ANTIPERIPLEA



João Guimarães Rosa

 


- E Vossia mi vuol portare , lontano, alle città?

Dilungo.Tutto, per me, è viaggio di ritorno. In mansione

qualunque, no; quel che ho avuto, fino ad oggi, ciò di cui, per così dire, m' intendo e piace, è d'esser guida di cieco: forzo destino che m'aggrada.

E mi lascerete andare? Da quando il mio cieco Signor Tomê se n'è andato, mi vessano, mi strattonano, sospettano discorrendo. Terra d'ingiustizie.

Qui sostammo, mesi, a causa della donna, per conto del defunto. Allora che arrestino la donna, le diano una torchiata, il marito ruffiano, finché quelli spieghino per filo e per segno anche ciò che non è mai successo. La donna, terribile. Ispettore trattenga l'anima del mio Signor Tomê cieco, se ne è capace! Lui se la faceva occulto con la donna, Sa Giusta, qualcuno se n'era accorto? Io provvedevo e governavo.

Non m'arrovello di come fu che si precipitò nel burrone, che rese l'anima. Decido? Riconosco: che le cose cominciano per davvero là dietro, di quel che c'è, ricorso; quando rifinite succedono, già sono scomparse. Sospiri. Dichiaro, ora, definisco. Vossia non m'ha chiesto nulla. Do risposta solo a ciò che nessuno mi chiese.

Le donne, pazze di lui, come un Gesù, a causa della barba. Ma lui mi chiedeva, prima. - “È bella?”. Io informavo che sì. Per me ogni donna vive bella: le rosse, le more, le bianche, nelle strade. Lui gli piaceva - un cieco totale - perché non poteva tradire le loro forme né i loro tratti? Signor Tomê s'inorgogliva, lavava con sapone il corpo, chiedeva vestiti in carità. Io bevevo.

Deambulavamo, da luogo a luogo, senza prevedere che già stavamo nel venir fin quì. Ho colpe ricoperte. Noi per strada,

tirando un cieco, centriamo come se stessimo navigando - contrariamente a tutti.

Mio padrone, no. Io reggevo - lui accompagnava: pigliando tutti in punta di bastone da passeggio, cavo con l'imbottitura in piombo. Bevo, per infondermi amori altrui? Ragliavano, che, passata già l'età di guidare ciechi, di buona lena, io continuavo, così, imbotulito, ingobbito, testone. Il popolo le sa le scortesie. Allora, per anch'io non vedere, ho da ricordar l'altrui? Bevo. Trinco fino a dormire, vedo altre cose. Lui aveva da aspettare, mentre finivo di ubriacarmi, sdraiato. Mi dava consigli. Cieco supplica di vedere ancor più di chi vede.

Mi invidiava: non vedeva che ero difettoso brutto. Pieno d'odio, perché io solo potevo vedere quelle donne intere, cui lui piaceva! Condurre un cieco è come trascinare un condannato, di nessun potere, ma che vede più di noi? Amici. Il rovinato davvero può ridere solo del cencioso. C'avevo voglia di salirgli in groppa leggero, senza freno, senza sperone...

E qui siam giunti, per l'appunto. La donna vide il cieco, a mo' di non mi dire, con tutta la forza in serbo. Questa era diversa, molto ordinaria, brutta, brutta alla faccia di Dio onnipotente. Ma bramava, fatale. S'inginocchiò per chiedermelo, perché al mio Signor Cieco mentissi. Procedetti. - “Questa è bella, più di tutte!” - gli affermai, parola mia. Il cieco si lisciò la barba. La sua mano passeggiò sulle braccia di lei, ardito costume. Soffiò caldo come l'occhio d'un tizzone. Non ebbi alcun rimorso. Ma i due respiravano, piansero, mielosi, dignitosi.

S'incontravano, ogni notte, io preparando per loro il campo, il

modo e il comodo, e me ne stavo lontano, occupandomene. Il marito la schifava, uomo sdrucciolo, di stramberie, manco veniva a casa. Qualcuno malignò? Cieco nasconde più di chiunque altro, qualunque bazza. E chi sta di guardia, come me? Lei mi dava cachaça, cibarie. Lui mi anticipava il giorno di festa. Mi coccolavano. Poteva durare, così, a buona pesa?

La vita non se ne sta quieta. Finché lui non se ne cade nel buio, nella scarpata, mortale. Venendosene da in-le-delizie. La donna qui persiste - per miagolare ai cani ed abbaiare ai gatti. Che centro io con il caso... Tutti si piccano di chiamarmi ladrone. Cieco non è chi muore?

Tutti avendo bisogno di me, negli intervalli. La donna, matta, insistendo che a lui riproducessi le sue future bellezze. Il Signor Tomê, da questi nostri solitari non avversi discorsi ingelosito, con polemiche, malumori. Ma io riportavo leale il travisato: che i suoi occhi lasciavam brillori, un carato dei denti, quelle faville, il sommo colore delle guancie. Signor Tomê, alla faccia della classe, sorbiva il diletto di descrivermi cos'era chell'amore, lui non disamorava. Ch'è cieco solo chi non deve vedere? Ma il marito, immorale, beveva con me, voleva con la mia complicità prendere i soldi nella saccoccia... Io ubriaco e mingherlino, nano, devo emendare la pazzia, la cecità di tutti?

Lascino pure - ed io deducevo e combinavo. Ma nessuno aspetta la speranza.Vanno fino al lumicino, a più non posso, all'impazzata. Al più, urgo; m'intenda. Qui, dove lui si rovinò, gli altri carcano speculazioni e m'affrontano, da chiusa a principio, senza fiume né ponte.

Giorno di mala notte. Lui s'errò, sul ciglio del precipizio, cadendo e nero pesto morendosene. Non può esser stata solo malasorte, giro di sfiga? Di solitario andar braveggiando, ingelosito, bue sbuffando, se ne scivolò... e così rotto insanguinato, terribile, della terra.

O il marito, in fregola per uccidere, rubare - ha spinto quell'altro giù, nel burrone - di suo proposito? Cieco corre maggior pericolo in notti di luna piena...

E Signor Tomê, alla fine, variava: dicendo che cominciava di nuovo a vedere! Deliri, di passione, brama di tanto voler avvistare la donna - i tratti - quella bellezza che noi tre, nel disabbrutto, c'inventammo tanto. Intravvedendo che lei era brutta per davvero, non può lui, dolente deluso, essersi davvero suicidato, nel precipizio? Il peggior cieco è quello che vuol vedere... Morto stecchito.

O lei, visto che lui ricominciava a vedere, doveva di primo acchito voler distruggere quello spavento, spingendolo, precipiziosa - il visionabile! Carattere di donna è semi e bucce. Lei, nell'ultimamente, già se ne tremava, di paure d'amore, quelle volte che lui, palpando, con forti desideri, maneggiava il suo viso, auditivo, tutto dita. Aria che passa...

Se me ne stavo ubriaco, bevuto, quando precipitò, cosa ne so? Non mi intendano! Dio vede. Dio intontisce e uccide. Quello che noi s'aspetta è ciò che resta della vita.

La donna dice che m'accusa del crimine, senz'arrossire, se con lei non sarò audace... Il marito, terribile, piagnone, dice che l'amante ero io... Terribili, gli altri, mi minacciano, fino alle ingiurie... Vossia non dice nulla. Il diavolo ce l'ho e non ce l'ho, sa? Mi arrestino! Mi rilascino! La donna sia quasi gravida. Mi chiamo Prudenzignano. Ora il mio cieco non vede più... La colpa è sempre della guida?

Solo se c'ho ancora altre cose, a venire, continuate da ricominciare; ebbè Dio non è mondiale? Temo che son io il terribile.

E Vossia mi vuole ancora portare, nelle sue città, da amico?

Decido. Chiedo per dove andare. Accetto, già a buon punto, di andare piano e lontano. Tornare, alla fine dell'andata. Ripenso, non penso. Mi metto a insultare il mio morto, quando sento nostalgia. Grande città. La gente lì è infinita.

Vado, a guidare ciechi, servo di cieco padrone, vagandante, aduso al differente, con Vossia, Signor Sconosciuto.

 


Titolo originale: “Antiperipléia”, racconto tratto dall´edizione: “Tutaméia (Terceiras Estórias)” Editora Nova Fronteira -- Rio de Janeiro 2001 -- Traduzione dal Portoghese di Marco Cristellotti


Nota del traduttore:

Pochi mesi prima della morte J.G. Rosa dava alle stampe “Tutaméia”. Traduzione?

Bazzecole. Nonnulla. Meglio ancora “Ossa di farfalla”.

Una quisquilia che considerava perfetta algebrica riduzione della sua barocca fedeltà al molteplice. Tutte le sciocchezzuole che qui trovano posto sono state trovate o inventate, composte o sintetizzate, infine pesate sul bilancino di questo farmacista alchemico. Scienza per poeti. Misteri dell' irrilevante. O irrilevante radice del mistero?

Tra gli equivalenti del titolo diede:”Mea omnia”: 260 pagine, 44 capitoli. Lui, l'autore del mattonico “Grande Sertão. Veredas” , 624 pagine senza l´ombra di un capitolo, con l´unica bussola dei capoverso.

Prendeva in giro, col garbo di un ambasciatore, critici e lettori, traduttori, tutti quelli che s'aspettano qualcosa dall'”Autore”, dalla letteratura chissà che, privi di irriverenza.

Quegli stessi che, alla sua morte, nell'isola Brasile, furono gettati, più che nel lutto, nel panico di fronte all'irreparabile.

Quattro “prefazioni”, di cui una, a scanso di equivoci, ben in fondo al libro. Teoria letteraria , ma fatta di citazioni di finta-vera realtà, che sgorgano dagli zoccoli e dalle corna di questo bue paradossale, in equilibrio sulla punta della penna, tra nomi e cose.

Inventava parole. “Una parola nasce dal nostro amore, come una farfalla sbuca dalla tasca del paesaggio”.

Quaranta storielle. Astrazione purissima, ottenuta con matematica adesione al reale.

Rigorosamente “disimpegnato” in pieno sbocciare sessantottino. Refrattario.

Totale quarantaquattro capitoli in ordine alfabetico, tranne due, stocastici, “ sennò era troppo facile”. La prima “Antiperipléia”, un misto di “antipériplo” e “Odisséia”.

Chi ha capito di più l'America? Gli americani, Kafka ... gli italiani? Ma se l'America è finita da un po', migrando più a sud, saremo ancora noi i più capaci?

E se valesse per J.G. Rosa quello che Deleuze dice di Spinoza, che non si è ancora cominciato a comprenderlo, “io non più degli altri”? Per farlo, lo tradisco.

 

João Guimarães Rosa

 

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