UN COAGULO

– Brano tratto dal romanzo Il circo capovolto –


Milena Magnani





(…) Va bene.

L'inizio, stavo dicendo.

Come prima cosa mi sono costruito la baracca, me la sono costruita con materiali di recupero come le altre baracche intorno. Poi, come mi aveva ordinato Askan, ho fatto scom­parire gli scatoloni del mio circo.

A vedermi da fuori dovevo sembrare un accampato come tutti gli altri, rassegnato al destino di non essere più niente.

Ogni tanto Askan mi passava di fianco e mi pungolava:

– Così tu, hungarez, volevi farci il regalo di un bel circo delle pulci?

Gli rispondevo che io, in verità, di mestiere avevo mon­tato le impalcature intorno ai palazzi e quindi, se voleva un regalo, potevo aggiustare la sua veranda che mi sembrava piut­tosto malconcia.

– Ma figurati! – faceva lui. – A te non farei aggiustare neanche una papúçe, e chiusa qui la faccenda!

Non mi davo pena di replicare, intonavo qualche canzo­netta e mi giravo dall'altra parte.

Per il resto me ne stavo immobile a fumare su un bidone rovesciato.

Guardavo gli insetti, le corsettine dei topi, e certe donne che per mano un po' tenevano bambini e un po' trasportavano careli pieni di cianfrusaglie e vestiti recuperati.

A vedermi da fuori ero un accampato come tutti gli altri, destinato a ingrossare la schiera degli sfaccendati.

Ogni tanto entravo nella baracca e ne uscivo masticando qualcosa. Ogni tanto aprivo una latina di birra. Buttavo i mozziconi di sigaretta intorno a me.

Anche gli uomini più giovani mi guardavano con sospet­to e, quando si rivolgevano a me, lo facevano con sprezzo:

– Ehi ti! Oh! Aruncã cheile! – Pretendevano che prestas­si loro il camion, o che li aiutassi a trasportare certi pesi.

Il più delle volte mi saliva un gran nervoso, poi però sospiravo e facevo come mi chiedevano. Lo facevo così, in­ciampando tra i monticelli di lattine vuote che i cani, saltel­lando, mi spingevano a rotolare in mezzo ai piedi.

Lo facevo tra le esplosioni improvvise delle liti. Quelle grida strazianti, quell'accapigliarsi tra insulti, poi nulla.

Nel nulla ritornava la calma di certi panni colorati che Zaga e sua figlia disponevano ordinatamente sui fili. E quei mugugni rimuginati, quegli scambi di ostilità minori:

– E te, vuoi impicciarti anche te, hungarez?

Mi giravo frastornato: – Guarda che non penso mica le tue cose, ho già un pensiero bastante con le mie.

– Allora guarda in là, no? Guardalo in là, il tuo surrat idioti!

Solo i bambini, a una certa ora, cominciavano a ronzarmi attorno.

Di solito i primi a presentarsi erano Senija e Ibrahim, se­guiti a ruota dai due gemelli Hajdini, rossi e lentigginosi, che mi guardavano con due minuscoli occhietti preoccupati. Cer­cavano pretesti per rendersi utili, mi procuravano manciate di viti e continuamente dicevano: – Prego, gradisci – allun­gandomi degli attrezzi.

Io quelle prime sere stavo in cima a una scala e cercavo di rinforzarmi il tetto con i pannelli verdi di un materiale a onde.

Senija e Ibrahim indossavano certi berretti che si rnettevano e si toglievano in un continuo movimento.

Indicavano il mio tetto ridacchiando: – Il vento è forte, e qui non permette di fissare le cose.

– Sì, ma il vento è anche amico – dicevo io cercando di fermare i pannelli con il corpo.

E quando però una folata mi strappava i pannelli di sotto e li scaraventava a vorticare sulla testa dei passanti, allora mi mettevo a ridere anch'io. E i capelli mi sbatacchiavano a frustate dentro gli occhi, mentre cercavo di zittire gli schia­mazzi: – Pszt! Fate sentire quel signore che mi dice...

– ...se volevi tagliare la testa alla mia filija!

– Mai sia! Che un Dio tenga lei in vita cento anni!

Ridevamo così, fino a che i pannelli, a forza di insistere, prendevano una collocazione accettabile e io, con un balzo, scendevo sul sentiero tutto soddisfatto.

Con quella soddisfazione cominciavo a restituire ai ge­melli Hajdini ciò che mi avevano prestato: il cacciavite, le matasse di filo di ferro, il sacchetto delle viti riciclate.

I bambini sghignazzavano e si scambiavano occhiate compiaciute mentre mi si stringevano intorno infreddoliti, i ma­glioni dai polsini sfilacciati con cui si asciugavano continuamente il naso. Finché qualcuno, quasi sempre Ibrahim, tro­vava il coraggio di domandarlo:

– Avevi detto che raccontavi... Che raccontavi a noi la storia del tuo circo...

Mi raccoglievo i capelli sulla nuca: – Voi pensate di na­sconderlo, il circo, che arriva un giorno che ve lo racconto.

— Perché non provi a raccontarlo acum?

— Tu forse vuoi dire adesso... Adesso sono stanco. Però vi prometto che lo racconto un giorno.

E dato che i bambini stavano li a fissarmi con quelle smor­fie quasi deluse, io mi sentivo invadere da un imbarazzo e, per non dover sostenere il loro sguardo, spostavo gli occhi verso il rombo delle auto che veniva dallo stradone. Quel rombo che riempiva il cielo sopra di noi e ricadeva come un vapore sulle baracche, tra le pozze acquitrinose, sui canali delle fogne.

Stavo così un po', poi mi decidevo, mi lasciavo ricadere i ciuffi sugli occhi: – Ma sì! Legyen! – Rovesciavo a terra la prima cosa che trovavo, una cassetta della frutta, un bidone di latta, e facevo segno ai bambini di sistemarsi intorno a me.

Tehát pontosan mi az, amit tudni szeretnétek?

A Senija scappava da ridere e, per timore di essere sfac­ciata, si copriva la bocca con la mano: – Se parli ungurule nes­suno capisce! Ti capisci da solo, se il parlare è così!

Era una bambina pacata e serena e i suoi occhi erano ver­di e buoni come l'acqua di una tinozza.

– Ho chiesto: cosa è che vi interessa sapere?

– Il circo in scatole – interveniva Ibrahim con il berretto abbassato sulla fronte. – Il circo in scatole di quando sei arrivato...

–Igen, sì. Il circo in scatole. Quello sono andato a pren­derlo verso Est della Ungheria, che è dall'altra parte di dove ho fatto la vita, perché la vita io l'ho sempre fatta a Budapest. Quel giorno, invece di stare a Budapest, sono andato fino alla campagna di Tokaj dove abita un vecchio cigány che di nome fa Laszlo, Kócián László. Sono andato da lui perché sa­pevo che teneva il mio circo in un fienile, che gliel'aveva lasciato mio nonno all'epoca dell'ultima guerra del mondo.

– Sì, ma noi ti abbiamo chiesto di spiegare come è fatto! – incalzava Ibrahim sfilandosi il berretto. – Noi vogliamo sapere come è fatto un circo che sta dentro le scatole!

Guardai Ibrahim aggiustarsi la cresta color pannocchia, il volto scavato e scuro ravvivato dal brillare di un orecchino al lobo. Qualcosa nel suo sguardo mi faceva pensare a un cer­biatto, forse perché teneva sotto controllo tutto e al tempo stesso era così piccolo.

–Jól van Ibrahim, voi avete fretta di capire queste scato­le. Bene. Allora pensate un circo come lo conoscete voi e eliminate subito il tendone, poi le sedie e anche le panche delle tribune. Quindi eliminate gli animali, e alla fine le persone. Ecco, dopo avere eliminato queste cose, quello che rimane è un circo come il mio, che si può mettere dentro grandi contenitori e lasciare nel buio di un posto chiuso per anni. Ertitek? Riuscite a capire come spiego le scatole?

Ma i gemelli Hajdini sbattevano gli occhi inquieti:

– Forse spieghi che sono gli scarti, spieghi che sono gli scarti di un circo abbandonato.

– Ma in verità io non ho detto quella parola lì, "scarti", non credo che va bene quella parola lì.

Poi mi accorsi che io stavo mormorando: – Nem selejtezésra van szó! Niente scarti, no. Comunque i bambini rimasero perplessi.

E poiché tra di loro, in quel momento, si era seduta anche la piccola llma, che lo zio di Djacovica non le aveva ancora tagliuzzato le cosce con i colpi domestici di un trinciapollo, lei, con una valanga di capelli ricci, con il suo lieve fiato ansimato, trovò la naturalezza di domandarlo:

– Sarà che non si tratta di scarti, ma allora perché li sei portati in questo campo? Cosa pensavi di fare a portare qui tutti quei pacchi?

E poiché non potevo immaginare che di li a poco quella sua naturalezza non ci sarebbe stata più, mi limitai a rispon­derle con la voce. Perché altrimenti una specie di abbraccio

gliel'avrei dato.

– Ma tu Ilma, tu per esempio, perché fai la vita in questo posto?

– Io? Ma io vengo da Mitrovica, da Kosovska Mitrovica proprio...

– Sì, ma perché fai la vita qua? Qual è stato il pensiero di portare la tua vita qua?

– Guarda che io vivo qua per non vivere là, perché la non è che si può vivere, dopo quello che hanno fatto a mio fratello, alla Mahala...

– Allora vedi che così è identico il circo mio, io ho provato di portarlo qua per fare che non sta più là, a Tokaj, in Ungheria, dopo quello che gli hanno fatto.

– Cosa vuol dire? Allora ci devi spiegare cosa gli hanno fatto!

– Se volete certo che lo spiego, però non adesso, un gior­no, majd egyszer...

— Ma noi siamo qua adesso! Perché non continui meglio adesso? — rilanciò uno dei gemelli facendo un mezzo saltello sul panchetto.

— Voi dite "adesso", mentre io dico majd egyszer. E intanto oltrepassavo le sagome dei bambini con lo sguardo.

Che si era accesa una lite intorno alla baracca di Senija, che stava proprio di fronte alla mia.

Gago Cioarã, con gli occhiali sghembi sulla faccia ingial­lita, inveiva verso la porta di cartone traballante: — Drogurile fac ráu! Drogurile sunt um blestem!

Mentre dalla porta si sporgeva il fratello più grande di Senija, anche lui pallido e mortifero, che agitava tremante un grimaldello e gli diceva: — Gago, eri meglio quando bevevi! Vattene! E pensa di curare il fegato tuo!

Dietro gli facevano coro altri due ragazzotti come lui. In­tronati. Intontiti. Che farfugliavano offese incomprensibili.

E poco oltre quel chiasso c'era anche Askan, che sulle pri­me pareva dirigersi verso la lite ma poi oltrepassava Gago Cioarã e prendeva a puntare verso di me a falcate incarogni­te: – Hungarez çfarë dreqin bën!

L'attimo dopo era così: io seduto sul bidone e lui davan­ti che ansimava, con quella posa da cow-boy a gambe larghe: – Cosa parli? Quale përralla del cazzo che racconti?

Mi raspavo la gola imbarazzato: – Cosa faccio di raccon­to a questi bimbi? Niente, niente di importante, no.

Eshtë më mirë, — commentava Askan spavaldo — io li schifo, qui, i maestri!

Mentre i bambini non osavano guardarlo in faccia e an­zi, senza che lui dicesse niente, si erano già alzati prudentemente in piedi.

Allora Askan, come suo solito, prendeva a inarcare la schiena compiaciuto, buttava un occhio sui bambini massag­giandosi il cocomero turgido dello stomaco, commentava: —A kështu e keni kuptuar!

Poi c'era il suo colpo di mani, lo stesso che avrebbe usato per un branco di galline — "Ish ish!" —, e i bambini si spar­pagliavano correndo.



Che poi è vero. Così è fatta la vita di un uomo.

È fatta il tempo di un'immagine sola.

Cinque bambini in cerchio. Ascoltano. Ascoltano qual­cuno raccontare una storia.

E stanno seduti su pietre. Su panchetti improvvisati, ri­mediati come si può.

Così è fatta la vita di un uomo.

È un'immagine che si crede di avere visto, inghiottita di colpo da un dolore senza preavviso.


Di sotto le palpebre chiuse, chiudere gli occhi un'altra volta ancora.

L'occhio vi sprofonda.


Eppure sento odore di caffè.

Mi raggiunge insieme a voci di uomini.

Dicono che dev'essermi successo circa otto ore fa. Ma quanto è strano pensarmi adesso così.

Pensarmi vittima di un assassinio.

Sarà perché sto in questa sonnolenza che assomiglia a un galleggiamento, o perché passo in mezzo a tutto come un pensiero senza più contesto.

Ma ho il cuore fermo. E questo è un fatto.

E poi, per quanto faccia fatica a considerarmi "assassi­nato", ci pensano le volpi a richiamarmi alle ferite che porto sul costato.

Le annusano e mi alitano addosso il fetore selvatico del loro fiato.

Un fetore che all'inizio è disgustosamente acre, poi però si trasforma in odore di foglie, qualcosa che mi fa venire in mente un faggeto o comunque un bosco fitto.

Sarà per via di questo odore che mi scopro a ragionare sul sentiero da percorrere. Un sentiero che all'inizio mi figu­ro indistinto ma poi prende una traiettoria netta, curva verso ovest e si spinge dentro il buio polposo del bosco.

So che per sentieri così impervi alcuni miei antenati sono riusciti in certi casi a salvarsi. All'epoca in cui sono stati schiavi dei principi valacchi, o quando, korakanè slovacchi, scappavano con i lovara, i lalleri e i ruteni, sulle groppe di cer­ti cavalli, là, intorno alla Rokytne, cercando di evitare le sab­bie mobili dei campi aperti.

Provo a inoltrarmi. Mi creo un varco tra fogliami senza radura, scavalco sassi, rovi e sterpaglie alte, finché le volpi mi si parano davanti.

"Che c'è? Perché non mi lasciate proseguire?"

Loro mi mordicchiano i lacci delle scarpe emettendo un verso stridulo. Una specie di lamento, contrariato.

E forse hanno ragione loro, non sono ancora pronto per affrontare il viaggio. Infatti le mie scarpe sono calzate lente e le donne lo stanno dicendo solo ora: i ricci tuoi santi. Mentre mi pettinano delicatamente i capelli: — Pãrul tãu sfânt.

Alcune mi hanno rovesciato sul maglione una brocca d'ac­qua calda per scollare la lana dalla ferita secca. Altre mi pie­gano il braccio per farlo entrare in una giacca che, nello sfor­zo, un po' si strappa. Parlano di sfântul lacob, che mi proteg­gerà solo se mi incammino sul ponte con un vestito buono.


Ai bordi di questo campo piazzato qua in mezzo al rac­cordo.

Forse per la prima volta vedo questo luogo per quel che appare.

Sempre l'ho sentito chiamare "campo baracche", ma in realtà è soltanto un grumo. Un coagulo che il destino deve avere scartato dal flusso inarrestabile della corrente del be­nessere.




(Brano tratto dal romanzo Il circo capovolto, Feltrinelli editori, Milano 2008.)



Milena Magnani
(Bologna, 1964) da vent’anni è impegnata nel settore dell’educazione e dell’accoglienza. Ha esordito con il romanzo L’albero senza radici (Nuova Eri, 1993), a cui ha fatto seguito Delle volte il vento (Vallecchi, 1996).


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