UNA REALTĀ TSUNAMIANA


Ana Claudia Pinheiro Teixeira





È stato un esilio... davvero un esilio il mio "stage" in Italia. Lo è ancora. E per quanto questa mia affermazione possa suscitare sorprese, indignazioni, contestazioni, critiche, riserve o reazioni di ogni genere, lo posso ripetere ancora: è stato un'esilio. È un'esilio.
Sapete, quando ne sento davvero il bisogno di dire "la mia", non mi importa poi tanto quello che diranno di me. E se sono stupidità, faccio uso di una espressione che ho imparato qui, che dice: "mi rimbalza...".

Quando si scrive, quando si decide di rivelarsi, di esporsi, bisogna per forza prepararsi alle reazioni. Anche perché so di essere una voce dissonante, scomoda e anche un po' tanto marginale riguardo alla maggioranza. Soprattutto riguardo una maggioranza che vive di recita, più che di vita.

Ma questo esilio italiano a cui mi riferisco, e qui qualcuno può anche prendersi una boccata d'aria, ha anche un suo inizio, ed è ovvio. E questo inizio non è stato qui, in territorio italiano. Questo inizio è cominciato proprio in quell' immenso, amato, affascinante e spudoratamente bello Paese chiamato Brasile. È da lì che vengo ed è lì che voglio fare il mio viaggio di ritorno. O come forse posso dire, è lì che voglio compiere la fine del mio esilio.

Probabilmente usare la parola esilio per dare un significato alla mia esperienza personale può provocare alcune sorprese ed interrogativi... siamo stati abituati ad usare questa parola per definire situazioni di persone costrette a fughe da regimi politici di tipo dittatoriale. Ma, a mio avviso, l'esilio riguarda un universo ben più vasto da quello che comunemente intendiamo. Le ragioni sono tante, quasi mai chiare ai nostri occhi, abituati come sono ad angoli di visione molto ristretti.

Io sono stata un'immigrata (detesto questa parola, ma la uso per facilitare la comprensione) fin dai primi giorni di vita. Venti giorni dopo la mia nascita, in una città chiamata Fortaleza, mia madre si è trasferita nella città di mio padre, chiamata Recife. Città dove ho sempre vissuto, ad eccezione di due brevi periodi in due città all'interno del Brasile stesso; fino al settimo giorno del mese di giugno del 1993, quando ho preso l'aereo per venire in Italia. Avevo trent'anni. E nessuno forse se lo immaginava... ma con me avevo anche tanta paura. Arrivare in esilio da grande è faticoso, sapete, tutto già codificato: il tuo modo di agire, di pensare, di sentire, di parlare, di esprimerti.

Comunque, è stata una mia decisione candidarmi per una borsa di studio in Italia. Nessuno mi ha mai messo la pistola in testa. Non pativo la fame, avevo il mio lavoro, abitavo in un bel posto. Se poi, questo periodo di studio, che doveva essere molto breve, di soltanto sette mesi, si è allargato a molti anni, è stato lì che l'esilio ha cominciato a delinearsi. Le ragioni? Sono state tante, come sono stati anche i tentativi di ritorno, ma non intendo raccontarle o chiarirle.

Vorrei parlare però, di questo periodo in Italia e, per quanto possa essere tagliente nelle mie parole, conseguenza di un carattere anch'esso tagliente, desidererei davvero che le mie parole venissero comprese per quel che significano come osservazione di una realtà e non prese come critiche di tipo manicheista: Brasile buono, Italia cattiva. Non è questo che intendo o sento, pur non potendo negare il grande sentimento d'amore che ho per la mia terra. E che, di certo, in qualche buon modo condiziona il mio sguardo sulla realtà, sia essa brasiliana o italiana.

Vi confesso che non poche volte in questi quattordici anni in Italia, mi sono sentita come un uccello al quale sono state tagliate le ali. Mi sono sentita molte volte come un uccello morto, da viva. Mi sono sentita anche seppellita viva, in molte occasioni. Il cambiamento è stato molto più forte di quanto mi potessi aspettare. Le differenze assurdamente grandi. Ero ingenua, sono stata ingenua, sono ingenua. Qualcuno dirà stupida. Affari suoi. Il fatto è che non ho mai immaginato che l'uomo (intendo dire, la razza umana), fosse stato capace di portare a termine, con un tale livello di raffinatezza, una, per me assurda, concezione di superiorità di un popolo sugli altri, così come sono riuscita e forzata a vedere dopo il mio arrivo qui.

E guardate, sono una sociologa. Per anni della mia vita ho studiato e mi sono bruciata il cervello e le notti proprio sui fenomeni sociali, sulle differenze (tra mondi, paesi, culture, persone, razze...), sulla specificità, sui sistemi macro o micro, roba del tipo "sovrastrutture" e altre termini che non servirebbero citare ora né mai, ma servirebbero soltanto a complicare ancora di più le cose. Ma ora ci stavo provando sulla pelle, non più sui libri che leggevo o sulle ricerche che facevo. Era più duro, lo è.

Ma, una domanda: all'università, perché non ci insegnano la furbizia o quantomeno cosa significa l'ingenuità della teoria e le sue conseguenze nella vita di tutti i giorni, prima che uno se ne vada via di lì, fresco di laurea, felice e contento, sollevato tanto, con un pezzo di carta in mano a spaccarsi la testa piena di teoria contro una realtà "tsunamiana"?

Sì, lo so che me lo direte: " Ma questo è compito della famiglia". Ok, d'accordo. Ma ora vi rispondo che la mia famiglia non me le ha insegnate queste cose e mi domando ancora quante saranno quelle che hanno più o meno egregiamente svolto questo loro compito nei confronti della loro prole. So di non essere una persona molto ottimista, ma scusatemi, non credo che tanti di noi abbiano avuto questo, direi, privilegio. Concludiamo dunque, dovendo affermare, che è la vita, in tutta la sua maestosa crudezza che, prima ci macina, poi ci lascia la "scelta" del rimontaggio del pezzi o della polvere rimasta. Io sono ancora in pieno inizio di fase di rimontaggio....

Non è stato facile, come non lo è tuttora, uscire da trent'anni di "solarità" per arrivare al grigiore del cielo, soffocato anche dalle "polveri sottili", al marrone dei ruderi, al nero e al buio dei sotterranei ed agli alberi nudi dell'inverno.

Recife, la mia Recife, madre adottiva di questa immigrata, è luce pura, è sole intenso, è ancora poesia...ancora...e perché ancora? Perché insisto e questo in me è tes-tar- dag-gi-ne: è la povertà che da' ancora vita e poesia a quel Paese, alla mia terra. Non le basterebbe la natura splendida. È la povertà, con tutta la sua crudeltà, ma anche dignità, che colora il Brasile e la sua immagine. Sono i poveri che fanno la differenza per quel Paese e che lo rendono ancora affascinante. È da loro che nasce l'energia e sono loro che la trasformano in vita reagendo ad ogni forma di emarginazione ed esclusione. Sono loro la materia prima delle cose più belle prodotte in quel paese da chi ne ha la voce. Perché la miseria, la povertà, non è solo morte, è anche e soprattutto vita. È fonte di inspirazione per il bene e per la bellezza, anche se spesso e purtroppo, l'inspirazione serva tanto al male, al furto, alla violenza, alla corruzione ed alla distruzione. I ricchi sono insipidi e uguali dappertutto. Qui, lì, ovunque. Questo sì che è globalizzazione, gente omologata ed insulsa. Ma che inspira, certamente. Se non altro, ad un grosso mercato che li disintegra dentro, come l'acido e l'ignoranza.

Quando sono arrivata in Italia, nei primissimi giorni a Roma, d'estate, ricordo ancora che vedevo le donne stratruccate, con degli accessori argentati, dorati e quello mi sorprendeva molto. Pensavo: "Ma non offuscherà il sole tutto questo luccicore indossati dalle donne? Che controsenso". Però, prima che mi chiediate da dove vengo, vi dico che Recife non è un piccolo villaggio di capanne, cosa che potrebbe forse giustificare questo mio stupore, riguardo il modo di vestirsi molto stravagante delle donne in pieno periodo estivo. No, Recife non è una piccola tribu di indigeni. Ed io, per il Brasile, anche in altre città più grandi, avevo già girato un po'. Ma siccome costa tanto, sono sicura che molti di voi lo "conoscete" pure meglio di me.

E poi, mi ha molto colpita l'espressione di infelicità tanto chiara ed evidente sui volti delle persone. Questa è stata forse la prima e più forte sensazione che ho avuto appena arrivata a Roma. Per non cadere nei luoghi comuni delle ragioni di questa così tangibile insoddisfazione, mi limito a dire che questa cosa mi impressionava. E molto.

Un'altra cosa a cui faccio ancora fatica ad adattarmi è il giro di parole che devo pronunciare per chiedere una qualsiasi cosa. Per carità, è più che giusto ed è doveroso, in ogni luogo del mondo, nel rivolgersi agli altri, utilizzare il per favore, per cortesia, per gentilezza, grazie, ecc, ma in Italia mi sembra che si esageri un po'. A volte, l'introduzione è così lunga, che si rischia di perdersi in quello che si desidera chiedere davvero. Un esempio? "Buongiorno, mi scusi, per cortesia, se non la disturba, sarebbe possibile... aiutooooooooooooooooo, non ricordo più cosa dovevo chiedere... da ridere.....

Ah, restando ancora in tema di giri di parole e dei giochi delle apparenze, vi spiego una altra stranezza, vostra o nostra, scegliete voi. Nella mia zona di provenienza non abbiamo il pudore di dire, quando stiamo male, che stiamo male, o senza un soldo in tasca, o a pezzi per un qualsiasi motivo, demoralizzati, falliti, lasciati dal fidanzato(a), traditi, o altro. Qui è tutto velato, nessuno ha mai il coraggio di mostrarsi come si sente o come si sta in un dato momento. Si fa sempre finta di stare bene in ogni circostanza, in ogni momento o ancora ad ogni domanda che qualcuno ci rivolge. Perché tanta maschera? A cosa ci serve?

Altra sorpresa? Volete ancora che dica qualcosa? Va bene. Eccolo un altro stupore: ma come mai, una paese così bello come l'Italia, con una cultura così antica, ricca, varia, affascinante, bella, solida e complessa, sia anch'essa leccac.....degli americani? Dov'è finito tutto? O questi saranno proprio i presupposti per questa così diffusa sottomissione? Ma non si salva davvero nessuno? Che il Brasile sia ancora e molto sottomesso a quelli lì, ne ero già abituata e consapevole da un pezzo...ma anche l'Italia ragazzi? Ole'....

Vorrei concludere augurandomi che l'Italia, un paese che rispetto e che mi "ospita" da quasi ormai quattordici anni, che possa essere ancora in grado di cogliere, col tempo che ci vorrà e con il dovuto rispetto ed attenzione, l'arrivo di questi "extracomunitari" nel suo territorio. Di certo questo processo migratorio causa diffidenze, paure, insicurezze, ma di certo, anche di certo, porta e porterà del rinnovamento a questo paese così pesantemente invecchiato e non solo, un paese minacciato sì e tanto, ma non dagli "stranieri", ma dalla propria demografia che continua a registrare meno gente che nasce e molta gente che invecchia. E che morirà, pur tardivamente, ma morirà. Una società che si è persa nel "bel mezzo del cammin..." di una ricchezza che gli è arrivata come un fulmine, senza darle il dovuto tempo di maturazione, di riflessione e di adattamento; facendola diventare superficiale, indifferente, chiusa, insensibile, individualista, menefreghista e fredda, ma soprattutto e purtroppo vecchia nell'anima, nello spirito, nel dentro, in profondità... in quello che dobbiamo avere di più bello, puro e commovente in ogni instante della nostra esistenza. Una società che si deve rifiutare di essere un rudere morale. Una società che ha bisogno di umiltà per imparare a riconoscere la legittimità dei valori e della cultura altrui per poter rispettarli ed imparare da essi. Una società che deve riconoscere la propria decadenza per dare avvio alla propria rinascita. Una società che sicuramente guadagnerebbe molto di più riconoscendo i propri limiti ed errori, piuttosto che gettandoli sotto il proprio tappeto. Una società, che dagli "immigrati", dagli "stranieri", dagli "extracomunitari", dai "negri", da "quelli dei gommoni" e dai diversi, potrebbe approfittare per diventare migliore, più prospera e più viva, più u-ma-na. E se non altro, per non estinguersi come popolo, prigioniera della propria ignoranza e di una resistentissima, prepotente e voluta cecità.

Questo è l'augurio di una straniera, di una cosiddetta extracomunitaria, ad un paese che le ha molto insegnato, anche senza volerlo o saperlo. Un paese, che attraverso la distanza e il distacco le ha fatto capire molte cose su di sè e sulla propria terra di origine. Un paese che ha fatto parte di un lungo periodo della sua vita e che, sinceramente, le dispiacerebbe vedere inghiottito da se stesso a causa della propria ignoranza. Un paese che le ha anche molto discriminata, esclusa e rifiutata. Un paese che le ha fatto molto arrabbiare (e anche lei a lui), tanto e sempre e comunque. Come il suo, in fondo, rimasto laggiù, ma molto, molto quassù nei suoi sogni di eternità e di ritorno.




Ana Claudia Pinheiro Teixeira č nata in Brasile e risiede dal 1993 in Italia, dove si č trasferita dopo aver vinto una borsa di studio per una post laurea. Laureata in Sociologia a Recife, lavora come interprete, traduttrice e insegnante di lingua portoghese. E scrive articoli di costume pubblicati sia in Italia che in Brasile.



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