AUGUSTO

- Brano tratto dal romanzo Pessimi segnali -


Enzo Fileno Carabba




(...) Non era così terribile, la vita. Certi giorni ti ammazzavi di fatica, perché dalla mattina presto alla sera era tutto un susseguirsi di servizi: portare le persone a fare la dialisi, portare il bambino handicappato ad annaspare in piscina, portare gli infortunati a fare riabilitazione, e così via, senza contare le emergenze; ma in altri giorni c'erano lunghi periodi di ozio. È vero che era un ozio che poteva essere interrotto in qualsiasi momento.
La mattina di mercoledì un bambino che stava giocando nei giardinetti fu colpito dal seggiolino in movimento dell'altalena. La meccanica non era chiara, ma il seggiolino di metallo lo colpì con violenza alla nuca. Era un giorno freddo, ai giardinetti non c'era quasi nessuno e nessuno aveva visto bene la scena. Comunque il bambino che si chiamava Augusto cadde a terra senza un lamento. Diventò cieco, sordo e muto.
Borri, uno dei volontari più esperti, passò di li proprio in quei momenti e fu lui ad avvertirci. Io rimasi alla radio mentre Giuliano, Borri e Sacco correvano in ospedale. All'inizio nessuno aveva capito cosa era successo. Non era uno di quegli incidenti spettacolari che piacevano ai miei colleghi. Il bambino non perdeva sangue, né era volato fuori da una macchina per rotolare poi da una scarpata o cose del genere. Se ne stava steso sotto l'altalena che continuava a oscillare, mentre un vento freddo gli scompigliava i capelli e pochi altri bambini e qualche mamma gli stavano attorno e lo guardavano senza fare nulla, perché non sapevano come comportarsi. L'unica cosa che avevano fatto era stato coprirlo con una giacca da bambina, ornata con un'immagine di Biancaneve. Il bambino respirava.
Nelle ore successive, quando si svegliò, cominciarono a capire. Il bambino non parlava, non guardava, non rispondeva ai richiami, non riusciva a comunicare. Di sicuro urlava e piangeva nel suo luogo di solitudine, nella sua autostrada di silenzio, nella sua galleria priva di immagini. Da lì non poteva uscire. Asfalto da ogni lato. Chiamava sua madre, suo padre, nessuno gli rispondeva. E loro gli parlavano, gli facevano domande perché vedevano che si era svegliato e si agitava, faceva strani movimenti scomposti. Ma a poco a poco, dolorosamente, capirono che non poteva sentirli. I medici erano impotenti, non sapevano cosa fare, speravano che si trattasse di un fenomeno transitorio. Ma non lo era.
Anche se non ero stato li in quei momenti, né ero stato io a portare il bambino all'ospedale, non riuscivo a liberarmi da questa storia. Mi immaginavo nel retro dell'ambulanza, solo con il bambino, a tenergli le mani e ripetergli: "Stai tranquillo, presto arriveremo all'ospedale." Mi vedevo lì a tranquillizzarlo senza sapere ancora che non poteva sentirmi, che da quell'incubo immobile in cui era piombato non poteva rispondermi. Un bambino piccolo, un bambino che non poteva capire cosa gli era successo. D'altra parte avrebbe stentato a capirlo perfino un adulto. In quale universo era caduto? Forse all'inizio era confuso dal dolore fisico, e questo in fondo era meglio. Ma poi, quando col passare del tempo il dolore si era placato,allora la sua situazione era emersa in tutta la sua incomprensibile chiarezza. Era vivo, esisteva ancora, esisteva il suo corpo, eppure era come se non esistesse. Era stato trasferito. Murato. Oscurato. Oppure non poteva neanche provare dolore. Non sentiva nulla se non il suo respiro che entrava e usciva, come un universo che si espande e si contrae mentre i pianeti si sgretolano e si ricompongono e niente altro esiste. Mi chiedevo cosa potesse essere il tempo, in quelle condizioni, se scorreva più lento, se non scorreva o se - contrariamente a quanto si penserebbe - scorreva velocissimo e con allegria.
I medici dissero che gli erano rimaste confuse sensazioni. Per esempio il senso del tatto. Allora nel mio viaggio mentale in ambulanza con lui cominciai a pensare che gli stringevo la mano, e lui a poco a poco rispondeva alla mia stretta. E che in quell'attimo la vita riprendesse la sua canzone. Immaginavo anche i genitori, distrutti, che imparavano a comunicare con lui attraverso il tatto. Ma forse non sarebbe andata così. Augusto aveva otto anni, era troppo grande per avventurarsi in un tipo di apprendimento completamente nuovo. Ormai la sua mente era stata formata per comunicare con le parole. E la parte di lui che avrebbe potuto giocare con le cose attraverso le parole era chiusa in un carcere di massima sicurezza.
Mesi dopo, lo vedevo alla finestra di camera sua. Andavo a prendere un bambino handicappato per portarlo in piscina, e Augusto abitava proprio lì accanto. Ogni tanto provavo a fargli un cenno, o a sussurrargli qualche parola di lontano. Avevo paura che qualcuno mi vedesse, stranamente mi sentivo in colpa a cercare di comunicare con lui. I genitori lo piazzavano alla finestra come se la cosa avesse un senso. Forse aveva un senso. Forse lui davvero era affacciato a un qualche tipo di finestra che non potevamo vedere.
Una mattina scesi al fiume e guardai la torretta diroccata che chiamavo il totem solitario. Di lontano mi parve simile al bambino alla finestra. Ci vedo male. Ma stava nella stessa posizione, un po' rannicchiata, e guardava dove io non potevo vedere. Resistetti alla tentazione di farle un cenno. (...)




(Brano tratto dal romanzo Pessimi segnali, Marsilio editori, Venezia, 2004.)



Enzo Fileno Carabba è nato nel 1966 a Firenze e vive attualmente nella campagna toscana. È autore di diversi romanzi, tra cui Jakob Pesciolini (Premio Calvino 1991), La regola del silenzio e La foresta finale, tutti editi da Einaudi, nonché di numerosi racconti pubblicati in antologie sia in Italia che all'estero. Prima che nel nostro paese, Pessimi segnali è stato pubblicato nel 2003 in Francia, nella prestigiosa "Série Noire" di Gallimard.


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