L’ITALIA E I DESAPARECIDOS

– Brano tratto dal saggio Niente asilo politico - Diplomazia, diritti umani e desaparecidos


Enrico Calamai




(…) Il parziale controllo sulla situazione all'interno del consolato non può bastare; nell'apparente normalità della vita di tutti i giorni, le persone cadono una dopo l'altra con velocità crescente: chupadas , come comin­cia a dirsi, succhiate, risucchiate nel nulla. Anche la caccia all'uomo sta affinando i suoi strumenti.

Resto convinto che la realtà circostante offra sempre e comunque spazi di manovra. Ma occorre poterla ben valu­tare. Cercare continuamente nuove soluzioni. Diversificare le possibili vie d'uscita.

Tanto più che i militari argentini stanno consolidando la loro presenza nei paesi circostanti, per meglio darvi la caccia ai pericolosi sovversivi che vi cercano scampo. Al che corrisponde un'analoga libertà operativa dei militari dei paesi circostanti in Argentina. È quanto aveva messo in allarme i cileni presentatisi in consolato pochi giorni dopo il golpe, e che mi viene via via confermato da Giangiacomo Foà e dagli stessi perseguitati che mi arrivano in ufficio. Si tratta del coordinamento delle operazioni mili­tari in funzione antisovversiva tra Brasile, Bolivia, Cile, Paraguay, Uruguay, oltre all'Argentina, sotto l'egida degli Stati Uniti, che oggi conosciamo come Plan Condor.

Arrivano le prime risposte della polizia alle richieste che la signora Giugni e io facciamo partire, via via che si presentano i disperati familiari di chi è stato chupado . Tutte uguali: la persona non risulta tra quelle in stato di fer­mo. Il numero degli habeas corpus seguiti dall'avvocato Librandi va anch'esso aumentando. Ma quando finalmente arriva la risposta, se arriva, è anch'essa negativa. I giudici si limitano a ripetere quanto già comunicato dalla polizia: il nominativo in questione non figura tra quelli delle per­sone arrestate.

E, poiché l'ordine regna in Argentina, non possono esi­stere macchine senza targa o irruzioni di gruppi paramili­tari in borghese. Dopo aver riposto speranze nel consolato, i familiari si ritrovano ad avere in mano soltanto le rispo­ste che ha già dato loro la polizia, che continua a ripetere

contro ogni credibilità: sarà andato al mare o in Europa o comunque in vacanza. O tornerà dopo una fuga d'amore. O è entrato in clandestinità perché militante nella lotta ar­mata. Tornerà, se non ha fatto niente di male.

 

I familiari sanno che tutto ciò è falso. Sanno che a portare via il loro figlio o fratello sono stati proprio i militari. Non sono sorpresi dall'arrogante mentire della polizia, né dall'acquiescenza servile della magistratura. Ma il modo in cui é strutturata la mente umana impedisce loro di perdere ogni speranza, malgrado l'angoscia che li attanaglia. Non riescono a concepire l'idea che quella vita all'improv­viso portata via, mentre era a tavola o dormiva o era al la­voro o per strada con il bambino, possa non ritornare. Aspettano che altrettanto improvvisamente telefoni o bussi alla porta, con la spiegazione di quanto successo. Sanno tutti che polizia e militati non esitano a torturare e a ucci­dere. Ma chi non riappare, neanche cadavere, deve essere vivo.

 

Il piano dei militari va al di là del pensabile. Nessuno trova una spiegazione. E a Buenos Aires sembra non stia accadendo niente.

È un brancolare nel buio. Ma dal mio osservatorio è ormai chiaro che l'uniforme reazione di magistratura e po­lizia di fronte all'esponenziale moltiplicarsi dei casi non può che rispondere a una strategia unitaria. Che lo stesso problema si verifica in tutte le circoscrizioni consolari. Che sta ormai a Roma esigere il rispetto del diritto dello Stato italiano a svolgere in maniera efficace l'opera di tutela consolare, garantita dal diritto internazionale.

 

Continuo a informare puntigliosamente l'ambasciata e il MAE di ogni caso che mi viene segnalato, nella speranza che – come con i perseguitati che si presentano in consolato – il fatto stesso che la notizia arrivi a Roma costringa a un'azione diplomatica efficace. Non sono poche, d'altron­de, le interpellanze cui il governo ha dovuto rispondere, vagamente, certo, ma dimostrando di sapere, di fronte al parlamento. E qua e là un articolo spunta sempre. Bordate, mi dico, da mandare per aria le complicità che collegano l'Italia all'Argentina. Ma sbaglio.

Gli Stati sono il sovrappiù di potere che si produce in un branco umano quando controlla un territorio. Soprav­vivono mediante un dosaggio variabile di repressione e consenso, manipolato, quest'ultimo, con bombardamento ideologico, sistematica disinformazione, crescita econo­mica o presunta tale. Non si ritengono responsabili di quanto fanno a individui o popoli oltre i loro confini, salvo contraccolpi interni. La storia è il loro tempo.

Il diritto internazionale è il codice di condotta che si sono dati nell'espandersi a spese l'uno dell'altro. Ma, privo com'è di sanzioni, lo usano come meglio credono, a coprire le proprie vergogne. Tra di loro si comprendono con un linguaggio fattuale, che oscilla tra l'alleanza e la guerra, passando per il corteggiamento. Cui da secoli i diplomatici danno forma e parola.

Un linguaggio il cui significante più usato è la cosid­detta nota verbale: parole, ma scritte, affinché non volino via. Viene quotidianamente utilizzata dalle ambasciate per comunicare con il governo del paese ospitante. Nel disbri­go delle incombenze burocratiche prioritarie per il suo funzionamento, ma secondarie da un punto di vista politico: ad esempio, per l'acquisto di carburante in esenzione fiscale, per la richiesta di un visto, per difficoltà di par­cheggio davanti alla sede diplomatica ecc. In genere, un passo diplomatico di routine.

Al di là delle cineserie di una forma che è sempre la stessa, il significato deriva dal contenuto, dalla lunghezza, dall'eventuale durezza dei toni. Ma anche dalla modalità di consegna; quanto più è elevato il grado del messo che vi provvede, tanto maggiore l'interesse mostrato: una consegna a mezzo autista segnala che l'esito viene dato per scontato, mentre il passo effettuato direttamente dall'am­basciatore significa un interessamento da prendere nella più attenta considerazione.

Significa anche il linguaggio utilizzato nell'effettuare la consegna. Così, la durezza dei toni di una nota verbale può venir sfumata dallo stesso ambasciatore, la cui orga­nicità con il governo inviante si presuppone totale. Egli potrà in mille modi lasciar comprendere all'interlocutore l'esistenza di una discrepanza tra interesse manifestato e interesse realmente attribuito alla questione dal suo gover­no. Ad esempio, per esigenze di opinione pubblica.

 

L'ambasciata a Buenos Aires è un terminale tra i tanti di cui dispone lo Stato italiano, per i suoi rapporti con il resto del mondo. Di fronte a famiglie in preda alla terribi­le angoscia provocata dalla scomparsa di un loro caro, che in quei momenti sarebbe forse stato ancora possibile salvare con un intervento deciso; di fronte a segnalazioni che pervengono da tutta l'Argentina, per cui è chiaro che i mi­litari stanno attuando una strategia fondata sul ricorso si­stematico alle più gravi violazioni dei diritti umani; di fronte a tutto questo, l'ambasciata d'Italia reagisce invian­do note verbali di poche righe, sempre uguali.

Un modulo, in sostanza, con lo spazio in bianco per il nominativo della persona di cui si chiedono via via notizie. Come se si trattasse del casuale ripetersi di fatti isolati.

Mai che il problema sia stato affrontato nel suo insie­me. Mai che, a Roma, venga convocato l'ambasciatore ar­gentino in Italia per consegnargli una nota di protesta formale, mai che si prenda in considerazione la possibilità di interrompere i rapporti diplomatici, mai che, a Buenos Aires, si aprano i cancelli ai perseguitati che, bisogna ripe­terlo, in quel momento girano per la città senza più alcun rifugio e potrebbero ancora venir salvati.

Nei fatti, che sono i soli a contare in politica, le note verbali dell'ambasciata d'Italia ribadiscono di volta in vol­ta, con il loro sostanziale ripetersi, che l'interessamento italiano è di natura puramente formale. Esse rassicurano i militari argentini circa l'acquiescenza italiana. E serviranno al momento opportuno per mettersi con le spalle al sicuro. Per dimostrare all'opinione pubblica italiana, e se necessario alla magistratura, che l'ambasciata d'Italia e quindi il governo, lo Stato italiano, hanno sempre fatto il proprio dovere.

Serviranno a coprire un'inerzia, che altro non è se non un agire omissivo, destinato a privilegiare gli interessi delle imprese italiane, pubbliche e private, a scapito del più elementare senso di umanità.




(Tratto dal saggio Niente asilo politico, Feltrinelli, Milano, 2006.)


Enrico Calamai, ex diplomatico in Argentina negli anni Settanta, in Italia θ stato chiamato a testimoniare nel processo che ha portato alla condanna di otto militari argentini. Ha contribuito a fondare il Comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani. Niente asilo politico, pubblicato per la prima volta da Editori Riuniti nel 2003, θ la testimonianza della sua esperienza di diplomatico nell'Argentina prima e dopo il golpe del 1976.



.
         Precedente             Copertina