TIERMUSIK



Daniel Moyano

 

La sua presenza dentro la chitarra non mi destò né sor­presa né stupore. Forse un po' di paura, che non veniva pro­prio da me; è probabile che emanasse dallo stesso animale e si mescolasse con la mia. Credo che in quel momento, invece di analizzare coscientemente quel che succedeva, pensai a quelle bestiole che orinano quando hanno paura; e così la possibile novità della sua esistenza dentro lo strumen­to si perse in una distrazione.

Ogni volta che mi sono chiesto perché avessi accettato così a cuor leggero l'intrusione di quell'animale nella mia vi­ta privata, le risposte possibili erano, da una parte, che l'ani­maletto era entrato per gravitazione naturale e senza alcun tipo di violenza a far parte della mia vita intima, si era inse­rito in quell'insieme di cose quasi inavvertite, essendo trop­po vicine, che costituiscono quella specie di rifugio dal mon­do esterno che è ognuno di noi; dall'altra, che la bestiola rappresentava una nuova violenza, una sottomissione in più, un altro passo verso la perdita di una libertà sempre più diffici­le da mantenere. E la polarizzazione delle risposte mi fece sfuggire la faccenda di mano.

Il fatto che la mia chitarra fosse diventata la sua tana abi­tuale non alterò l'esercizio consuetudinario delle scale gior­naliere. Il rumore frusciante delle sue zampe all'interno dello strumento non era più fastidioso di quello delle mie dita quando scivolavano sulle corde metalliche. Oltretutto, i due suoni si assomigliavano al punto di fondersi in uno solo.

Quella mescolanza era la forma che assumeva la mia accet­tazione obbligata di quasi tutti gli avvenimenti, che appena capivo. Per quel che mi toccava vivere, per quel che succe­deva allora, un animale della sua natura non era affatto inso­lito. La cosa davvero insolita era allora la realtà quotidiana.

Si tratta di un piccolo rettile che non assomiglia a nessu­no di quelli conosciuti, forse un prodotto del microclima di questa regione isolata in un Paese sconfinato. Gli individui della sua specie sono rari e si distinguono per la loro passione per la musica. Quest'ultima, o quello che ne possono per­cepire loro, li attrae come la luce certi insetti. Si avvicinano al suono girandoci intorno molte volte e poi, da una distan­za scelta accuratamente, identica per ogni individuo, ascol­tano concentrati, lasciandosi penetrare dalla musica fin nelle viscere. Però non credo che siano davvero sensibili alla musica, almeno per il concetto che abbiamo noi di sensibi­lità musicale. Penso forse che la trasformino, per mezzo di qualche ghiandola, in impulsi o in energia, in rappresenta­zioni plastiche, in visioni che vanno oltre i loro sensi, in qualche attributo della loro memoria zoologica, in moltiplicazio­ne del tempo, chi lo sa. O forse per loro la musica è sempli­cemente fuoco, una specie di falò, sono molto sensibili al freddo. E come se ascoltassero con la pelle; non sono mai riu­scito a individuare i loro orecchi. La distanza che li separa dalla fonte sonora è sempre la stessa. Nelle notti in cui il ri­flesso della luna permette di distinguerli con chiarezza è pos­sibile osservare che stanno tutti alla stessa distanza dallo strumento (molte volte ho suonato per loro) come i punti di una circonferenza dal suo centro. E non ho mai visto nessu­no variare quella distanza, tranne, chiaramente, quello che aveva deciso di venirsene a vivere nella mia chitarra.

L'importanza del gesto di questo esemplare ribelle è dimostrata dal fatto che non possono vivere senza libertà. Quando li si cattura muoiono immediatamente, e se qual­cuno prova a prenderli in mano si disfano e scompaiono. Pur essendo animati, c'è qualcosa in loro (almeno in quello che abitava nella mia chitarra) che partecipa della condizione di quel che intendiamo per oggetti o cose. Quando usciva dalla chitarra, per motivi che ignoro, se ne stava settimane in­tere immobile su uno scaffale della libreria, o in terra accanto al leggio, trasformato di fatto, per la sua posizione e per il suo atteggiamento, in un oggetto di ceramica o in una sta­tuetta di legno. Questo mi faceva pensare che la loro natu­ra fosse provvisoria, che si limitassero a transitare per il mon­do (e per la vita) e che un giorno avrebbero finito per trasformarsi in puro suono.

Non si può neppure nominarli degnamente, non hanno meritato, nonostante la loro persistenza, che suppongo mil­lenaria, la convenzione di una parola. E stato inutile con­sultare le zoografie regionali, non c'è notizia di loro. In spa­gnolo almeno, non hanno nome. Utilizzando reperti lingui­stici indigeni che pochissimi conoscono, alcuni li chiamano Mentre o qualcosa del genere, altri Intorno, qualche volta Pericolo o Danno. Con approssimazione, per forza, i termi­ni sono intraducibili. Mia madre, che è straniera, inventò la parola "Tiermusik" per il nostro esemplare, ma lo fece do­po qualche anno, quando l'animale non esisteva più, in un certo senso neanche noi, almeno con dignità. Tiermusik, secondo mia madre, era una parola troppo bella per quello che lei considerava un rifiuto biologico.

La nuova situazione doveva essere stata più difficile per lui che per me. Qualsiasi adattamento presuppone cambiamenti dolorosi, e per l'animale che affronta la realtà, sicuramente senza difese mentali, la sofferenza è puramente vi­scerale, diciamo che è solo con la sua ferita. Non può pensarla né esprimerla, c'è il dolore ma non la parola per dirlo o gridarlo. Il suo salto qualitativo all'interno dello strumento era stato dettato forse dalla certezza o dalla garanzia di un alimento musicale permanente. Però, per sua disgrazia, vivere dentro una chitarra non significava necessariamente musica: ci voleva qualcuno che la suonasse. E questo fatto, che lui non poteva assolutamente intuire o percepire, era la sua vera realtà. Lui aspettava il suono come unica conseguenza possibile e unica giustificazione del salto che aveva fatto, ma esisteva la possibilità che il suono non arrivasse mai se io avessi smesso per sempre di suonare per un qualsiasi motivo estraneo al suo sentire. E pur senza arrivare a que­sto estremo, sicuramente le sue attese erano terribili, nes­suno sa come loro misurano il tempo, impossibile sapere quale eternità poteva aprirsi per l'animale nella semplice pausa di una croma, per esempio. E se l'attesa di suoni si mi­surava in ansie e sofferenze, allora il suo tempo, nel quale in un modo o nell'altro mi coinvolgeva o mi includeva, era pieno di morti e resurrezioni successive, di eternità parallele, di mutazioni e ritardi e altri inutili orrori che mi comunicava con le sue cadute sul fondo dello strumento quando lo sollevavo per suonare, o uscendo bruscamente, nelle inter­minabili pause d'intero o per le note troppo acute che non poteva sopportare, sgraffiandosi la pelle fra le corde e il le­gno per andare a rifugiarsi su uno scaffale della libreria, da dove mi guardava spaventato coi suoi occhi di carbone at­taccandomi la sua angoscia.

La mia mano era abituata al suo peso; anche se non lo sentivo rotolare sul fondo della cassa sapevo, dal peso dello strumento, se era dentro o se era uscito. Anche se si assen­tava per ore (in genere durante la siesta, lui sapeva che a quell'ora non suonavo mai), la sera ritornava sempre, spe­cialmente d'inverno. Quando non c'era, ne approfittavo per esercitarmi con le scale più alte. Se c'era, le evitavo accura­tamente, e così la convivenza era perfetta. Il fatto di andare e venire dimostrava che il suo salto non era stato puramen­te casuale o meccanico. Se così fosse stato, tutti i Tiermusik della regione si sarebbero cacciati nella mia chitarra. Era stato un desiderio, l'ansia di un singolo individuo quel che l'aveva portato alla sofferenza che ora ci univa. Io non sape­vo concretamente che cosa cercasse lui dentro la mia chi­tarra né se l'avesse trovato. Non mi era nemmeno chiaro che cosa significasse per me, se era un intruso nella mia vita o se ne faceva già parte. Quel che sapevo è che il mondo era pieno di orrori da una parte e di amore dall'altra, e che qui non si trattava né dell'uno né dell'altro caso, perché oltretutto in questo Paese noi non viviamo: ci culliamo senza capire. Si­curamente lo stesso succedeva a lui quando tentava di fissarmi col suo sguardo opaco dagli scaffali della libreria, scru­tandomi, cercando una inutile o inesistente connessione fra la mia povera forma esterna e il suono, che era quel che lui cercava. Mi guardava come si guarda un albero, senza riu­scire a distinguerne la composizione dei rami e delle foglie. Io per lui ero come un paesaggio, e come tutti i paesaggi, che sono oggettivamente al di fuori di noi, ero privo di sen­so. E ci cullavamo insieme.

Mia madre non tollerava la presenza del Tiermusik. Fra paure e isterismi, diceva che per questo ci avrebbero perse­guitati, che a noi senza dubbio ci avrebbero puniti severamente ma a lei, essendo straniera, in meno di una settima­na l'avrebbero accompagnata alla frontiera e si sarebbe vista costretta a ripercorrere un cammino che l'avrebbe portata direttamente al cuore dei suoi aguzzini (sono parole sue), esseri per noi ormai svaniti nella leggenda ma che per lei erano molto reali e continuavano a tormentarla al di là degli anni e della distanza. Non ho mai saputo perché mia ma­dre fosse venuta a vivere in questo Paese e in questo vil­laggio, né perché fosse fuggita dal suo, non so neanche di dov'è. In genere so molto poco del mondo: mi accontento del mio Tiermusik.

L'ultima volta che suonai in pubblico, per lei fu una tortura. L'animale si arrabattò per resistere durante tutto il concerto, a dispetto delle note acutissime di alcuni dei pezzi eseguiti, note che facevano disperare mia madre preoccu­pata per lo spettacolo che ci poteva dare la bestiola uscendo dalla chitarra in pieno concerto. Quando terminai e mi trattenni per salutare, con la chitarra che pendeva da una mano, si sentì chiaramente il rumore delle zampe del Tier­musik che rotolava sul fondo della cassa armonica. Accesero le luci della sala e l'unica cosa che riuscii a vedere del pub­blico fu la faccia di mia madre che pareva enorme, la paura diffusa che ne alterava i colori fino a farli sparire in uno spa­smo bianco come di ghiaccio che s'incrina, proprio il colore che immaginavo io quando lei parlava del cuore dei suoi aguzzini. Non so se il resto del pubblico avvertì la presenza dell'animale, ma sono sicuro che allo stato dei fatti tutto il paese sapeva dell'esistenza nella mia chitarra di quell'ani­male proibito, e tacevano generosamente perché non arri­vasse all'orecchio dei gerarchi che disponevano delle nostre vite e che per molto meno potevano mandarci al confino. La paura di mia madre non svanì sulla sua faccia né si perse nell'aria: si trasmise a me e mi entrò nel sangue. Io salutavo ringraziando per gli applausi mentre sentivo la paura che aveva il mio sangue, non io, che l'animale uscisse spaventato, con la pelle lacerata dalle vibrazioni alte, si dirigesse ver­so il pubblico, attaccasse le autorità, mordesse le gambe delle loro consorti e il concerto finisse in un disastro. Ma il me­raviglioso Tiermusik, guidato dalla sua stessa paura, rimase buono buono sul fondo della cassa, perfino quando uno dei gerarchi più importanti si avvicinò per congratularsi con me e domandò chi fosse il liutaio che aveva costruito la mia chi­tarra, esaminandola dal di dentro, mentre mia madre, pro­tetta da mio padre, si rintanava in un angolo poco illuminato e si prendeva la testa fra le mani nella posa degli estremi sacrifici dicendo che quella sala era piena di aguzzini e di torturatori, che la superstizione dei nativi (qui ci sono anco­ra molti indios, l'unica cosa da salvare di questo Paese) alla fine l'avrebbe condannata, che sarebbe tornata nella sua ter­ra perché la uccidessero una volta per tutte.

In casa tutti suonano uno strumento ad arco. La mam­ma aveva portato dall'Europa un baule pieno di spartiti che conosco a memoria, che abbiamo diffuso negli altri villaggi allietando in qualche modo la vita miserabile dei nativi, che sono musicisti per natura benché non possiedano strumen­ti. Per più di vent'anni la mamma ha insegnato loro a cantare, trasformandoli in strumenti musicali. Sono quelli che mi hanno sempre incoraggiato, gli unici che trovavano naturale che avessi un Tiermusik nella mia chitarra. Una volta all'anno, per l'anniversario della fondazione del Paese, diamo un concerto pubblico, nella sala municipale delle cerimonie. E allora che la mamma mi lascia suonare come solista, di­menticando il suo disprezzo per gli strumenti a corda pizzi­cata, che per lei è come non esistessero. Ed è sempre allora che alcune persone mi si avvicinano e mi domandano che cosa ci faccio in questo Paese, perché non mi decido ad andarmene e a girare il mondo e a riempirlo con la mia musica. L'idea di partire di qui e il ricordo del mio Tiermusik, che un giorno, quando me lo avvelenarono, ho dovuto pian­gere, sono le uniche cose che mi permettono di sopportare la realtà che mi circonda.

Intanto il mondo intorno cambia rapidamente, sempre in peggio, con ritmi che annullano il piacere morboso del tempo, nostro unico rifugio. Non esco mai di casa per evitare che certi individui mi voltino le spalle quando mi vedono apparire. Oltretutto duro fatica a seguire qualunque tipo di conversazione. Se mi sento obbligato a dire qualcosa, a sostituire con parole inutili questo silenzio che è la mia so­pravvivenza, dico cose che appaiono incomprensibili e in ge­nere non so nulla di nulla. La gente accetta con gesti com­passionevoli gli spropositi che dico. Allora cerco di rendere le mie parole attinenti al tema della conversazione, di ade­guarle senza giri contorti alla realtà di cui si parla, facendo un tremendo sforzo dialettico, ma io so esprimermi solo coi suoni, e mentre parlo avverto che nemmeno io so fino in fondo quel che intendo dire. E questo perché non riesco a capire quel che succede. Tutto ciò mi ha impedito di lottare, di amare, di desiderare e di fare altre cose che rientrano nella normalità. Sono riuscito solo a sopravvivere, o a cullarmi, che poi è la stessa cosa, e mi sento di troppo in ogni situa­zione. A volte invidio il Tiermusik. Lui alla fine aveva tro­vato una forma di libertà nella mia chitarra, aveva avuto il

coraggio di fare il salto. Per noi, invece, la libertà è qualco­sa che assomiglia sempre di più alla parola mai.

Queste bestiole, a quel che ho visto, hanno il potere di andare oltre i propri sensi, che è la condizione indispensa­bile per poter cambiare il senso del mondo. Noi non pos­siamo farlo per una ragione molto semplice: siamo alla fine dell'avventura. Io ho sempre saputo, ancor prima dell'apparizione del Tiermusik, che tutto era bloccato. Le cose che accadono, almeno dacché ho memoria, permettono di pen­sare a ragion veduta che la libertà è impossibile e che ogni tentativo di evasione annichilisce. Per questo proteggevo il mio Tiermusik, perché non gli succedesse la stessa cosa, benché fosse, come diceva mia madre, un rifiuto biologico. Rifiuti, mondi sospesi, borgate, indigeni maltrattati fino all'orrore: chissà che non siano le uniche cose a salvarsi, quan­do tutto questo sarà distrutto.

Dopo l'ultimo concerto accaddero cose molto violente che aumentarono i timori di mia madre, sul cui volto riap­parve, secondo mio padre, la stessa espressione, disegnata dal ricordo di disgrazie, che aveva quando arrivò dall'Euro­pa col suo baule di musica. La musica, ufficialmente, diven­tò un'attività sospetta. La mamma fece costruire dei muri di cinta altissimi per isolare la nostra casa dal resto del paese. La mia camera si trasformò in un sobborgo dove arrivano a malapena, deformati, i rumori esterni. È come vivere all'in­terno di uno strumento, proprio come il Tiermusik. Da al­lora, le poche volte che facciamo della musica, in segreto e con la sordina, la mamma chiude prudentemente qualun­que apertura da cui il suono possa sfuggire all'esterno.

Quando esco a fare due passi, le poche persone che ve­dendomi non cambiano marciapiede per schivarmi mi rac­comandano di stare molto attento. Mi dicono che siccome non esco mai ci sono cose che ignoro e che possono rivelarsi pericolose. Ci sono torture, persone scomparse, situazio­ni terribili che è meglio non nominare nemmeno. Le notti hanno smesso per sempre di essere silenziose, sono piene di rumori e di grida che non arrivo a percepire data l'altez­za dei muri di cinta. Ed è come se tutto stesse finendo, sen­za nessuna speranza.

Nonostante tutto, io una la conservo; dolorosa, perché la so inutile in anticipo. La speranza di partire. Se potessi, par­tirei da questo Paese, fuggirei verso la mia terra natale, per esempio. Ma c'è una difficoltà insuperabile: questa è la mia terra natale. Dove fuggire allora?

A volte, sottraendomi con tutta la forza del desiderio alla mia natura, dimenticatomi di me come persona, riesco a calarmi in una condizione da Tiermusik. Mi metto nei suoi panni, faccio finta di essere lui, cerco di fare il salto che mi riscatti da quel rifiuto biologico che sono. E in quei momenti eccezionali è possibile intuire un luogo in cui fuggire, una specie di nuova terra natale.

Non so come sia, non riesco a immaginarlo e la cosa più probabile è che quel luogo non esista da nessuna parte. Tut­tavia ci sono delle volte, quando riesco a essere interamen­te un Tiermusik, in cui socchiudendo i miei occhi di carbo­ne riesco a intravederlo, a scorgere qualcuno dei suoi contorni miracolosi.


 


(Brano tratto dalla raccolta Il trillo del diavolo, Giunti editori, Firenze 1994. Traduzione di Giovanni Lorenzi.)


Daniel Moyano nasce a Buenos Aires nel 1950. Trascorsa I'infanzia a Córdoba. nel 1959 si tra­sferisce a La Rioja. la città in cui si svolgono la maggioranza dei suoi racconti. clone si impegna come giornalista. scrittore e musicista (suona il violino sia in un quartetto che in orchestra). Nel 1960 pubblica il suo primo libro. una raccolta di racconti intitolala Artistas de variedades. cui se­guono in breve altri libri che attirano su di lui l'attenzione di scrittori come Leopoldo Marechal Augusto Roa Bastos e Gabriel Garcia Márquez. E¬ proprio una giuria composta da questi tre scrittori assegna nel 1967 al romanzo El oscu­ro l'importante premio "Primera Planeta — Su­damericana". questo seguiranno nel 1971 Il trillo (lei diavolo. forse il suo capolavoro. e nel 1975 El vuelo del tigre. Arrestato senza motivo apparente in seguito al golpe del 1976. appena rilasciato emigra a Madrid. dove nel 1985 pubblica la sua (ultima opera di rilievo. il romanzo Libro de navíos y borrascas e dove muore nel 1992.

 

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