L’ALTRA FACCIA DELLA LUNA


Elisabetta Maltese





Si erano conosciuti in una chat: era la loro prima volta. Era diffidente, e quando lui si qualificò come psichiatra, gli rivolse domande precise a cui non seppe rispondere. Si difese ammettendo di aver detto una mezza bugia visto che era un medico, e lei gli confidò di essere un quasi medico. Dopo uno scambio di parole impacciate, si sentirono goffi in quel mondo virtuale e decisero di migrare in quello più romantico delle e mail.

Era più grande di lei, un uomo importante, impegnato con una donna che amava.

Lei era sola e non trovò sconvenienti quelle lettere in cui si scambiavano ricette, pensieri.

Si scrissero per mesi.

Ogni giorno aspettavano sempre più impazienti la risposta dell’altro e alla fine la curiosità prese il sopravvento: decisero di conoscersi.

Lei era emozionata , ma doveva immergersi nella realtà prima che il sogno prendesse il sopravvento trasformandola in altro.

S’incontrarono dove lui lavorava, in un tardo pomeriggio: lei intimidita, lui imbarazzato dai suoi occhi verdi, vivi, profondi. Il giorno dopo le scrisse del suo inaspettato stupore.

Divennero amici.

La consigliava nei suoi studi, lei, invece, accoglieva le confidenze sul suo amore, meno perfetto di come lo raccontava.

Il tempo passava.

Ogni tanto s’incontravano. Il giorno dopo le scriveva quanto fosse estasiato dal suo modo di sentire la vita. Lei era felice ma consapevole dell’esistenza di un’altra donna.

Si consideravano amici, ma nell’aria si percepiva quanto non fosse vero: il fascino che lui subiva aveva un altro sapore.

“Perché un uomo così non s’innamora di me?” si chiedeva, con rammarico.

Il tempo, intanto, continuava a passare.

Lei incominciò a raccontarsi: la tristezza, le delusioni per i tentativi di storie che fallivano; lui continuava a parlarle del suo amore, finito, della fatica di convivere con la solitudine.

Erano diventati un porto sicuro dove sapevano di potersi rifugiare nei momenti difficili.

Si vedevano poco e quando accadeva lui non si staccava da lei, come un bambino che non vuole separarsi dal suo gioco preferito, e lei rideva felice.

Ormai erano trascorsi più di quattro anni.

Lui era dolce, accogliente: l’unico uomo che la comprendeva profondamente.

Lei era ancora sola, lui, pur di non esserlo, aveva una donna che non stimava e non amava.

Non riusciva a capacitarsi di come un uomo del suo valore potesse accontentarsi e lo rimproverava per il tono sprezzante con cui la descriveva. Lui ammetteva la sua debolezza: la tristezza di trovare le luci spente in casa, la sera.

Sebbene non approvasse, lo accettava: erano amici, gli voleva bene e non lo giudicava. Ma era delusa.

Cominciarono a vedersi più spesso. Andavano la sera in un pub ad ascoltare un gruppo che suonava malissimo e che la faceva tanto divertire. Nonostante i “musicisti” fossero suoi amici, lui era soggiogato dalle sue battute caustiche e non si offendeva.

Era maggio, e in una di quelle sere, accompagnandola in macchina, la baciò voracemente, con forza, passione. Sembrava volesse mangiarla, farla sua. Il desiderio che lo aveva accompagnato in quegli anni era prepotentemente emerso.

Lei gli ricordò che entro qualche ora sarebbe arrivata l’altra. Non poteva permettersi d’essere felice, di lasciarsi andare. Stordita, non riusciva a pensare, non sapeva cosa provare.

Lui, intanto, biascicava della differenza d’età e delle difficoltà che comportava, della sua sorpresa, di quanto la desiderasse, e di altre cose per lei prive di senso.

I suoi deliri la riportarono alla realtà e, guardandolo, severa e scoraggiata, lo pregò di non sparare stronzate: se un uomo vuole una donna sa cosa fare.

Doveva prendere una decisione, fare una scelta.

I giorni trascorrevano, segnati dai messaggi d’amore che le mandava.

…Ma continuava a frequentare l’altra.

Le fece capire chiaramente che la decisione dipendeva da lei: un cenno e sarebbe stato suo. Di fronte a tanta fragilità, decise di dargli quello che voleva. Lui, incredulo, temporeggiò ancora.

La vita decise per lui, e tornò ad essere un uomo libero.

Ormai, però, l’aveva delusa. Non si era comportato da uomo delegandole una decisione che sarebbe dovuta sgorgare spontaneamente, e mai si sarebbe aspettata di essere trattata in quel modo proprio da lui, l’uomo di cui più si fidava.

Qualcosa si era rotto, forse il velo era caduto: era un uomo confuso e l’aveva ferita.

Ma lo aveva atteso per anni: meritava una possibilità!

Gli chiese tempo, pregandolo, però, di aiutarla a riacquistare fiducia in lui.

Per lei, avrebbe fatto qualunque cosa. Tornò dalla Puglia per vederla. Non le diede il tempo che gli aveva chiesto e la volle sua.

Glielo permise, convinta, dopo tante spiegazioni, di essere stata compresa, che fosse giusto che la vita prendesse il sopravvento e seguisse il suo corso.

Trascorsero tre giorni insieme, senza separarsi.

Per lui era come se nulla fosse accaduto prima, e iniziò a rimproverarle il suo sguardo freddo e interrogativo, la sua insofferenza; lei si sentiva non considerata.

Soffocava. Lo lasciò, lui tornò in Puglia.

Parlarono ancora. Telefonate interminabili in cui lei gli chiedeva sostegno, mentre lui, sordo, pur d’averla, le prometteva il mondo, perché l’amava, ora lo sapeva: l’aveva sempre amata.

Passarono altri giorni, tutti accompagnati da una sua telefonata. Era di nuovo l’uomo che aveva sempre conosciuto: dolce, comprensivo, avvolgente.

Ritornò e lei lo accolse.

La voleva per sé tutte le sere: doveva stare con lui.

Le cucinava i piatti che preferiva, mise uno spazzolino in più in bagno, fece spazio nell’armadio.

Il cellulare, però, non poteva squillare. Se accadeva era sicuramente perché un altro uomo la voleva. Non poteva essere altrimenti: lei era meravigliosa, un regalo per chiunque l’avesse accanto, così bella da vedere, così affascinante d’ascoltare. Qualunque uomo l’avrebbe desiderata, ma lui non faceva regali: era sua, solo sua.

Doveva diventare una donna seria, fedele, come era giusto che fosse la sua donna.

I cellulari rimanevano accesi sul tavolo, e una volta che lei li spense per parlare senza essere disturbata, le diede della puttana, e la prese con forza per il collo, accecato dalla gelosia.

Soggiogata, tornò bambina. Cresciuta nella violenza, divenne piccola, rivivendo un passato che pensava di aver già affrontato.

Non lo lasciò: gli diede un’altra possibilità. Non avrebbe dovuto spegnere quei cellulari. Aveva sbagliato ed era stata giustamente punita.

Passavano i giorni, e lui faceva progetti con la bambina: matrimonio, e soprattutto un figlio. Provò a farlo. Lei era felice: lo aveva sempre desiderato, ma il pensiero, la sola possibilità che fosse davvero presente dentro di lei la rese diversa.

Smise d’essere bambina: era una probabile madre.

Guardò quell’uomo che farneticava parlando di nomi, di convivenza, di come affrontare i problemi pratici. L’osservò, lungamente, pensierosa, e, tornata donna, capì che prima di essere genitori si doveva essere coppia: loro non lo erano. Volle la pillola del giorno dopo.

Stette male e lui non l’aiutò: la lasciò dormire sul divano, in preda alle lacrime e al dolore fisico.

Il giorno dopo le comunicò che avrebbero riprovato.

Lei sfoderò le unghie. Cominciò ad attaccarlo per le sue ossessioni, per come l’aveva trattata mentre stava con l’altra.

Divenne come sua madre: una donna in cerca di vendetta. Le vecchie dinamiche che aveva vissuto da piccola divennero reali anche in quella casa, dove ogni sera tornava, sempre più esasperata.

Lui l’aggrediva, con forza cercava di addomesticarla, di educarla. Doveva farlo perché lei era una puttana, e visto che ormai l’amava disperatamente, doveva redimerla.

Le cancellò i numeri dal cellulare, le urlò quanto la volesse, la pregò di non frequentare nessuno, di essere solo sua, perché solo lui poteva mostrarle l’altra faccia della luna, solo lui poteva amarla.

Lei gli gridava che non c’era nessuno, che era un pazzo. Ma lui non voleva discussioni: doveva stare zitta.

Come sua madre prima di lei, aderì a quel destino che pensava inevitabile.

E passarono altri giorni…

Litigate, ma senza urlare, perché lui era un uomo importante e la sua reputazione andava salvaguardata. Continuava a darle della puttana, a chiederle con chi fosse stata quando non era con lui.

La voleva ogni sera, di notte la prendeva con disperazione, avvertendo la sua assenza.

La sua vendetta era allontanarsi dalle sue braccia e rigirarsi dall’altra parte.

Lui s’imbestialiva, lei non poteva e non voleva fare diversamente: non l’avrebbe avuta totalmente.

Venne anche il giorno della seconda pillola: lui, vigliaccamente, la colpevolizzò.

Pianse da sola, in macchina, sicura, nella disperazione, di non volere il figlio di un aguzzino che non amava.

Finalmente si risvegliò: nei primi tempi era stata bambina, ora stava ripercorrendo le orme di sua madre.

Tornando a casa, asciugandosi le lacrime, comprese che se desiderava un rapporto sano con un uomo, doveva prima affrontare i mostri del passato.

Lo fece. Si liberò dell’ombra lunga del suo vissuto: quel dolore era servito almeno a qualcosa.

Il giorno seguente lui trovò una donna dalla voce nuova. Ferma, decisa, sapeva cosa voleva e non intendeva rinunciarvi.

Senza troppa convinzione, gli chiese se fosse in grado di darle quello di cui aveva bisogno.

Alla fine era lui l’uomo che poteva mostrarle l’altra faccia della luna, no?

Lui accettò, per non perderla.

Passarono la serata insieme, al solito pub. Cercava il suo sguardo, la coda fra le gambe come un cane bastonato. Lei era lontana, le stecche della cantante non la divertivano più, non le notava. Ripensava agli ultimi mesi, a quanto era successo, a quanto aveva sbagliato e compreso di se stessa.

Nella mente le immagini di quell’amicizia, tenera e delicata, che le aveva scaldato il cuore, che si era trasformata in incubo non appena era diventata amore.

Ripensava a quanto avesse atteso quel battito del cuore che tardava a venire, a quanto era stata accorta a non lasciarsi confondere da ombre ingannevoli, all’ironia del destino beffardo che aveva permesso proprio all’amore di far emergere la vera natura dell’uomo per lei più prezioso.

Ora sapeva cosa voleva.

Quell’ultimo tentativo era per se stessa: doveva rafforzare la sua nuova identità.

Era come se un senso d’onnipotenza si fosse impossessato di lei. Sopravvissuta alle violenze di una vita, il suo tentativo di strozzarla, di umiliarla sembravano quasi non toccarla più: era più forte.

Il giorno dopo andò da lui, come sempre.

Tutto usuale.

Le propose di accompagnarlo da suo padre, in Puglia e lei gli chiese la motivazione.

Interpretando la sua domanda come un rifiuto, l’aggredì. Lei prese le sue cose e se n’andò, in silenzio. Chiusa la porta alle spalle, si sentì libera.

Le spedì messaggi in cui la malediceva, la minacciava.

Lei aspettò un paio di giorni e inviò un ramoscello d’ulivo via mail.

Era finita. Il tempo, e forse tutto si sarebbe calmato.

Le rispose, la rassicurò, l’amava ancora.

Le chiese di riportargli una cosa che gli apparteneva e di cui aveva bisogno. La pregò di vederla quella stessa sera, ma lei era già impegnata: finalmente poteva tornare a vedere i suoi amici e a respirare aria pura.

Durante la serata le arrivò un messaggio: era una zoccola che già si stava rotolando in un altro letto, così come aveva sempre fatto. Voleva subito quello che era suo: l’aspettava, voleva sentire l’odore dell’altro.

Andò da lui con ciò che gli apparteneva, sicura d’essere capace di calmarlo.

Nel tragitto in macchina l’accompagnarono i trilli del cellulare e messaggi ossessivi.

Stupidamente, rimase ferma, cieca, nel suo sbaglio: continuò a guidare. Pensò che in strada non le sarebbe accaduto nulla. Non era la sua mente a crederlo, ma quella parte di lei già sopravvissuta alle violenze: ormai lontana, si sentiva immune.

Spense la macchina, scese, gli restituì quello che voleva, si voltò per andarsene.

Lui iniziò a picchiarla.

Mirava alla testa, per non lasciare segni. La minacciò: aveva una pistola. Lei lo incoraggiò, senza urlare, con voce ferma. Lui tolse la mano dallo zainetto.

Non era intimorita, ma lucida.

La picchiò ancora, dicendole che era una puttana, vestita come una puttana. Lei abbassò lo sguardo: i jeans, le scarpe basse, il cappotto di taglio inglese, e cominciò a ridere. Rideva, mostrandogli il suo disprezzo.

Impotente, gli rimasero le minacce: non avrebbe avuto una vita.

”Vedremo!”. Entrò in macchina e andò via.

Si allontanò quel tanto che bastava per ritenersi al sicuro, quindi si fermò, incapace di guidare.

La testa era vuota, l’udito ovattato, le gambe dolenti.

“Sono stata picchiata!”, si ripeteva, come per realizzare una realtà cui stentava a credere.

Provò a piangere, non uscì una lacrima.

Aspettò, inconsapevole del tempo, e non appena si sentì più sicura, tornò a casa.

Accettò di convivere con la paura ma si riprese la sua vita.

Era difficile, però, fare i conti con le immagini che, inaspettate, irrompevano nella sua mente, e le faceva rabbia quel pericoloso senso d’onnipotenza che l’aveva spinta a non proteggersi.

Doveva perdonarsi! Paradossalmente sembrava proprio questa la difficoltà maggiore: ammettere di aver sbagliato, di non essere infallibile. Aveva intuito la sua violenza ma aveva stentato a crederlo, memore degli anni vissuti insieme.

Se invece di tentare di addomesticare la belva avesse seguito il suo istinto non le sarebbe accaduto nulla. Doveva fare i conti con se stessa.

Per un lungo periodo di tempo, le notti cessarono di essere il mondo dei sogni e si trasformarono in lunghe ore di veglia in cui lei, guardando fuori dalla finestra, cercava l’altra faccia della luna.


 


Elisabetta Maltese: vivo a Roma, una delle città che più amo. Laureanda in Medicina e chirurgia, non riesco a dimenticare la musica, la scruttura. Scrivo per amore, per gioco, per necessità. Schiva e riservata, non sono brava a parlare di me.






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