mi aveva riconosciuto. Rimasi lì in piedi davanti alla porta chiusa dietro di me. Le mani in tasca. "Dimmi?!" fece Sergio alzando gli occhi nella mia direzione. Non tirò su la testa ma soltanto gli occhi si mossero vero l'alto. Aveva un collo taurino e stava scrivendo qualcosa su alcuni fogli prestampati. Notai che era mancino. "Si dice che chi è mancino sia più intelligente della media", avrei voluto dire senza un perché. E senza un perché comunque non lo dissi.
"E' qui per l'assunzione" disse l'uomo con il maglione slabbrato come un tutù. Sergio fermò la mano e stavolta tirò su la testa.
"Lo hai portato un curriculum?" e mandò in avanti mento e naso come a voler specificare che intendeva dire proprio a me.
"Ma quale curriculum, dai Sergio non fare il fiscale", intervenne ancora il vice, "qui ci vogliono soltanto uomini forti e con voglia di lavorare". Anche lui tacque. Tutti e due mi guardavano.
"Chiedigli semmai se è robusto e se ha voglia di spezzarsi la schiena" fece il sottoposto al capo dandomi per un attimo le spalle. Si una branda componibile si sarebbe stata benissimo qui sulla sinistra appena entrati. Avrei potuto togliere le due sediole di fronte al tavolo e ci sarebbe stato posto a sufficienza. Poi la mattina l'avrei richiusa ed appoggiata dietro la piccola caldaia.
"Ah si. Hai voglia di durare fatica e lavorare sodo?". Sergio ora se ne stava con tutta la schiena appoggiata allo schienale reclinabile del suo trono. Doveva aver allungato anche le gambe perché vidi l'uomo in kilt scostarsi un po' di lato.
Li avevo messi a loro agio. Mi stavo abituando alla temperatura del gabbiotto e non volevo più uscirne.
"Ma certo guarda che spalle che ha e poi se non aveva voglia di lavorare non si sarebbe certo presentato!". L'individuo con la maglia sfinita mi fece l'occhiolino come a dire "Tutto a posto, vedrai, non ti preoccupare". Sergio sembrava soddisfatto delle risposte. Mosse il testone in senso affermativo e si appoggiò sui gomiti, gli avambracci sul tavolo quasi a prenderlo per l'intera larghezza, le dieci dita allargate e stirate a ranocchio.
"Mi hai convinto ragazzo. Si comincia domattina", poi fece una pausa e mi squadrò, "Alle otto", ancora stop, "Puntuale", disse Sergione rimettendosi a scrivere calcando forte con la mancina tutta sbilenca. Sembrava che arasse invece di scrivere. Ci metteva violenza e forza in quei solchi sparpagliati. Da lontano sembravano ideogrammi più che parole. Forse geroglifici. Feci un segno con la testa di ringraziamento ma il capo non lo vide neppure.
"Lo accompagno al cancello e gli do le ultime indicazioni" disse il sottoposto allo scribacchino che fece un si con la testa e non distolse l'attenzione sull'ultimo graffito che stava compilando. L'uomo in jeans si alzò, mi passò davanti ed aprì la piccola porta in lamina di ferro. Prima di entrare qui dentro mi sembrava pesantissima, adesso era una lastra sottile che ci divideva dall'intera distesa che si faceva minacciosa.
Il buio intorno si era mangiato a poco a poco la strada ed i palazzi in lontananza. Il colore della terra si mischiava a quella del cielo in un unico manto da presepe senza stella cometa. Le luci colorate di giallo in alto sparse nella parabola visiva attorno al campo sembravano essere sospese con un filo da pesca. A guardarle fisse oscillavano aspettando qualcosa all'amo. O qualcuno. Un treno in lontananza fece vibrare il terreno proprio mentre un aereo atterrava sulla pista a poche centinaia di metri da noi. Sembrava il terremoto ma l'uomo col maglione sfondato non se ne fece un cruccio.
Scese prima lui, poi lo seguii. Si avviò di qualche passo poi disse con il pollice in alto che guardava dietro le sue scapole: "Chiudi la porta". Poi si sentì lo sbam del ferro sulla lastra di metallo. "Bravo" e continuò la marcia. Aveva passi decisi e procedeva come se quel sentiero l'avesse solcato lui a forza di passarci. Io seguivo il tallone del suo piede di riporto che a mala pena si riusciva a riconoscere. Due sub che cercano di ritornare in superficie. I rumori aumentavano d'intensità.
Il vice mi riportò al buco nella rete. Con una mano ne prese un lembo divelto e la tirò a sé. Vidi i calli della sua mano spessi come la cotenna del maiale, rugosi come la pelle dell'elefante. "A Sergio piacciono le persone di poche parole", si fermò ed aspettò che fossi passato tutto dall'altra parte. "A domani", disse mentre mi dava già le spalle. Tornai al motorino. Non c'era neanche un foglietto rosa.
Avevo trovato lavoro ma di sicuro non lo avrei detto a casa. Loro si aspettavano un posto da bancario o dirigente d'azienda "con tutto quello che ti abbiamo fatto studiare". Non penso che "muratore" gli sarebbe andato bene. Forse non avrebbero accettato nemmeno "manovale". Avrei dovuto cercare dei sinonimi più enigmatici. Di dire "operaio edile" non se ne parlava neanche. "Impiegato" sarebbe andato benissimo.
Appena arrivato a casa trovai mia madre che faceva un sacco di segni con le mani. Si sbracciava. Sembrava un mulino olandese. Mi tolsi il cappotto e lo appesi nel ripostiglio. Sul bordo inferiore c'era polvere. Forse qualche macchietta di calcina e fango. Le misi una mano sulla spalla. Improvvisamente lei tacque. Andai a farmi la doccia.
"L'hai già fatta oggi?" mi chiese dal corridoio. La porta la chiudevo sempre a chiave dopo che una volta a sedici anni mi aveva beccato con l'arnese in mano.
"Ti fanno male alla pelle troppe docce. Ti rovinano il ph. Almeno non usare il bagnoschiuma". Era ossessionata con l'idea della mancanza d'acqua sul pianeta, sullo spreco di detersivi, con la raccolta differenziata dei rifiuti, con il riciclare le cose vecchie. Da qualche tempo aveva anche appeso sulla porta della dispensa un poster colorato con un indiano in riva ad un torrente di montagna. L'indiano era un indiano d'America ed era chinato sul greto del fiume e beveva l'acqua con una mano. Ai lati del corso d'acqua si apriva una foresta di abeti o aceri o sequoie. In lontananza, tra i due lati di verde, un cielo limpido e terso. Sotto c'era una scritta inquietante. Ogni volta che la leggevo mi metteva i brividi ed il malumore. "Quando l'uomo avrà finito l'acqua, berrà il petrolio", diceva.
Quando mia madre mi mandava a prendere i pomodori pelati, chiusi ermeticamente nei barattoli di vetro, o la carne nella ghiacciaia, dovevo per forza leggerlo o, anche se non lo facevo, mi ripassavo a mente la frase che mi rimbombava in testa dondolandosi tra le tempie e la nuca, rimbalzando tra il cervelletto e la fronte.
"Non lasciare il bagno in disordine, che l'ho appena finito di pulire!", continuò nel suo monologo dalla cucina. Le sue erano tutte affermazioni. Mai una domanda, mai un dubbio. Ora doveva urlare, ma non sembrava che per lei fosse un peso. Anzi, sono convinto che le piacesse. Lo scroscio mi ripuliva dal freddo.
Dalla camera di mio fratello arrivavano suoni e musica ma non riuscivo a distinguerli. Non lo sopportavo. Non potevo proprio parlarci con uno che confondeva Boy Gorge con George Michael, Michael Jackson con Michael J Fox o con Michael Jordan. A tutto c'era un limite. E poi aveva uno strano modo di parlare. O almeno di coniugare i verbi. Diceva "Che famo? Dove annamo?", nemmeno fosse stato romano. Troncava tutte le finali arrotondando la parola. "Basta che ci si capisca, no?", e non aveva neanche tutti i torti, ma poi continuava: "La comunicazione è capirsi, no?". Faceva anche il professoressino. E poi metteva sempre il "no" in fondo ad ogni sua affermazione. Non lo sopportavo.
Alla tv dicevano che era la tv a rovinare i ragazzini. Come se al cinema ti dicessero di andare a teatro, o allo stadio di andare a vedere la pallavolo. Chiusi il rubinetto dell'acqua calda e constatai che i polpastrelli mi si erano tutti raggrinziti. Sembravano la cellulite suoi fianchi delle donne oppure una città fortificata con tante cerchia di mura intorno. Gocciolavo sul quadrato bianco e liscio. Scostai la tenda.
Mio padre cantava la sua canzone preferita. Doveva essere rientrato da poco perché stava attaccando con l'inizio. "Se stasera sono qui è perché ti voglio bene è perché tu hai bisogno di me anche se tu non lo sai". Comunque almeno era intonato. E poi continuava "Se stasera sono qui è perché so perdonare". Se almeno avesse cambiato canzone sarebbe stato anche accettabile. Ero cresciuto con in testa quella solfa.
Ogni volta che sentivo quella storia ho sempre pensato che quel verso lo riferisse a mia madre. Mi ero sognato che una volta lei tanti anni prima lo avesse tradito e che lui da allora l'aveva si assolta ma aveva deciso di farla impazzire con la goccia cinese di quella canzone tortura. Ogni sera quella cantilena arrivava prima di lui.
Era abitudinario come un panda allo zoo. Entrava, si toglieva il soprabito, lo appendeva all'attaccapanni. Poi andava in camera e si toglieva le scarpe. Si infilava le ciabatte ed andava in cucina dove c'era mia madre di schiena ai fornelli.
"Che c'è per cena?" e le cingeva i fianchi. Sembrava tutto così finto. Chiunque avrebbe potuto recitare quella parte e forse mia madre non se ne sarebbe neanche accorta della differenza. Non si sarebbe neanche accorta di altre mani sulle sue anche. Voleva solamente calore. E amore. Come tutta la famiglia, del resto.


Tommaso Chimenti: Sono nato a Firenze il 12 aprile 1973, laureato alla "Cesare Alfieri" in Scienze Politiche indirizzo Storia del Giornalismo. Giornalista pubblicista, critico teatrale e letterario per "Il Corriere di Firenze" e per siti specializzati quali www.scanner.it ed il Portale Giovani dell'Assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Firenze. Scrivo poesie e racconti e sono stato pubblicato in numerose antologie. Recentemente ho vinto con "La spogliarellista" il concorso "100 parole alla Feltrinelli" (Firenze, maggio '05), con "Autoring" il concorso "Subway" (Milano, maggio '06), con "Bilocale ammobiliato" terzo al "Premio Fragori di Solstizio" (Castiglioncello, giugno '06), con "Occhio ragazzi" terzo al "Premio Castelfiorentino" (giugno '06), con "C'eravamo tanto amati" secondo a "Lama e Trama" (Pordenone, novembre 2006), pubblicato con il racconto "A perfect day" sulla rivista "La Luna di traverso" (Parma, novembre '06), pubblicato con il racconto "Che gelida manina" sul settimanale "Cronaca Vera" (dicembre '06).



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