CATTIVA COSCIENZA

- Ci appassioniamo ai drammi individuali solo per avere un alibi e continuare a ignorare le grandi tragedie umanitarie del nostro tempo -


Antonio Scurati



La scorsa primavera molti cittadini degli Stati Uniti, comodamente seduti ai tavolini di Starbucks (la catena che vende caffè in decine di miscele diverse) hanno sorseggiato il loro finto espresso macchiato caldo mentre leggevano di corpi dilaniati su cui volano sciami di mosche "talmente eccitate e intossicate che vanno a morire gettandosi nelle pozze di sangue".
La scorsa primavera, infatti, il libro più venduto negli Stati Uniti è stato Memorie di un soldato bambino di Ishmael Beah. Nel libro l'autore rievoca la sua adolescenza di guerriero e assassino, arruolato dall'esercito durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002). Beah aveva tredici anni quando, nel più assoluto silenzio della comunità internazionale e dei mezzi d'informazione, i ribelli s'impadronirono della zona diamantifera instaurando un regno del terrore: amputarono gambe, braccia, orecchie e naso a più di trentamila persone.
Ora, quindici anni dopo, le sue memorie escono negli Stati Uniti con un'impressionante prima tiratura e scalano immediatamente le classifiche di vendita. Perfino la catena Starbucks, uno dei simboli internazionali dell'iperconsumismo (anche se vende caffè, non libri) ne ha prenotate centomila copie.
Come si spiega un paradosso del genere? Con un risveglio della coscienza di un popolo all'epoca del tutto indifferente alle tragedie africane e oggi, invece, attento e partecipe? Salman Rushdie ha una sua spiegazione per lo straordinario successo che, sempre più spesso, ottengono in occidente i libri che raccontano le sofferenze di popolazioni coinvolte in guerre o in tragedie umanitarie lontane e dimenticate (come Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini sull'Afghanistan e, prima ancora, Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi sull'Iran): gli occidentali sopperiscono al loro bisogno di sapere, del tutto disatteso da giornali e tv che informano poco e male su questi eventi, ricorrendo alla letteratura. Auguriamoci che Rushdie abbia ragione, ma qualcosa nel suo ragionamento non torna.
In Italia la situazione non è molto diversa. Pochi mesi fa è stato pubblicato il rapporto annuale di Medici senza frontiere sulle crisi dimenticate da quotidiani, periodici e telegiornali di casa nostra. Il quadro generale è sconsolante. Ecco alcuni esempi: ogni anno, nel mondo, la malaria uccide un bambino ogni trenta secondi mentre, nel corso del 2006, l'influenza aviaria fortunatamente ha registrato solo 116 casi e 80 morti. Nonostante questo, l'anno scorso i telegiornali italiani hanno dedicato alla malaria solo sei notizie, di cui quattro a proposito di un italiano che ha contratto la malattia in Congo. Alla situazione in Cecenia, martoriata da una guerra che dura da dodici anni, la carta stampata ha dedicato solo 92 articoli, di cui 42 si riferiscono a due singoli episodi eclatanti: le uccisioni del leader separatista Shamil Basaev e della giornalista Anna Politkovskaja. Invece è praticamente inesistente lo spazio dedicato alle condizioni di vita e alle sofferenze di migliaia di civili, di cui proprio la Politkovskaja coraggiosamente si occupava. Al Darfur e ai suoi due milioni di sfollati i telegiornali hanno dedicato solo dodici notizie. E addirittura nessuna alla tremenda guerra civile nella Repubblica Centrafricana: la drammatica situazione dei civili vittime degli scontri tra esercito e ribelli non è evocata nemmeno in una delle 78.224 notizie delle principali edizioni dei telegiornali Mediaset e Rai.
È risaputo, ormai, che i criteri di notiziabilità (quel complesso di requisiti che gli eventi devono avere per poter diventare notizie) non sono relativi soltanto al fatto in sé ma anche, e soprattutto, al modo in cui è organizzato il lavoro giornalistico, al linguaggio specifico del mezzo che presenta la notizia, alla notizia in quanto prodotto da vendere sul mercato dell'informazione e dunque all'interesse del pubblico. La "nazionalizzazione" e la "personalizzazione" aumentano il valore di notiziabilità di un evento perché suscitano l'interesse del pubblico e consentono d'inserire il fatto in una struttura narrativa drammatica. Così si parla di una malattia africana solo se colpisce un italiano o s'informa sulla tragedia di un popolo solo se è riconducibile al dramma di un solo individuo: come il caso della Politkovskaja perla Cecenia afflitta dalla guerra d'occupazione russa, o di Roberto Saviano per l'Italia afflitta dalla criminalità organizzata.

Cultura del diniego
Pur stando così le cose, è davvero possibile che i mezzi d'informazione non trovino il modo di raccontare in forme avvincenti la crisi del Darfur o l'endemica emergenza criminale in Campania, ignorata almeno quanto le tragedie africane fino all'uscita di Gomorra, il libro denuncia di Saviano? Possibile che i direttori di giornali e tg siano più cinici dei loro lettori e spettatori, i quali poi corrono a centinaia di migliaia a comprare i libri di Beah o di Saviano?
Temo che non sia così. La faction (fiction ispirata a fatti reali) oggi tanto di moda, l'impasto di artifici drammaturgici e materia narrativa ad alto tasso di contenuti informativi, forse non indica un desiderio del pubblico di essere messo di fronte alla tragedia del Darfur, della Cecenia o della camorra. Al contrario, l'esperienza che si fa, a livello di consumo di massa, di eventi come guerre, pandemie, crisi umanitarie, filtrate però da un docudrama o da un romanzo-verità, forse rientra anch'essa in quella diffusissima cultura del diniego che consente alle persone di restare inerti di fronte alle immagini del dolore trasmesse ogni giorno in tv. E permette ai nostri governi di negare le proprie responsabilità nei tanti orrori commessi nel mondo.
Forse si tratta ancora di quel meccanismo psichico che Freud chiamava Verneinung, negazione: un ritorno soltanto parziale del rimosso. Le grandi tragedie umanitarie del nostro tempo, rimosse
dalla coscienza collettiva perché oscurate dai mezzi d'informazione, troverebbero nella faction un ritorno solo affabulatorio: investirebbero in pieno la facoltà immaginativa dei lettori, lasciando però inattive le facoltà intellettive e morali. Gli orrori reali supererebbero il doppio filtro di rifiuto e disinteresse, ma a patto di essere fruiti con le modalità dei prodotti di finzione. Le accorate denunce di Beah o di Saviano verrebbero in soccorso al diniego funzionando come "allucinazioni positive" (fantasie, miti, favole). Rischiando così di fornirci un alibi per continuare a rimanere inerti sul piano dell'agire politico e civile. Come a dire: dopo che la mia nazione, e io stesso, abbiamo colpevolmente ignorato per decenni le tragedie africane, e continuiamo a farlo anche ora, mi purifico catarticamente la coscienza appassionandomi al singolo caso, ben raccontato, di un ex bambino soldato. Insomma, una forma più sottile e più perversa di rimozione.
È solo un'ipotesi e non è neanche verificabile. Tutti ci auguriamo che sia infondata. Personalmente, però, non saprei spiegarmi altrimenti lo strano caso di centomila clienti di Starbucks che sorseggiano il loro finto espresso macchiato caldo mentre leggono di corpi dilaniati su cui volano sciami di mosche "talmente eccitate e intossicate che vanno a morire gettandosi nelle pozze di sangue".



(Articolo tratto dalla rivista Internazionale, n° 699, del 5 luglio 2007.)



Antonio Scurati
ha 37 anni ed è ricercatore in cinema, fotografia, televisione presso l'università di Bergamo. Il suo ultimo romanzo, Il sopravvissuto (Bompiani 2005), ha vinto il premio Campiello.




.
         Precedente          Copertina