L'EUROPA : LINGUA E IDENTITÀ


Ulrich Beck e Edgar Grande



LINGUA
Molti vedono nelle molte lingue con le quali parla l'Europa un impedimento, forse addirittura l'impedimento al suo intreccio orizzontale. L'Europa - si chiede di continuo - non è un desiderio impossibile già solo per il fatto che ogni paese non solo parla la sua lingua, ma rivendica il diritto alla sua lingua? Non ne deriva un caos babilonico, che nega tutto ciò che è necessario alla vita di una democrazia funzionante, ossia una lingua, una cultura, una identità? I filosofi e i linguisti hanno evidenziato il fatto che parlare la propria lingua è una fonte irrinunciabile di identità. In questo caso, la particolare identità che viene fondata dalla lingua deve essere determinata più precisamente, ad esempio nel raffronto con la caratterizzazione dell'identità da parte della religione: la religione avanza una pretesa di assolutezza, la lingua no. Si possono parlare più lingue e quindi travalicare di continuo i confini tra culture e nazioni, ma non si può essere nello stesso tempo ebreo, musulmano, cattolico e luterano. Mentre tra le religioni domina l"`aut... aut", la lingua madre è aperta al "sia... sia". Si, la lingua è nello stesso tempo fonte di identità e medium dell'abbattimento dei confini, della comunicazione interculturale, dell'appartenenza multipla. La separazione tra lingue e identità non è pensabile, né sarebbe auspicabile; e la lingua, come fonte di cosmopolitizzazione interna di mondi separati, se non ci fosse dovrebbe essere inventata.
Parlare lingue diverse significa avere radici e ali, essere originari di molte culture nello stesso tempo, potersi osservare dall'esterno, vivere dialogicamente, ma anche dover sopportare delle contraddizioni. In una parola, significa praticare una piacevole poligamia delle lingue. Un'Europa linguisticamente monogama sarebbe un'Europa mononazionale, l'assurdità di una "comunità di autistici". Invece, europeizzazione cosmopolitica significa non soltanto parlare una lingua comune (l'inglese), ma amare molte lingue nazionali europee. Se ogni europeo parlasse - diciamo - tre lingue europee, avesse amici in tre paesi, amasse qui la zuppa di pesce e là il Tafelspitz con salsa di erba cipollina, e magari potesse addirittura esercitare il suo diritto di voto; in breve, se avesse bisogno dell'alterità degli altri europei come dell'aria per respirare - questa sarebbe un'Europa interiorizzata (perché vissuta nella poligamia linguistica) e cosmopolitica!
Invece, monolinguismo significa avere un occhio solo. Un'Europa nella quale tutti parlano soltanto inglese non sarebbe un'Europa, o comunque non un'Europa dialogica, cosmopolita, ma semmai un'Europa imperiale (come insegna la monolinguisticità degli americani). I confini sopravvissuti in Europa sono confini interni, confini linguistici; possono essere resi porosi con la forza, il piacere e la capacità di essere di casa in varie lingue. Non si tratta affatto di un'idea elitaria, anche se apparentemente solo i benestanti possono "permettersi" di assimilare le lingue e le culture straniere. Per gli immigrati il plurilinguismo non è un lusso, ma una condizione di sopravvivenza.
Il mito della convergenza - tutte le differenze culturali vengono appiattite dal rullo compressore della globalizzazione - viene confutato nell'ambito fondamentale della lingua: "Nel mondo unico ci sono più lingue di quante non ce ne siano mai state [...] e vediamo nascere di continuo lingue davanti a noi, sotto di noi". Le lingue vengono exterritorializzate, ossia parlate in molti luoghi del mondo. Si verifica un'ubiquità delle differenze culturali e religiose. Ciò che separa e distingue le persone è presente in uno stesso luogo, spesso perfino in una stessa famiglia, in una stessa biografia. I linguisti calcolano che il 75% delle persone oggi viventi parlino due o più lingue. L'aspetto più importante di questo rilievo è che, a quanto pare, sta crescendo il numero di coloro che possiedono una conoscenza linguistica di altre culture e sono capaci di comunicare e comprendersi con altre persone nella lingua di queste ultime; e questo vale al di là della gerarchia dei titoli di studio.
A ciò non si collega nessuna trasfigurazione dell'emigrazione o dell'esilio. Hannah Arendt, l'ebrea tedesca che dinnanzi alla follia nazista era emigrata a New York, descrive l'incredibile commozione che la colse quando dopo la guerra ascoltò di nuovo, tra le rovine delle città tedesche, la lingua tedesca. E racconta l'esperienza di molti emigranti, che nel "né... né" delle lingue - non padroneggiare pienamente né la lingua madre, né la lingua del paese ospitante - erano stati staccati dalla fonte originaria del loro pensiero.
Se perciò qualsiasi tentativo di recidere il cordone ombelicale che lega una persona alla sua lingua madre produce una ferita, nasce allora - in riferimento all'europeizzazione - questo dilemma: come si può, da un lato, riconoscere in Europa il diritto alla lingua madre ed evitare, dall'altro, che l'Europa fallisca? E davvero necessario assegnare all'Europa, accanto a una valuta unitaria, a una legislazione unitaria, forse anche a un esercito e a una polizia unitari, anche una lingua, perché essa cresca? No, proprio questa "soluzione" incorre nell'errore del nazionalismo metodologico, cioè di pensare l'Europa come una nazione che parla una sola lingua. Invece, l'Europa cosmopolita deve essere costruita in base a un modello ponderato di plurilinguismo: "La prima è la lingua madre, la terza l'inglese. Tra le due deve necessariamente essere incoraggiata una seconda lingua, liberamente scelta, che spesso, ma non sempre, potrebbe essere un'altra lingua europea. A partire dagli anni della scuola essa sarebbe per ognuno la lingua straniera prevalente, ma anche ben più di questo: la lingua del cuore, la lingua adottiva, la lingua amata e interiorizzata" (Maalouf, 2000). Questa poligamia delle lingue dà impulso alla cosmopolitizzazione interna dell'Europa - e nello stesso tempo può essere assunta come un indicatore quantitativo che consentirebbe di stabilire in che misura i mondi vitali e le biografie delle persone non sono europeizzati solo dal basso, ma anche dall'interno. Infatti, il multilinguismo è entrambe le cose: medium e luogo di nascita dell'europeizzazione orizzontale. Il multilinguismo europeizza l'Europa. Ciò che nella prospettiva cosmopolitica è rappresentato come un successo, nella prospettiva nazionale appare invece abbastanza spesso come un problema. Questo vale anche per il multilinguismo. Le istituzioni scolastiche nazionali - compresi i libri di testo, i contenuti didattici, ma anche gli insegnanti - sono mal preparati alla pluralità delle lingue, dei passaporti e delle biografie dei loro studenti. Questo vale in diversa misura per le contrastanti politiche linguistiche attuate dai paesi europei. Alcuni perseguono una politica linguistica nello stesso tempo protezionistica e imperialistica, vogliono proteggere la cultura e l'identità nazionale della loro lingua ed estenderne l'area di validità (questa tendenza è particolarmente marcata in Francia). Altri a loro volta lottano per la sopravvivenza della propria lingua. Altri ancora possono contare sull"`ovvietà" della validità globale della propria lingua nazionale (l'inglese), per così dire su una monogamia linguistica globale.
Ad esempio, le difficoltà incontrate dal sistema scolastico tedesco nell'approccio al multilinguismo della sua utenza contribuiscono non ultimo a far sì che la formazione in Germania esca male dal confronto internazionale. Anche qui, tuttavia, si conferma il fatale rovesciamento: nell'opinione pubblica e nella politica ciò viene perlopiù ascritto all"`eccessiva presenza di stranieri" nelle aule, ma non è percepito come un fallimento del sistema scolastico ancora prevalentemente indirizzato alla riproduzione del nazionale, anziché all'europeizzazione attiva.
Così, in Germania la quota di studenti che nel 2002 avevano un passaporto straniero è sorprendentemente alta: essa ammonta a quasi un milione, ossia al io% di tutti gli studenti della scuola primaria e secondaria (Statistisches Bundesamt, 2002). Quattro quinti di essi possedevano la cittadinanza di un altro paese europeo; a sua volta, una parte notevole di questo gruppo - poco meno del 44% - possedeva la cittadinanza turca. Nel contesto delle istituzioni scolastichenazionali il multilinguismo diventa il "problema linguistico". A ciò si attribuisce la responsabilità del fatto che gli studenti di liceo stranieri non sono più del 4%, mentre sono il 18% nella scuola primaria. La conseguenza è un livello di scolarizzazione nettamente più basso: il 20% degli stranieri abbandona la scuola senza diploma, mentre il tasso di abbandono tra i loro compagni di scuola tedeschi è soltanto dell'8%. Per contro, il 26% degli studenti tedeschi ha ottenuto la maturità, a fronte dell'11% degli studenti stranieri.

IDENTITÀ
Nessuna Europa senza europei. Ma chi è un "europeo"? Quali caratteri contraddistinguono il tipo dell'identità europea transnazionale e multinazionale (seconda modernità) dal tipo dell'identità mononazionale (prima modernità)? Se si pensa l'identità europea in base al modello dell'identità nazionale, è necessario rappresentarla come identità collettiva condivisa dei cittadini nazional-statali d'Europa, in modo che l'identità europea "inghiottisca" l'identità nazionale. Chi presuppone questo criterio mette nel conto la delusione: un'identità europea intesa come identità nazionale in formato maggiore non c'è, così come non c'è un demos, un popolo degli europei. Se però la si volesse creare, allora si susciterebbe la paura dell'omologazione culturale e alla fine si farebbe dell'europeizzazione uno spauracchio.
Anche nell'Unione europea sono stati compiuti o promossi "pathetic exercises in cultural engineering", ispirati al paradigma dell'identità nazionale (Delanty, 1995). Tra di essi, l'Eurovision Song Contest, Eurodisney, il titolo di città europea della cultura, conferito annualmente; ma anche l'idea che un passaporto europeo, una bandiera europea e un inno europeo (il preludio dell'inno Alla gioia della nona sinfonia di Beethoven) possano conferire all'identità nazionale europea la desiderata "emozionalità".
Per contro, le ricerche empiriche dimostrano che là dove, ad esempio, i deputati europei parlano di identità europea o, più precisamente, della loro identità europea e la descrivono, attingono al vocabolario del movimento. L'identità europea non è percepita e descritta come fissa e già data, territorialmente vincolata e delimitata, ma come identità in movimento, identità del movimento, come "cantiere Europa" (Günther Verheugen). Il vocabolario e le metafore in cui si esprime questa identità fluida si richiamano all"`essere in cammino", al "viaggiare" e ai loro "ostacoli": devono essere aperte "strade", "vie", "sentieri" ecc., devono essere approntate delle "mappe". Ad esempio si parla, rievocando il celebre discorso tenuto da Churchill a Zurigo nel 1946, di "mapping out the way forward"; oppure si afferma che ci troviamo "on the road towards the European Union", "sulla via di Maastricht"; oppure, ancora, si sottolinea la necessità di "spianare la strada per una politica estera e per una politica della sicurezza europee, per aprire una nuova dimensione" - naturalmente "passo dopo passo" e facendo attenzione alle "buche".
Corrispondentemente, anche la storia dell'Unione europea è narrata con metafore legate al movimento. Così, l'europeizzazione viene intesa come movimento in uno spazio, ma anche come movimento nel tempo; e questo movimento ha liberato la storia europea dal suo passato di guerre e realizza una rottura decisa con questo passato. E rivolto al futuro. Né il presente condiviso, né il passato condiviso esprimono l'identità europea in movimento. Invece, predomina l'idea di un altro tempo, di un altro futuro. Per europeizzazione si intende dunque una concezione del presente rivolta al futuro, per la quale l'identità consiste nell'essere per strada, nel creare, spianare, fondare, organizzare, costruire, nell'essere smarriti e confusi, nel cercare e tentare, nel trovare e inventare. Perciò, l'identità europea non consiste in altri contenuti, ma in un altro modo di intendere l'identità, in un altro concetto dell'identità. Nell'autocomprensione degli europei intervistati l'Europa si è già lasciata alle spalle - per citare Armin Nassehi - la "metafisica europea dell'identità, il suo basso continuo [...], la questione della sostanza, della costanza e del nucleo essenziale" (Nassehi, 2003, p. 1; cfr. Derrida, 1991).
L'essere in cammino in un modo europeo-non europeo, cioè l'essere nello stesso tempo identici e non identici, mette le ali allo spirito europeo. L'Europa non è l'Europa nel modo in cui la Francia è la Francia o la Germania è la Germania. L'Europa è doing Europe. "Doing Europe" si riferisce a un'Europa non sentimentale, ma effettiva, la cui realtà è attestata dal fatto che le sue istituzioni sono continuamente presenti a tutti. L'europeizzazione crea per gli europei un futuro migliore di quello consentito dai governi nazionali che vanno per conto loro. Nell'era globale questo non è realistico. Nel commercio, nella politica monetaria, ambientale, ma anche in quella estera e della sicurezza l'UE sarebbe meglio attrezzata dei suoi stati membri a sostenere gli interessi di qualsiasi individuo, indipendentemente dal colore della pelle, dal luogo di residenza e dalla lingua.
Nel "doing Europe" questa immagine non emozionale della storia e di se stessi viene collegata con un'immagine morale: infatti, il cattivo passato deve essere trasformato in un buon futuro, in una vita migliore per tutti gli individui, al di là della classe sociale, della lingua e della religione. Come è noto, Max Weber aveva identificato nell'"ascesi intramondana" del calvinismo il momento essenziale dello "spirito del capitalismo" e individuato proprio in esso la forza per intervenire nell'ordine del mondo preesistente e riconfigurarlo (Weber, 1963). Invece, lo "spirito europeo" nasce dall'ascesi intrastorica, dallo sguardo rammemorante negli abissi della civilizzazione europea. "Doing Europe" è il mai più diventato effettivo. L'Europa cosmopolita è compenetrata dall'idea che l'odio e l'inimicizia tra i popoli dell'Europa (e del mondo) sono in ultima analisi un inganno, un errore, e che le nazioni, le etnie e le religioni che si combattono e si dilaniano possono benissimo lavorare litigiosamente al rinnovamento del loro mondo, del mondo. L'Europa conciliata, che per Churchill, de Gaulle, Adenauer, i capi della resistenza contro la Germania nazista, ma anche già prima per Thomas Mann e Heinrich Heine era stata un sogno irreale, dopo mezzo secolo è diventata una realtà tanto imponente da fare quasi temere che possa crollare sotto il peso della routine burocratica. Ma questa conciliazione interna è il messaggio che deve trovare conferma storica e può rinnovarsi con l'allargamento ad Est nei paesi postcomunisti: dopo il sonno da bella addormentata dell'imperialismo sovietico i paesi dell'Europa centro-orientale si ridesteranno nell'autocomprensione etno-nazionalistica dell'Europa di prima del 1939? Oppure scopriranno la benedizione e i benefici rappresentati dalle strutture dell'UE per la pace, per la ricchezza e per un ethos sovranazionale valido per ognuno, poiché con essi, non ultimo, si mette un argine a qualsiasi raptus di follia nazionalistica? Il "momento cosmopolitico" - la percezione affinata dell'alterità culturale - è nato dal totale esaurimento prodotto dalla crudeltà perpetrata e sperimentata; è nato dalla riflessione e dalla meditazione sulla sofferenza incommensurabile e sull'incommensurabile colpa portate nel mondo dall'Europa nazionalista e bellicosa. Questo ha reso l'Europa più sensibile ai criteri interiorizzati dell'autocritica, più aperta e nello stesso tempo più inflessibile nella lotta per un'umanità senza guerre, postreligiosa. Questa Europa cosmopolita si ricorda solo con vergogna e irrisione delle lotte tra visioni del mondo, dei campi di sterminio che ha creato quando era ancora impigliata nelle sue storie nazionali. Questa Europa cosmopolita potrebbe essere o, per esser più cauti, potrebbe diventare non dottrinaria, non prepotente, capace di misurarsi con i conflitti, libera, serena e curiosa della molteplice contraddittorietà del mondo, piena di provincialità aperte al mondo. e potrebbe alzare le spalle dinnanzi al pensiero fondato sull'esclusività
assolutistica - noi o loro, capitalismo o comunismo, Occidente o Islam.
Questa apertura ai valori e al mondo non deve essere scambiata con l'indifferenza postmoderna. Accanto alle norme procedurali è necessario un orgoglio valoriale minimale. La nuova Europa vuole, cioè, essere fedele a un aristocraticismo: il proprio, vale a dire all'Europa della libertà, della libertà dell'individuo (cfr. Heller, 2004). La variopinta, individualistica, laicistica cultura nella quale la religione non determina la politica vale più di una cultura nella quale si lapidano le donne. Tutto quello che i fondamentalisti odiano merita di essere celebrato e conservato come ciò che è autenticamente europeo: il tanto deprecato "vuoto di senso", la "decadenza", la "perdita del centro", il congedo dall'immagine metafisica "dell"'uomo e "dell"'Occidente europeo. Perché? Perché il carattere europeo-cosmopolitico di una società sta nel fatto che nessuno dice autoritariamente a nessuno che cosa è giusto e buono e nessuno prescrive a nessuno come deve condurre la propria vita, purché non si danneggino i propri simili.
Quali valori rimangono se si rivolge lo sguardo verso Auschwitz, verso il gulag o verso la follia colonialistica? Il rischio dell'europeizzazione non può essere assunto al servizio né di un Dio universale, né di un'umanità universale, né di una verità e di una scienza universali. I valori europei devono essere creati, il "doing Europe" deve essere praticato e diventare quotidiano. Solo questa attività continua, in ultima analisi, può oggi favorire il cosmopolitismo europeo, farlo diventare un fatto. Ad esso non portano né i segnali stradali celesti né quelli terreni.



(Brano tratto dal saggio L'Europa cosmopolita - Società e politica nella seconda modernità, Carocci editori, Roma, 2006).



Ulrich Beck
insegna Sociologia alla Ludwig-Maximilians- Universität di Monaco di Baviera e alla London School of Economics.



Edgar Grande
insegna Scienza politica alla Technischen Universität di Monaco di Baviera




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