SCRITTORE FALLITO

Roberto Arlt





Nessuno può immaginare il dramma che si nasconde sotto i lineamenti del mio volto sereno, ma anch'io ho avuto vent'anni e il sorriso dell'uomo immerso nella prospettiva di un trionfo imminente. Sensazione di toccare il cielo con un dito, di spiare da un'altezza celeste e profumata il pigro procedere dei mortali su una pianura di cenere.

Ricordo...

Intrapresi con entusiasmo un cammino di primavera che, se invisibile ai più, era per me autenticamente reale. Trombe d'argento celebravano la mia gloria tra le mura della città intonacata rozzamente e le notti si vestivano ai miei occhi di un prodigio antico, da nessun altro vissuto.

Agglomerati di fronde nere, su un canto di luna gialla, delineavano, nella mia immaginazione, panorami ellenici e il sussurro del vento tra i rami si trasformava nell'eco delle baccanti che danzavano al suono di sistri e laudi.

Oh! Sebbene non lo crediate, anch'io ho avuto vent'anni grandiosi come quelli di un dio greco e gli immortali non erano delle ombre dorate, com'è dato di percepire all'intel­ligenza del resto del genere umano, ma abitavano un paese vicino e ridevano fragorosamente; e sebbene non lo crediate, io li veneravo, e mi dovevo trattenere, a volte, dal precipi­tarmi per la strada e gridare ai negozianti che conteggiavano gli incassi dietro ai banchi imbiancati:

— Guardatemi carogne... anch'io sono un dio circondato da grandi nubi e arcate di fiori e trombe d'argento. E i miei vent'anni non erano sbiaditi e brutti come quelli di certi arrampicatori spietati. I miei vent'anni promettevano la gloria di un'opera immortale. Era sufficiente allora guardare i miei occhi lucidi, la tenacia della mia fronte, la volontà del mio mento, ascoltare il timbro della mia risata, percepire le pulsazioni delle mie vene per comprendere che la vita straripava da me, come da un fiume troppo stretto.

L'ingegno affluiva a ogni mia frase; era la mia faretra di frecce, e allegramente le lanciavo intorno a me, convinto che l'arsenale fosse inesauribile. I trentenni mi guardavano con un certo rancore e i miei amici mi auguravano un futuro bril­lante... mi trovavo senza dubbio nell'età in cui il sorriso delle donne non ci sembra un regalo particolarmente straor­dinario per premiare la violenza dei nostri segnali di com­battimento.

E vissi, vissi con tanto ardore per giorni e giorni e numerose notti, che quando volli capire la causa del mio sgretolamento, indietreggiai spaventato. Uno stillicidio invisibile aveva scavato in me una caverna profonda, vuota, tenebrosa.

E così, come l'inesperto viaggiatore si avventura per una pianura gelata e improvvisamente scopre che il ghiaccio si rompe, mostrando attraverso le crepe il mare immobile che lo inghiottirà, io, con lo stesso orrore, scoprii la rovina del mio genio e il disgelo della mia violenza. Le crepe di ciò che io credevo terraferma appartenevano a un sottile strato di acqua indurita. Fu sufficiente la lieve temperatura di un successo per scioglierla.

Fui eccessivamente elogiato, e qualcuno mi volle colpire con un malefizio. Trionfai troppo in fretta in quella cerchia di piccole belve, per ognuna delle quali il fiore più bello

con cui potersi adornare era una vanità innaffiata di adulazioni. Non so, non so. Non so.

Dopo il successo strepitoso, il mio entusiasmo si spense di colpo. Logorio della vira miserabile che per un attimo aveva arso in me con violenza? Conseguenza del totale ab­bandono nell'unica e ultima opera? Non lo so.

Mortale penuria... angoscia di viaggiatore sperduto nel deserto.

Volli tornare indietro, ma l'orgoglio me lo impedì... Mi sforzai di avanzare... ma la città che prima dilatava di fronte ai miei occhi strade senza fine, ognuna delle quali portava a una altissima metropoli multicolore, improvvisamente si appiattì; e tra le mura imbiancate mi sentii piccolo e insi­gnificante, e invidiai la felicità dei commercianti che avevo disprezzato, e anch'io desiderai di sedermi a un tavolo di legno levigato e mangiare il mio pane e la mia minestra, senza l'amarezza del fallimento, né il brutto ricordo del successo.

Come descrivere il tormento che mi infliggeva la vanità, l'accesa battaglia tra i residui di buonsenso e gli scarti di superbia? Come descrivere il mio pianto ardente, il mio odio incandescente, la disperazione per aver perso il paradiso?

Oh! Per tutto questo bisognerebbe essere scrittore, e io non lo sono. Guardate il mio viso sereno, il mio freddo sor­riso da persona perbene, la mia cordialità tagliente e misurata come l'asta di un negoziante di stoffe.

Fu quella un'epoca terribile.

Gli affanni che pativo si trasformarono nel gioco di un meccanismo impazzito, alternativa e illusioni rosse e realtà nere.

A volte rifiutavo di accettare la realtà.

Se ripercorrevo gli ultimi due anni della mia vita, provavo il terrore dell'uomo che ha vissuto un secolo. Un secolo di totale sterilità, senza scrivere un rigo.

Capite quanto fosse orrenda una simile situazione? Due anni senza scrivere niente. Spacciarsi per scrittore, aver promesso mari e monti a chi si disturbava ad ascoltarmi, e tro­varsi, così, a bruciapelo, di fronte alla propria incapacità di scrivere un rigo originale, di produrre qualcosa che giusti­ficasse il prestigio acquisito. Vi rendete conto di quanto sia mordace quella domanda infame degli amici capziosi quando, avvicinandosi, vi chiedono con una ingenuità che senza dubbio trascende una malignità soddisfatta:

« Perché non lavori? ». Oppure: "Quando pubblichi qualcosa? »

Per arginare domande indiscrete o ironiche insinuazioni, mi rivestii dell'arroganza dello spettatore che ha superato le miserie delle attività umane.

Dovetti difendermi e cominciai a divulgare frasi come: — La vita non è letteratura. Bisogna vivere... poi scrivere. Ma non possiamo invano simulare il fantasma; arriva il

giorno in cui noi stessi finiamo coll'esserlo.

Così, a poco a poco, mi impregnai di una buona dose di acidità che filtrò in ogni mia parola tracce di ironia amara, odore di latte inacidito.

La gente istintivamente mi sfuggiva e mi bollò come un essere mordace. Le mie barzellette, anche quelle dette con le migliori intenzioni, finivano sempre con l'avere per gli altri un doppio senso e con l'esser definite perverse, e ai sempli­ciotti incutevo una terribile paura.

Con la stessa malignità negli occhi che rende i topi così ripugnanti, scoprivo il ridicolo dove nessuno lo sospettava. Avvicinarmi, equivaleva rassegnarsi a ricevere sferzate di in­solenze. Il mio atteggiamento più benevolo poteva tradursi in queste parole:

— Rimaniamo alla superficie delle cose.

Non so perché mi divertissi a svolazzare come una civetta; né so perché mi beffassi tanto di chi prendeva la vita sul serio, né perché sostenessi che solo i peggiori idioti davano importanza alle loro creazioni.

Tutto ciò non impediva che spesso sulla superficie della mia coscienza si formassero delle crepe che trasudavano un amaro salnitro di invidia. Niente mi offese più profondamente del successo di un collega che disprezzavo con tutta l'anima. Anche se quel successo era una bazzecola rispetto a quelli che avrei potuto ottenere io sfruttando le possibilità in me racchiuse.

Ricordo con molta chiarezza che mi avvicinai al mio collega e mi rallegrai con lui con ironica indulgenza. Era una congratulazione molto raffinata, concepita per infastidire quelle persone che stimiamo inferiori a noi.

Non potrò mai dimenticare un particolare: il collega che aveva ricevuto i complimenti mi guardò bruscamente, con l'odio e la curiosità dell'uomo che dà una festa e scopre un delinquente a casa sua. Mancò di tatto per nascondere la sua sorpresa e io allora senza potermi trattenere aggiunsi:

— Hai fatto un bel lavoro. Peccato che tu abbia trascurato un po' lo stile.

Mi guardò come se interrogasse se stesso:

— Che cerca qui questo sconosciuto?

Indubbiamente il successo ha la memoria corta.

Quell'amico mi doveva favori e incredibili cortesie; ma è anche vero che i miei rallegramenti erano lungi dall'essere sinceri. Era una elemosina. Una elemosina abortita tra labbra gelide.

Quando lo lasciai, mi ripromisi di lavorare con accanimento. Io ero una speranza. E una speranza illimitata è sem­pre superiore a una realtà misurabile. Spronato dal mio amor proprio, giurai di andare molto lontano, senza minimamente riflettere che il mio molto lontano apparteneva al passato. E così facile, d'altro canto, enunciare delle intenzioni senza porre limiti!

Mi ripetevo quelle parole, cercavo di inebriarmi con il loro contenuto e di iniettarmi gli orizzonti in esso racchiusi. Cer­cavo di provocare nei miei sensi quella specie di sonnambu­lismo lucido che precede l'atto creativo; ma, per quanto ripetessi fino all'esaurimento il ritornello ottimista, per quanto urlassi a me stesso che ero un genio eccezionale capace di conquistare l'Africa e l'America, la mia fraseologia lasciò totalmente indifferenti le facoltà creative, ed ebbi di nuovo davanti agli occhi lo spettacolo di una vita vuota e frivola.

Indignato con la mia ragione, tentai di intimorire l'ispira­zione penetrando nel mio inconscio. Era indispensabile che mi obbedisse e che lavorasse per me; ma fu tutto inutile.

Non potrò mai dimenticare che per una settimana mi rinchiusi tra le quattro pareti della stanza nell'attesa che una forza meravigliosa mi ispirasse pagine immortali; ma l'unico effetto di tale prigionia fu una violenta intossicazione da ta­bacco. E così, stanco di fare l'eremita, uscii per strada alla ricerca della vita.

Perché io non potevo creare come gli altri? Per quale mi­sterioso motivo un uomo che si esprimeva come un imbecille, poteva scrivere come se avesse del talento? Che cos'era la personalità e come si formava, visto che conoscevo degli in­dividui che ne erano privi nella vita pratica, ma che nelle loro pagine, in ogni riga, lasciavano lingotti di originalità? Eppure erano incapaci di rispondere con un minimo di abilità alle mie astute provocazioni.

Non mi sfuggiva che ero privo di desideri specifici: l'amore, una illusione, dei sogni. Non basta volerlo, per scrivere. Il fervore della mia gioventù (ormai mi sentivo vecchio) era stato sostituito da un blocco di indifferenza, dura come il granito.

Eppure ero giovane. Leggevo dei bei libri. Il mio concetto dell'armonia e del bello quasi sempre superava, in teoria, quello di altri che, non avendone bisogno, creavano lo stesso delle opere.

Un giorno mi trovai faccia a faccia con la solitudine dell'intelletto che nessun uomo normale può sospettare in un altro. Deserto dell'anima umana, piatto e grigio. Perché percorrerlo, allora, se in ogni punto rischiamo di cadere morti o addormentati e se il sole è sempre alto e neanche un'ombra si muove verso la vita, perché lì la vita è quiete e il silenzio sepolcrale?

Pensai di suicidarmi. Un grammo di veleno qualsiasi avreb­be risolto il mio problema. Poi feci marcia indietro; i tetti delle case mi sembrarono rinnovati e i germogli dei gerani, nei poveri vasi, più verdi e succosi. Ma la verità è che ero vuoto come un'arancia spremuta.

Spremuta da chi? Non lo so. Le uniche iniziative che pren­devo, erano rivolte alla mia persona e non potevano interes­sare nessuno.

Per molto tempo abbandonai il mio tavolo da lavoro. Va­gabondai ed ebbi amici esotici, orgogliosi che li prendessi in giro, perché ammiravano in me il genio morto che credevano vivo. In luoghi diversi scoprii che gli uomini sono caritatevoli e generosi con coloro che ammirano; e allora odiai e disprez­zai ancora di più la bontà e la carità, perché sempre odiamo e disprezziamo quelli a cui rubiamo qualcosa... anche se si trat­ta di un pizzico di stupore.

Personalità strana e femminile la mia.

Detestavo la felicità dei semplici e degli ingenui e, al tempo stesso, cercavo la loro compagnia, come se loro, soltanto loro, potessero cicatrizzare quella profonda ulcera del mio disprezzo, versando sistematicamente il suo pus di egolatria, un marciume di veleno-dinamite. La vanità crescente aumentò anche la mia superbia, e mi giudicai un intoccabile, statua di marmo bianco nella quale non si poteva proiettare neanche un'ombra a ri­schio di commettere un peccato. Ritornai sulla mia opera, compiuta già da molto tempo, e la giudicai perfetta, impec­cabile. A chi voleva ascoltarmi spiegavo che solo il rispetto alla mia precedente creazione mi impediva di produrre qualcosa di nuovo che non fosse di gran lunga superiore alla prima. Ma superarla... era così difficile superarla...

E la gente ci credeva. E non ci credeva.

E dico che non ci credeva, perché qualche volta credetti di scoprire in un volto nemico lo scorcio di un sorriso ironico, come se compatissero la mia presunzione; ma difendevo tanto il mio orgoglio, che quasi sempre trovavo il modo di tramutare in nemici quelli che potevano conoscermi più profondamente di quanto non mi convenisse accettare.

Poi trovai un pretesto che, senza essere né molto serio né convincente, mi soddisfece per un certo tempo.

Qualunque stato d'animo potessi manifestare, qualunque trama potessi immaginare, prima di me, infinite volte, più generazioni di artisti li avevano già espressi. Un giorno confessai queste mie riflessioni a un amico, la cui aspirazione era quella di realizzare una opera di "spirito", come la definimmo noi nel nostro ridicolo gergo.

Con immagini che l'ispirazione del momento rendeva brillanti, tracciai al mio compagno un panorama del mondo dell'intelletto e della bellezza, creato attraverso secoli di attività mentale, e conclusi la mia dissertazione con queste parole:

— Ti sembra logico pensare che noi, esseri insignificanti, potremo superare quello che loro hanno compiuto con tanta perfezione?

Il mio amico rimase abbastanza stordito. Non si rese conto che cercavo di scoraggiarlo ironicamente. Ingenuamente entu­siasmato, mi consigliò di scrivere una specie di "decalogo della non-azione", e preso dalla mia stessa trappola, la trap­pola dell'idiota, come ha detto qualcuno, gli promisi che mi ci sarei impegnato. Anzi, lasciandomi trascinare dallo spirito della falsità, gli risposi che avevo già cominciato a scrivere il panorama dell'opera negativa; e credendo per primo alla mia bugia, cominciai a delirare e gli descrissi persino l'inizio di un capitolo che mi inventai sul momento...

Inebriati, lui con la struttura della sua opera di spirito, io con il decalogo della non-azione, passammo una magnifica giornata e una notte bellissima. Parlammo fino alla saturazio­ne dei nostri progetti, dei procedimenti estetici che avremmo utilizzato per sbalordire i nostri simili, e all'alba del giorno successivo ci salutammo stanchi di vino e affaticati dai giochi di prestigio sprecati in quella pirotecnia di inutile entusiasmo.

E non andammo al tavolo da lavoro, bensì a letto. Passato il momento di ebbrezza, non mi mancarono dei motivi per pensare seriamente a quel progetto.

Quali scrupoli potevano impedirmi di scrivere un libro negativo, inventare qualcosa come un Ecclesiaste per intel­lettuali settimini e dimostrar loro con abilità come erano vani i loro sforzi di fronte alla struttura dell'universo? A beneficio di chi andavano i loro sterili sforzi? Non era preferibile ven­dere tessuti dietro un banco o pesare viveri in un mercato, piuttosto che sacrificarsi...? E poi, con quali vantaggi?... Perché un lettore sconosciuto potesse distrarsi per qualche mi­nuto con una lettura amena senza neanche sospettare lo sforzo incredibile che è costata?

Chi più di me era autorizzato a scrivere quelle righe piene di angosciosa verità? Non avevo creato un' "opera". Ancora non ero celebre per coloro che non avevano perso la fiducia in me. L'ultima parte del libro palpitava nella mia mente.

Assistevo al declino dei mondi. Onde di fuoco inghiottivano croste immense del pianeta, come un falò pezzi di carta. Le città si sgretolavano, i graniti e i ferri si scioglievano come maquettes1 di cera sotto la tempesta di fuoco. Allora, dal fondo nero e scarlatto di quelle fiamme, sorgeva il ridicolo fantasma di un poeta che, con le mani pallide incrociate sul petto e il viso delicato avvolto da una gorgiera, sfidava il fuoco. Con una voce in falsetto tra il tumulto sordo degli elementi, chiedeva:

— E i miei libri?... Come mai il fuoco non rispetta i miei libri?

I suoi libri... mentre l'universo si stava fondendo nel nulla.

Una saliva amara mi riempiva la bocca di aspre parole. Era necessario scrivere quel libro di desolazione di fronte all'eternità, affinché ogni cuore fiorito di mirti e con canti di uccelli tra le sue cavità, cercasse di pulsare nel paesaggio delle mie parole crudeli; e allora... io... sarei rimasto soltanto io!...

Non mi mancarono delle ragioni più o meno serie per rinviare il lavoro che mi ero ripromesso di portare avanti a ogni costo. La notizia cominciò a circolare; e per quindici giorni mi esibii nei caffé frequentati dalla malavita della let­teratura, ostentando un'aria da uomo turbato da un progetto straordinario.

Alcune riviste di letteratura a base di pastafrolla e blu di metilene, commentarono la struttura della mia nuova e futura opera, e per una decina di giorni provai con gioia il piacere

di essere interrogato da idioti di ogni tipo, interessati a cono­scere quali profondità umane avrei ora toccato.

Fui sopraffatto dalle mie menzogne e cominciai a scrivere come se il portare a termine un'opera simile corrispondesse alle mie più autentiche intenzioni.

Ma, fino a che punto è possibile ingannare se stessi?

L'entusiasmo si spense a poco a poco, le frasi che scrivevo si deformavano come pensieri abortiti, non avevano nessun significato. La solitudine della stanza mi ispirò repulsione, inerzia i fiammanti libri comprati per documentarmi sulla "non-azione", e un giorno obbedii senza indugi agli impulsi della mia volontà, e mi confessai che non c'era niente di più stupido che lavorare a un'opera in cui, io per primo, non credevo.

Sostituii il mio programma di lavoro con un altro, e questo con un terzo, finché, pensando per forza d'inerzia, non tornai sui miei primi passi per accanirmi sull'abortito progetto del "decalogo della non-azione", che però non finii neanche di abbozzare, perché la mia ispirazione venne subito meno.

Alla fine, con determinazione, mandai tutto al diavolo.

La vita era breve. Come appariva ridicolo l'uomo che con­sumava la sua gioventù scarabocchiando cartelle obbrobriose! Per quanto si volesse essere ottimisti, bisognava riconoscere che con la letteratura non si sarebbe cambiato il mondo. Ma poiché simili ragionamenti, nonostante fossero veri, non cor­rispondevano alle più intime aspirazioni della mia coscienza, che cosa avrei potuto fare io? Finalmente, un giorno, mi sembrò di capire il segreto del prolungato silenzio del "fuoco sacro" che portavo in me.

Scoprii che stavo diventando esigente.

Se non producevo come certi scrittorucoli designati con l'appellativo di conigli o facchini della letteratura, era perché stavo diventando esigente. Proprio così. E un'esigenza ben intesa comincia dalla nostra stessa casa. Bisognava smetterla di scrivere alla carlona, di prodigarsi, di lavorare giorno e notte e notte e giorno, di infestare i giornali con la propria firma. Non era degno di uno scrittore che rispetti se stesso.

— Amici — dicevo con enfasi. — Amici, bisogna essere un minimo esigenti, conservare il pudore della firma.

Credo che all'epoca in cui pronunciavo quelle parole nean­che la fanciulla più pudica avesse tanto pudore della sua ver­ginità come io della mia firma.

Mi spetta l'onore di aver fondato a Buenos Aires la loggia degli Esigenti. Cominciai a lanciare le brevi frasi petulanti nelle mostre di pittura, nelle conferenze letterarie, nei concerti e prime teatrali.

Quando mi vedevo circondato da una cerchia di gente co­nosciuta, cominciavo la cantilena:

— Siamo esigenti, compagni. Se non salviamo noi l'arte, chi la salverà?

Converrete con me, avrete l'onestà di convenire, che le poche parole racchiudevano la potenza di un apostolato severo, una certa dignità da uomo onesto che ripudia l' esperpento2 degli eterni intinti di letteratura. Un uomo che alla luce del sole e sotto lampade da duecento candele, ha il coraggio di dichiarare che bisogna essere esigenti e lui, per pri­mo, si sottomette al suo principio, non scrive una sola riga per ragioni di esigenza, non può essere né un pedante né un ipocrita.

La tesi ebbe successo, entrò nelle aule universitarie. Molti cretini cominciarono a rispettare la mia posizione spirituale; persino molte persone che non simpatizzavano con me, da un giorno all'altro provarono nei miei confronti un'improvvisa amicizia, mi strinsero effusivamente le mani e mi promisero eterna solidarietà mentre mi incoraggiavano:

— Lei ha ragione. Bisogna essere esigenti. Chi non è esi­gente con se stesso, lo sarà male con il prossimo.

E benché possa sembrare falso, molti individui che stavano preparando capolavori, sospesero il loro arduo lavoro dichiarando:

— Abbasso i conigli della letteratura!

Fu l'anno della letteratura ibrida, la grande epoca del mu­lattismo letterario. In breve tempo mi trovai circondato da un seguito di giovinetti ironici, insolenti e ingegnosi.

Arrivavano dai luoghi più disparati; uno abbandonò la scuderia dove praticava merda e un altro il seminario, dove si trascinava con i suoi piedi noccoluti e le mani enormi, pallide e fredde. Alcuni si beffavano del loro cat­tolicesimo, altri del loro ultranazionalismo; però tutti, senza distinzione di sesso e di colore, agitavano la mia frase e convenivano sulla necessità perentoria di sterminare il suddetto facchino della letteratura, che faceva gemere le linotipe e inondava anno dopo anno il mercato, con due o tre libri impossibili da leggere, pieni di errori grammaticali e primitivi nella loro struttura.

E chi lavorava dalla mattina alla sera perché non era esi­gente con se stesso, tremò.

Annunciai ai miei compagni che stavo preparando l'Esteti­ca dell'Esigente, con un cocktail di cubismo, fascismo, marxi­smo e teologia. Diverse letterate si rallegrarono talmente quan­do lo seppero, che, in seguito a ciò, furono prese da furori uterini.

In poche settimane rendemmo i nostri principi popolari, li divulgammo nei caffè e nei cenacoli, e nell'arco di un anno scoprimmo che le leggi della nostra estetica erano condivise da un certo numero di geni anonimi. Dopo averli ben insapo­nati per eliminare ogni traccia di modernismo e aver rasato quel poco che rimaneva in loro di chiarezza e logica, li buttammo tra la folla estasiata.

La folla, è doveroso riconoscerlo con la massima franchezza e senza mezzi termini, non ci interessò mai. Dichiaro con orgoglio che ho sempre disprezzato il vasto pubblico, ma, visto che la gentaglia deve essere civilizzata, e noi, gli dei, non potevamo rimanere in eterno in alto con il pericolo di sgon­fiarci, accondiscendemmo a interessarci alle masse e infor­marle delle nostre scoperte nel mondo della bellezza. Ciò nonostante il pubblico (l'eterna bestia) continuò a non leg­gerci, a ignorare la nostra esistenza. I giornali su cui lavoravano i nostri amici battevano piatti e tamburi, e nolenti o volenti, gli abitanti di questo paese agropecuario furono costretti a prendere atto della nostra esistenza.

Molti genitori si spaventarono quando conobbero le nostre intenzioni, in contrasto con le loro buone usanze ideologiche, e nonostante ci professassimo dei ferventi cattolici, lo stesso arcivescovo ci scomunicò come eretici e creascandali, additan­doci come pericolosi per tutti coloro che si ritenevano devoti scrupolosi.

Prendemmo per i fondelli, se il termine ci è permesso, l'ar­civescovo, e organizzammo una brigata a difesa della letteratura altisonante e dell'onore letterario, creammo il tipo dello "squadrista" e "bastonatore"3 del fascio artistico.

La nostra bandiera fu seguita e difesa da ragazzini che, nonostante praticassero ogni forma di pederastia attiva e passiva, si battevano egregiamente rompendo, da buoni pugili, nasi a tutto spiano; e in meno di un anno regolammo i conti con molti geni anonimi e ufficiali.

Guai a chi pretendeva di opporci resistenza. Subito si creava il vuoto intorno a lui peggio che se fosse stato leb­broso. Non arrivammo all'eccesso di negargli il saluto, ma ci confederammo per lanciargli dardi da tutte le parti. A volte il dardo era un articoletto vacuo, un breve cenno a un suo libro appena uscito, e accanto alle tre righe insipide risaltava un articolo di due colonne su un autore messicano, filippino o polare. Oppure adottavamo il silenzio, quella complicità del silenzio per cui nessuno sa niente e che l'amar proprio dell'autore percepisce come acqua melmosa che lo inghiotte senza che lui possa fare alcunché per salvare la propria vita.

La nostra audacia acquistò un'arroganza tale che un giorno nelle pagine della nostra rivista annunciammo a lettere capitali:

D'ora in poi non discuteremo, distribuiremo una buona scarica di calci e bastonate.

Ma quali formidabili scoperte facemmo, comunque, in quell'epoca!

Mettemmo in chiaro, senza lasciare adito a dubbi, che i geni ufficiali e i talenti consacrati, erano l'esempio camuffato della vigliaccheria. Bastava un insulto minaccioso, l'insinua­zione di una critica anticipata perché, nonostante il loro odio per la nostra gioventù aggressiva, ci sorridessero amichevol­mente quando ci incontravano e ci avvicinassero rivolgendoci gli elogi più biechi e le adulazioni più servili.

Nonostante la nostra fosse un'opera negativa, svelammo con coraggio le malvagità dei banditi della letteratura; dimostrammo che il romanziere si vendeva allo spadaccino, poeta al saggista, e che tutti formavano un branco di spaventosi truffatori; che adulavano senza limiti i politici, gli uomini d'alto rango, e che scambiavano il loro scrupoloso servilismo per autentici premi provocando l'ilarità degli spet­tatori marginali. Che vita, Dio mio, che vita!

Lì finirono le poche illusioni che ancora mi rimanevano sulla dignità umana. La tecnica non aveva niente a che vedere con l'uomo. Chi scriveva una bella strofa era il più delle volte una latrina ambulante.

Questa delusione contagiò tutti noi, e un giorno ci sepa­rammo. La nostra coesione sociale resistette tanto quanto le saldature del fallimento possono continuare a legare.

Alla fine, ci stancammo di lanciare anatemi al vento. Era­vamo stanchi gli uni degli altri, e provammo persino un po' di vergogna per quelle piccole canagliate che avevamo com­messo avvalendoci dell'impunità concessa dalla coesione di più forze. L'uomo finisce per stancarsi anche di sputare in faccia ai suoi simili. È doveroso riconoscere che i nostri insulti erano giustificati da buone intenzioni, ma non si può essere generosi in eterno e ci disperdemmo. Erano passati due anni, forse più.

Riconobbi impaurito che, tranne uno scandalo passeggero,non avevo prodotto niente. Mi stavo muovendo allo scoperto, vale a dire; facendo affidamento su quanto prometteva la mia brillante giovinezza. Non volli darmi per vinto e scrissi alcune inezie, non tanto per il piacere di creare quanto per giustificare la stabilità della mia reputazione, messa in di­scussione dalle male lingue. Questa fu la prima scusa che addussi a me stesso, anche se non posso negare che la mia vanità in un primo impulso definì geniali simili bagatelle.

Suppongo (anzi lo dò per cento) che non ero né un coniglio né niente di simile, per infestate i giornali o le bancarelle di libri con la mia firma. Notevoli e penosi sforzi mi costarono quegli articoletti.

Notai che i miei colleghi non furono spaventati dalle prove di intelligenza che esibivo. Anzi, mi elogiavano in modo esa­gerato e si avvicinavano sorridendomi con spontanea e sin-cera cortesia. Evidentemente... non costituivo nessun pericolo.

La sorpresa fu tutt'altro che piacevole.

Mi ero illuso che la mia realizzazione artistica avrebbe pro­vocato delle resistenze, delle critiche velenose; mi immaginavo di ascoltare i miei colleghi mentre parlavano male di me, come siamo abituati a fare tra di noi quando qualcuno ha il cattivo gusto di distinguersi, ma mi sbagliai completamente. Mi tri­butarono elogi su elogi. Ebbi la dignità di ricevere attraverso i loro elogi la notizia del mio fallimento. La storia si ripeteva.

Mi celebravano, come io, in altri tempi, avevo applaudito certi scrittori inutili che non offrivano nessun margine di rivalità possibile.

Quando la sera ritornai nella mia stanza, mi si strinse il cuore. Da molto tempo ero triste, ma quella volta, quando considerai la solitudine del mio alloggio, il debole smalto dei mobili, i cannelli di vetro del paralume, il mio letto freddo scolpito di foglie azzurre su fondo dorato; quando scorsi con gli occhi i paesaggi che ornavano le pareti, ombre di grattacieli su torri babiloniche, alberi ricurvi su sentieri viola e gialli che si perdevano in lontananza, fiumi di rame che attraversavano prati verdi e pianure arrossate, non riuscii a trattenermi e piansi la mia pena. Perché non potevo scrivere? Come si era spezzato il meccanismo della mia volontà, del mio genio? O forse non avevo mai avuto volontà e il mio genio consisteva solo in un po' di entusiasmo da parte di qualche mio collega esagerato nell'apprezzare te mie capacità intel­lettuali? E se era così... allora la mia opera... che cos'era la mia opera?... Esisteva o era solo una finzione coloniale, una di quelle povere realizzazioni che l'infinita stupidità nazionale esalta per mancanza di qualcosa di meglio?

Dubitavo. Dubitavo di me... ma gli altri... cerano delle bestie che non dubitavano di sé. Scrivevano giorno e notte, ciechi, sordi, impulsivi come tori. E io non riuscivo a essere neanche un'orchidea... la stessa serra mi uccideva. Che cos'era allora? Verso quale parte dell'orizzonte guardare?

Ci furono dei momenti in cui anelai che tutti gli scrittori della terra avessero una testa sola. Che stupendo allora fracas­sare quell'unica testa a martellate, aprire una fossa in qualche deserto, seppellire molto in profondità l'ammasso umano ed esclamare a gran voce:

— La letteratura non esiste! L'ho uccisa per sempre!

Il tempo passava.

La mia impotenza tracciava un cerchio di fuoco e in esso mi rigiravo come uno scorpione. Che avevo dentro la testa?

Quanto avevo cavillato per meravigliare i miei simili, cer­cando una fonte dalla quale estrarre delle risorse che se non potevano abbellire la vita degli uomini, perlomeno potessero amareggiargliela!

Non sono un tipo psicologico tale da vivere in silenziosa mediocrità. Il genio, la bellezza, l'arte, costituivano per me un travestimento per nascondere le ridotte dimensioni della mia intelligenza, che a sua volta si appoggia sulla struttura di una vanità senza limiti.

Forse la tragedia della vita non si riduce a quell'opera d'arte che un giorno ho promesso al mio prossimo, e che non ho mai costruito.

In altri momenti felici della mia esistenza mi ero impe­gnato in creazioni troppo vaste. Scaturivano facili come colonne di fumo da boschi di camini. A chi mi voleva ascoltare parlavo dei miei personaggi che si muovevano nelle loro caverne di marmo, e il calore della parola aggiungeva all'idea una temperatura che ad essa mancava.

E non poter rompere l'impegno contratto mi avvelenava i giorni.

Come il demente estrae dalla sua pazzia gli elementi che lo affondano nello sconcerto della sua vita, così estraevo dalla mia immaginazione il veleno che ingialliva i miei occhi.

Non mi potevo rassegnare a rimanere un'anonima particella silenziosa, che di notte si sommerge nel sonno collettivo, mentre altri uomini creavano felici i loro capolavori alla luce di un lume infetto.

Desideravo essere una voce nel cuore di quel silenzio. Una voce nitida, perfetta. Perfetta no, la più perfetta.

Quante parole inutili e tristi! Come si stringe l'anima di fronte alla miseria della propria vita! Com'è povera la parola, com'è povera per esprimere l'angoscia interna; ciò che di incolto e tiepido nelle viscere si traduce in pensieri, assume una forma, se l'assume, che non ha niente a che vedere con essa.

Lo vedete, umanamente non valgo niente. Questa incer­tezza mi produce un profondo sconforto. So di non valere niente, ma non posso rassegnarmi all'evidenza. E allora mi dico: "Bisogna che io parli, che parli anche se tutti quelli che mi ascoltano sentono il bisogno di crocifiggermi o spu­tarmi in faccia. Può importarmi forse qualcosa se a un certo punto decidessero di crocifiggermi. La mia tristezza è ormai così antica, che capisco che anche se diventassi cieco dal pianto, la mia sventura non si ridurrebbe di un'oncia, avrei bisogno degli anni di un'altra vita per piangere la mia esistenza lacerata". E questa realtà si nascondeva sotto il petto dell'uomo che amava gli dei e si credeva un loro simile. Al posto di un cuore suc­coso rimase un frutto giallo, più aspro di una melacotogna.

Era chiaro che non suscitavo interesse in nessuno.

Mi ricevevano affettuosamente ovunque andassi, ma mi ricevevano con quella cordialità che si regala ai cadaveri viventi. Non suscitavo quel bisbiglio incuriosito, quei movimen­ti di testa, quegli "ah!" soffocati, quegli sguardi insistentemente fissi, che altri artisti nel vero senso della parala, provo­cano con la loro presenza, pur se considerata odiosa e inop­portuna.

Anche io avrei voluto essere odioso a qualcuno. Scrivere pagine maledette, che gli altri leggono di nascosto, perché credono di vederci un'allusione alla loro fisionomia spirituale, e poi, arrabbiati, indignati o schifati, le gettano nel cestino, fingendo poi con l'autore di non averle mai lette.

Di fronte a me, il vuoto, la tolleranza o la simpatia.

Divenni un critico letterario. Una fine logica, d'altra parte.

Attaccai crudelmente, giustamente, deliberatamente.

La mia sensibilità esasperata dal fallimento, sintonizzava le falle dell'arte altrui con un'acuta iperestesia da radiogonio­metro. Lì dove gli altri occhi vedevano una curva, io localiz­zavo il vertice di un angolo. Niente riusciva a piacermi. Come un vetro sporco, rendevo opaca la luminosità più raggiante.

E se fosse la mia unica anomalia...

Apparve in me l'anima dell'inquisitore.

Mi gustavo il libro che avrei distrutto, molti giorni prima di sedermi a tavolino.

Ricordo che prendendolo tra le mani, lo palpavo con una feroce soavità, lo leggevo lentamente e a pezzi, con il sussulto di chi commette un delitto lento e teme che ci sia qualcuno a spiarlo; e niente appariva più gradito ai miei orecchi che ascoltare il rumore della mia risatina secca, mentre immaginavo l'abilità con cui avrei smantellato quella fabbrica di parole. Pensando all'autore mi strofinavo nervosamente le mani, e gli dicevo dall'anfratto più nascosto delle mie cattive intenzioni:

— Hai lavorato, carogna. Volevi diventare celebre. Bene, ora avrai quello che ti spetta.

Molte volte non mi mancavano i motivi per essere violento e giusto, ma la giustizia di un temperamento come il mio è quasi sempre una scusa per dare sfogo agli appetiti più bestiali e agli istinti più bassi.

Che cosa non avrò detto in nome della letteratura!

Diventai una specie di ruffiano della repubblica delle let­tere; per sanzionare le assurdità delle mie esigenze e di quelle del gruppo a cui appartenevo, usai parole difficili e inventai teorie stravaganti.

Magnificai delle autentiche bestie apocalittiche e me la godevo pensando al dolore che avrei procurato agli scrittori sui quali, per invidia, si faceva calare il silenzio.

Mi divertii un mondo scrivendo colonne e colonne di elogio in onore di libri piatti e insipidi. Bisognava seminare la confusione, confondere l'intelligenza dei lettori; e giuro che più di un genio da soffitta ha digrignato i denti di fronte alle testimonianze stampate della mia iniquità e ingiustizia.

Isterico come un pederasta, maneggiai e criticai duramente uomini che avrebbero dovuto meritare tutto il mio rispetto, se sono capace di rispettare qualcosa.

Speravo che qualcuno di loro mi mandasse i padrini, pregustando uno scandalo futuro... ma ignoro se gli aggrediti fossero perspicaci o codardi... il fatto è che il mio gioco ma­ledetto non ebbe mai risposta.

Con poca fortuna nella critica negativa e positiva, finii nel settore della critica neutra, perfettamente obiettiva e che mi sembra potrebbe denominarsi, con un po' di senso comune, posizione di chi cerca nel gatto cinque piedi.

Con fare grave e stile ampolloso dissertai su ciò che giudi­cavo conveniente e inconveniente nel presente, per la Bel­lezza e annessi.

Prendevo un libro e invece di riferirmi ad esso e al suo contenuto, con la furfanteria di un uomo dotto nel ring della letteratura, facevo gioghi di corde e fraseggi di estetica ibrida. Così riempivo lo spazio innervosendo l'autore che vedeva che non andavo al sodo. A volte rimanevo sulle radici, altre sui rami; se era necessario mi rifacevo ai Veda, al Kalevala, a Budda o Zoroastro; se era indispensabile citavo Aristotele, Bacone, Graciàn, Benedetto Croce o Spengler, la Monita Secreta e il Manifesto comunista... ogni cosa andava bene, perché si trattava solo di riempire lo spazio, di dimostrare co­noscenze e non le abilità dell'altro. Arrivavo così alla fine dell'articolo, senza che il pubblico, né l'autore, né lo stesso Satana, potessero sapere che diavolo pensassi io del libro.

Gli autori continuarono a scrivere.

Non costituivo un pericolo, e allora abbandonai la cri­tica convinto che era incurabile. La categoria del farsi non esigeva un'intelligenza dell'altro mondo né niente di simile.

Da una parte c'erano gli imbecilli senza speranza, dall'altra gli intelligenti. Costoro, più vanitosi di una "cocotte", non ammettevano che gli si correggesse una virgola o che gli si segnalasse qualche imperfezione. Intransigenti e despoti, pretendevano di monopolizzare la perfezione. Isterici come si­gnorine, consideravano ogni osservazione un'offesa ai loro diritti di geni. In pubblico si guardavano bene dall'esterioriz­zare la loro collera, ma dentro erano divorati dall'ira.

Mi stancai di queste carogne e abbandonai la critica let­teraria.

Quando cercai di individuare il luogo spirituale in cui mi ero collocato, mi ritrovai a far parte di una moltitudine di piccoli falliti.

La malattia, la povertà, il delitto, l'odio, l'invidia, ogni sfu­matura della sventura, del vizio o del peccato, si cristallizzano involontariamente in una massoneria, conclave o fratellanza.

Queste tribù sconfitte socialmente si governano con leggi speciali, e nella nostra sfera di influenza al novizio che ar­riva perdonano i successi antichi in nome del suo fallimento presente. L'uno vale gli altri. Personalmente l'individuo è morto come promessa, d'accordo, però inevitabilmente risu­scita come fallito. E risuscitando come fallito, ha diritto al pane e al sale che nel deserto della letteratura vengono offerti al viaggiatore perduto. È l'ospitalità offerta all'uomo che avrebbe potuto essere e non è, allo sventurato assetatodi un po' di solidarietà umana, impossibile da trovare là, in quelle altezze territoriali, dove i letterati mostrano con­tinuamente i denti e gli artigli, grugnendo come tigri in calore: questo è mio e anche quest'altro.

Mi feci, o meglio, il destino mi fece diventare amico di uomini che in passato avevo disprezzato profondamente. Que­sti uomini erano, come me, artisti minori, vanitosi incre­dibili, mentecatti tali che se fosse vissuto amori de Balzac gli avrebbero rimproverato come un delitto imperdonabile una virgola mal messa o un aggettivo mal utilizzato. Tali per­sone che io avevo disprezzato (e loro lo sapevano), appena mi riconobbero cominciarono a tessere nuovi elogi per quanto avevo prodotto in altri tempi, e per un certo periodo quella devozione rispettosa tributata alla mia ex-personalità, mi inor­goglì come se si riferisse a cose presenti e non passate. E allora conclusi che li avevo sdegnati invano. Poco o niente mi differenziavo da loro. Ero un loro simile.

Se si riunivano e costituivano gruppi armoniosi di falliti, era perché la solitudine era loro insopportabile. D'altro canto, non avevano niente da fare. Le mie considerazioni sulla loro personalità risultavano inutili e stupide.

Questi scrittori che chiamavo falliti, erano delle ottime per­sone, solidali, capaci di fare agli altri non uno, ma più favori. Dediti all'arte in un'epoca in cui gli stessi notai parlano della luna, autori di uno o due libri di poesie morali dalle buone in­tenzioni, in nome di quella passeggera velleità dei loro vent'an­ni, ormai lontani, continuavano a spacciarsi per scrittori e poe­ti. Non c'era nessuno tra di loro che non avesse archiviato un capolavoro, che chissà quando si sarebbe deciso a pubblicare, perché non erano tempi da arte pura.

Si capisce allora perché questi signori non si impegnassero minimamente e preferissero al lavoro orribile di scrivete e limare, quello più facile di prodigarsi parole vane, o in loro man­canza, di andare tutti i giorni a un'ora determinata a rifugiarsi in cantine chiamate, ignoro perché, "gruppi d'arte".

In queste cantine si rifugiavano le tribù dei pittori, scultori, poeti e letterati, e gente appena arrivata dalle città dell'inter­no ansiose di mettersi in luce e conoscere da vicino la fac­cia di quel brutto insetto chiamato artista.

Lì si esponevano, da poco dipinti, quadri futuristi ormai da quindici anni passati di moda a Parigi o a Berlino e che facevano morire dalle risate i commercianti assennati, o acquerelli impressionisti che per meglio impressionare lo spettatore pre­sentavano un discreto rilievo sulla patta dei pantaloni.

Li si beveva birra con cocaina, lì i letterati si accapigliavano; e le scrittrici, per affermare la loro indipendenza, si vomitavano in faccia ingiurie da fruttivendole. Altre, per "me­ravigliare" le povere signore venute al seguito dei loro mariti "per conoscere la letteratura", gridavano a squarciagola che preferivano fare all'amore con le donne piuttosto che con gli uomini. C'erano dei momenti in cui uno credeva, a torto o a ragione, di trovarsi in prossimità di una succursale della Salpêtrière, o nel vestibolo di Vieytes 4.

Senza dubbio, grattando nell'animo di questi oziosi e di queste femministe, si sarebbe toccato un fondo di sublimato corrosivo.., ma io ero pazzo... pretendevo di bazzicare un mondo in cui si potesse contare una percentuale di cinquanta geni ogni cento persone di buon senso. Come se essere geni servisse a qualcosa.

Stavamo vivendo nel secolo della macchina. La macchina aveva incatenato l'uomo nel suo funzionamento imperioso. Tutto ciò che si allontanava dalla macchina era superfluo. Quale valore poteva avere una poesia di fronte a un motore in azione o una fabbrica in piena produzione? Era capace una poesia di alleviare l'annichilamento morale e fisico di mi­gliaia e migliaia di proletari soggiogati dalla schiavitù del salario? No. Allora a che cosa serviva una poesia?

Quando arrivavo a questo punto del ragionamento, mi di­cevo:

— Ogni epoca ha prodotto uno scrittore che ha superato la sua classe e, quindi, nessun orecchio ha potuto fare a meno di ascoltarlo.

Nel formulare questo pensiero non mi rendevo conto che il mio ragionamento era prodotto da un miraggio, che gli scrittori definiti universali non sono mai stati tali, ma scrit­tori di una determinata classe, la più eletta, compresi e ma­gnificati dalla cultura di questa classe, ammirati e venerati per le soddisfazioni che erano capaci di aggiungere alle raffina­tezze che, da sola, la classe custodiva come bene egregiamente acquisito.

I diseredati, la massa opaca, elastica e terribile, che attra­verso i secoli aveva sempre vissuto e continuava a vivere dibattendosi nella terribile lotta di classe, non esisteva per quei geni. E noi, scrittori democratici, logorati da mille conven­zionalismi in tutte le direzioni, eravamo totalmente incapaci di scrivere qualcosa che smuovesse la coscienza sociale mura­ta in un tedioso "lasciate stare".

Come altri miei amici, volli avvicinarmi alle masse lavora­trici. Non negherò che ero convinto che, assumendo una po­sizione simile, facevo al proletariato un grande favore. Chi, ai di fuori di noi (come dicevamo), avrebbe potuto orientare la classe operaia verso la risoluzione dei suoi problemi? Non costituivamo qualcosa come il sale della terra proletaria?

Ben presto alcuni operai eccezionalmente colti, aiutati dalla loro terribile dialettica marxista (che per la sua difficoltà non capisco ancora bene) triturarono i nostri concetti e la mia letteratura, e senza peli sulla lingua ci tacciarono di igno­ranti, vanitosi, opportunisti e fissati. E affinché non rimanes­sero dubbi su ciò che pensavano della nostra corporazione, mi fecero capire che il piacere maggiore che avrebbero potuto provare un giorno, era quello di mandare tutti gli scioperati del mio stampo a tagliare legna nei boschi o caricare sacchi di mais e grano nelle colonie collettive.

Tragico destino il nostro. Prima scomunicati dall'arcivesco­vo, poi anatemizzati dal proletariato.

Per alcuni mesi odiai con tutte le forze lo sporco proletariato e la sua spaventosa dialettica. Mi rammaricai del fatto che nel nostro paese non si fosse instaurato il regime fascista.

Lì stava il nostro posto. Chi altri infatti, se non noi, pote­va profetizzare una solida espansione nazionalista e mettere la nostra penna al servizio della patria e della bandiera?

Un giorno mi resi conto che stavo pensando delle scioc­chezze. Noi letterati stavamo male ovunque. Anche per essere dei lacchè di qualcuno o dei lustrascarpe di tutti, biso­gnava possedere un certo talento naturale che nel clima di queste latitudini non prospera con la necessaria succosità.

Mi appisolai per sette mesi, e lentamente la mia persona­lità acquistò la classica elasticità dell'indifferente.

E come colui che nel ricordo degli anni di benessere non può sottrarsi all'orgoglio procurato dalla comodità perduta e godu­ta, e in questa evocazione rafforza la sua superbia e aumenta le sue pretese, adeguando al suo stato di coscienza l'atteggiamento che assumerà di fronte agli estranei, io, come altri si tin­gono i capelli, finsi il mio fallimento. Gli conferii l'attestato di elegante.

La mia eleganza consisteva nell'ignorare ogni cosa.

"Il Tizio ha scritto un romanzo? Che peccato! Non ho avuto il tempo di leggerlo". "Caio si è fatto onore in un concerto? Quanto mi dispiace! Stavo in campagna quando ha debuttato". "Quell'altro Tizio aveva organizzato una mostra di quadri? Meglio per lui, anche se non l'ho saputo in tempo per visitarla".

Ero l'uomo che non sa nulla, neanche della guerra cinogiapponese.

La cosa preoccupante è che di gente come me, che non ha nessuna informazione, ce n'è moltissima nel nostro campo. Quando alcuni di noi si riunivano, era un problema trovare un tema di conversazione, e una serie di esclamazioni accom­pagnava la sorpresa che in tutti noi producevano gli avveni­menti di cui non "sapevamo" una parola.

La cosa invece su cui eravamo informatissimi, tuonasse o piovesse, malati o in viaggio, erano gli attacchi affibbiati aun collega da un qualsiasi critico da strapazzo.

La notizia si diffondeva come una saetta circolare, non c'era neanche il tempo perché uno potesse dire all'altro, con un allegro sorriso compiaciuto:

— Hai visto il Tizio come è stato attaccato?

Più la critica era ingiusta e malintenzionata, più festose erano le accoglienze.

Sapevamo che il piacere che provava l'autore quando pub­blicava un libro, veniva subito rovinato dalla critica, e quan­do ne parlavamo non era tanto per l'attacco in sé, quanto per il piacere che ci procurava sapere che c'era un collega che stava soffrendo nella sua vanità o nel suo orgoglio.

Un godimento infernale ci riempiva l'anima. E quando la gioia raggiungeva il culmine, per un minimo senso del pudo­re (che diamine, in definitiva eravamo degli esseri civili), allo scopo di discolparci di fronte a noi stessi, facevamo delle con­siderazioni obiettive sull'intelligenza del collega, e allora ci provocavamo per vedere chi meglio riusciva a porre nella giu­sta luce i valori intellettuali dell'accusato; ed era persino pia­cevole concedergli la patente di genio, naturalmente tra di noi e nella più rigorosa intimità e discrezione...

Sono sicuro che nessuno oserà negare che sono quanto mai singolari gli aspri cammini del fallimento.

Ma alla fine mi annoiai del ruolo dell'impassibile e buttai la maschera della imperturbabilità.

Alla spazzatura il dandismo e gli impotenti. Ero un uomo in carne e ossa, che ammirava il talento ovunque fosse, anche se buttato tra gli escrementi; e non posso affermare che mi costò molto trasformarmi in protettore di geni non nati, in manager di intelligenze crepuscolari e allenatore di talenti all'acqua di rose.

Scoprii due o tre bruti meravigliosi, li patrocinai, li cercai e mi detti da fare per trovar loro dei giornali su cui potessero collaborare, scandalizzai per loro un sacco di gente onesta e perbene, ebbi delle discussioni con i miei amici... Arrivai al punto di consigliare a un mio protetto di lavarsi, anche fosse una volta alla settimana, perché puzzava... ma questi geni, appena misero punte d'ali alle alabarde, diventarono dei va­nitosi insopportabili e sparirono come se la mia presenza ri­sultasse loro insultante.

Gli uomini mi delusero, e ancora una volta rimasi solo. Cercai per l'ennesima volta di lavorare, creare qualcosa di bello, permanente. Volevo turbare l'animo degli esseri uma­ni, farli sentire migliori o peggiori, ma il mio sforzo evaporò nel vuoto.

Passai lunghe ore seduto di fronte a fogli bianchi, imma­ginai che in virtù di un patto con un demonio tutelare, ero capace di scrivere qualcosa di simile alla Divina Commedia, e quando la mia piccola e dorata allegria raggiungeva il limite in cui supponevo cominciasse il territorio dell'ispirazione, scri­vevo, componevo due o tre righe, per poi scoraggiato lasciare appoggiata la penna sul portacenere.

Mi convinsi che di giorno era impossibile lavorare e otte­nere i benefici dell'ispirazione e feci ricorso ai favori della notte.

Mi resi conto che la mia stanza abbondava di libri, bei quadri, scelte comodità ricercate, e non so per quale motivo mi venne in mente che l'ispirazione, per manifestarsi, ha bi­sogno della monastica solitudine di una cella, il silenzio frani testano di un monastero sperduto tra le montagne, e allora feci sostituire i vetri delle finestre con dei "vitraux" che rappresentavano un paesaggio feudale, sostituii la mia como­da poltrona americana con un rigido panchetto coloniale, lo scrittoio con un severo tavolino antico, e la lampadina con un candelabro in ferro battuto e accesi la candela.

Ma né, il candelabro, né il tavolino, né la candela, mi con­cessero l'ispirazione cercata, e il panchetto coloniale raffor­zò le emorroidi di cui soffrivo, e che nella comoda poltrona americana erano sopportabili.

Abbandonai, già avanti con l'età, la mia casa e mi dedicai a correre avventure amorose. Probabilmente l'ispirazione si trovava tra le braccia di qualche donna; ma dalle braccia di facili ragazzotte e giovani borghesi esperte nel dormire nelle caserme senza perdere la verginità, scappai arricciato come un gatto quando gli rovesciano addosso un secchio d'acqua, e decisi di cambiare rotta.

Forse mi ero debilitato per il surmenage, e come un campione desideroso di detenere il primato di una gara atletica, mi dedicai anima e corpo alla ginnastica svedese, alla boxe e agli sport.

Sudai come un facchino nei campi di pallone, e più di una volta scesi da un ring con gli occhi gonfi.., ma l'ispirazione non veniva.

Alla fine mi convinsi:

Non avevo niente da dire. Il mondo delle mie emozioni era piccolo. Era questa la verità. Il mio spirito rimaneva estraneo agli interessi e ai problemi dell'umanità, alla vita degli

uomini che mi circondavano, preso solo ad alcune ambizioni personali, prive di valore.

Il mio stesso disaccordo con l'ambiente in cui operavo era si­mulato. A essere sincero, cinicamente sincero, la società in cui mi muovevo mi sembrava molto ben strutturata per soddisfare materialmente le necessità del mio egoismo. Quando l'arcivescovo mi scomunicò, probabilmente aveva ragione perché della sua religione non mi importava un fico secco. Quan­do mi avvicinai agli operai, il mio impulso fu artificiale, era un gesto, e non posso affermare, onestamente, che mi importi qualcosa se gli operai stanno bene o male. Che rimangano con i loro problemi! Sono loro profondamente grato per avermi scacciato, perché altrimenti, non so come, per un impulso di stupida vanità mi sarei complicata l'esistenza.

Sono un borghese egoista. Lo riconosco. Per questo niente riesce a indignarmi seriamente. Né il bene, né il male. Non pro­vo neanche m'ardente ansia di meravigliare il prossimo. Se in qualche parte ho detto che soffrivo quando non potevo scri­vere, mentivo. Mi sono allontanato dalla vanità per ornare la mia personalità con un attributo che potesse renderla inte­ressante.

Non negherò di essere stato infastidito per un certo perio­do dalla mia vanità. Ma la mia vanità si appagava quando scopriva che l'insufficienza mentale degli altri uomini, anche quelli che avevano successo, era di gran lunga maggiore della mia.

Ho compiuto azioni buone o cattive tanto per distrami.

Solo per pochi attimi sono riuscito a odiare chi meritava il successo. I miei sentimenti vibrano così poco che non posso amare né odiare nessuno, se non per poco tempo. Poi spunta in me un'indulgenza ironica e scherzosa.

Voglio denudarmi completamente.

Sono felice di essere così, sterile, misurato, secco, gentile. Ho l'orgoglio di pensare che nella mia personalità può fran­tumarsi l'infinito, senza che vi si depositi la pur minima par­ticella di immensità.

A volte una raffica di rabbia mi intorbida le pupille, poi stringo le spalle. Sostituisco l'odio con l'antipatia, e l'antipa­tia con l'indifferenza.

Ed ho sostituito la mia indifferenza di non sapere le cose con quella un po' più sottile, politica e ironica, di elogiare ogni cosa. Il buono e il cattivo.

Continuano ad avvicinarsi dei malvagi che sperano di go­dere di fronte allo spettacolo del mio fallimento e vogliono ve­rificare fino a che punto sono amareggiato. Per farmi parlare, sparlano di altri che lavorano indefessamente. Ma io subito li sconcerto dicendo:

— Come! Tizio ti sembra un cattivo artista? Ti sbagli, caro. E' dei buoni, sul serio...

Sfido chiunque a saper trarre maggior vantaggio di me dalle intenzioni artistiche, dai saggi mal riusciti e dalle cecità e le zoppicature degli altri.

Noto allora, con piacere, che quelli che mi credevano ina­cidito se ne vanno costernati, senza sapere come classificarmi.

E così passano gli anni. Dalla mia inettitudine si ricava una filosofia implacabile, serena, distruttiva:

— Perché affannarsi in sterili lotte, se alla fine del cammino si trova come unico premio un sepolcro profondo e un incerto infinito?

E so che ho ragione.

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Note

1- Così nel testo

2- Si riferisce all’uso che della parola esperpento fece Ramón del Valle Inclán, dando questo nome a brevi opere teatrali di carattere grottesco e farsesco.

3- Così nel testo

4- Manicomio di Buenos Aires




(Racconto tratto dalla raccolta Le belve, Savelli editore, Milano, 1980. Traduzione di Angiolina Zucconi.)





Roberto Arlt nasce a Flores, uno dei numerosi quartieri di Buenos Aires, nell'anno 1900, e muore nel 1942. La sua opera letteraria comprende quattro romanzi: II gio­cattolo rabbioso (1926), Savelli, 1978, I sette pazzi (1929), Bompiani, 1971, I lanciafiamme (1931), Bompiani, 1974, e EI Amor Brujo (1932); un libro di racconti: EI criador de gorllas (1941); molte opere di teatro e mol­tissimi articoli pubblicati in Aguafuertes portenas.




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