SERA PRIMA DELL’APERTURA (2)

A. Z.

 


Raggiunsi la stazione dell’U-Bahn. Il prossimo treno sarebbe arrivato fra dieci minuti. Decisi di continuare a piedi scendendo la Schönhauser Allee. L’umidità dell’aria era percepibile anche attraverso gli indumenti, ma la marcia mi scaldava. Arrivato a Senefelder Platz voltai a destra. Sebastian abitava in un secondo cortile. Fino a poco tempo prima c’era ancora un’altra inquilina, ma ora era rimasto l’unico abitante di quell’ala dell’edificio. Salii al terzo piano e suonai. Sebastian aprì la porta e mi fece strada con un gesto affettato del braccio. Indossava una maglia bianca a maniche lunghe e pantaloni bianchi.

“Ah, il mio assetato amico! Si accomodi pure!” Sebastian era snello, di media statura e, malgrado l’accoglienza calorosa, un tipo di poche parole. Restammo per un momento nel corridoio non più lungo di un metro e mezzo, poi andammo a sederci in cucina. Nuvole di fumo aleggiavano nell’aria. Mancava poco alle nove.

“Voglia di andare al cinema?” gli domandai. Sebastian afferrò il programma.

“Cosa danno?” I suoi occhi cercarono la data odierna. “L’albero dei Desideri? L’ho già visto.”

Si chinò in avanti, frugò sotto il lavandino e poggiò sul tavolo una bottiglia di vino rosso. Il tavolo consisteva in un mezzocerchio che si reggeva su una gamba sola, che era storta e spingeva sulla parete.

“Ne vuoi?” domandò Sebastian incidentalmente. Si alzò tendendosi alla ricerca dei bicchieri, quindi pescò il cavatappi dall’acqua per lavare i piatti. Tagliò il rivestimento di plastica, quindi si sistemò la bottiglia tra le ginocchia, puntò il cavatappi e cominciò ad avvitare il metallo scuro e maculato nel tappo. L’operazione produsse un acuto cigolìo. Infine Sebastian stappò la bottiglia e versò nei bicchieri. Io sollevai il mio accennando un brindisi. Il vino era aspro, legnoso e amaro. Un sapore conosciuto e piacevole. La lampadina da quaranta watt illuminava l’ambiente in maniera tale che quasi non sorgevano ombre. La mia irrequietezza interiore cominciò a dissolversi.

“Daniela se l’è filata una settimana fa lasciandomi le chiavi. Se hai voglia, possiamo darci un’occhiata. Magari c’è qualcosa che ti piace. Mi ha detto che posso servirmi a piacimento.” Pescò una F6 dal pacchetto sul tavolo e se la accese.

“Che fine hanno fatto i gamberi di fronte?” domandai io. Mi riferivo a una coppietta di cinquantenni che faceva il bagno nell’acqua di colonia e la cui pelle presentava perciò grandi macchie rosse come lamponi.

“Anche loro squagliati” disse Sebastian espirando il fumo. Ogni volta che li incontravo, non riuscivo a distinguerne gli occhi, tanto che uno si domandava come facessero a orientarsi. Una sera avevo assistito a una lite, durante la quale in men che non si dica un bel po’ di cose era volato in cortile attraverso la finestra chiusa. Il pandemonio era durato più di due ore. Ora presumibilmente campeggiavano con un paio di borse in qualche punto di raccolta, una palestra con brandine pieghevoli e coperte sanitarie, come centinaia e migliaia di altri profughi.

“Vieni di là, che ti faccio vedere cosa ho trovato da poco!” disse Sebastian, facendo strada verso la stanza accanto. Ai lati di una delle finestre aveva montato due lampade al neon tubolari e azzurre, perché secondo la sua teoria producevano una cortina di luce che impediva la visuale nella stanza dall’altra parte del cortile. A tal riguardo io continuavo ad avere i miei dubbi. Il blu forte conferiva alla stanza sobrietà e durezza, una sensazione nient’affatto spiacevole. La stanza era praticamente nuda, se si escludevano un materasso, la stufa nell’angolo e un paio di scatole con piccoli oggetti. Sebastian mi tirò per la manica fino a una macchia nei pressi delle scatole. Accanto ad esse sul pavimento si trovava una cassettina di legno dall’apparenza solida. Sebastian si inginocchiò per aprirne la liscia serratura metallica.

“È un telefono da campo della Prima Guerra Mondiale” annunciò. “L’ho trovato per strada.” Mi accovacciai accanto a lui. Nella scatola si trovava un tozzo ricevitore e un cavo rivestito da un tessuto.

“Dubito che tu possa parlare con qualcuno delle trincee.”

Lui si piegò in avanti. “Possiamo comunque provare. L’aggeggio funziona con una manovella” disse afferrando la cornetta. “Un bel prodotto solido, mmh?”

Presi l’apparecchio in mano e lo riposi nella cassetta. “Ho ancora un bel po’ di cavo a casa, forse la prossima volta lo porto, e vediamo se possiamo allacciarlo sul serio.”

Sebastian si alzò, andò in cucina e tornò con il bicchiere di vino in mano.

“Fammi pensare a dove sarebbe meglio allacciarlo.”

Il suo appartamento era privo di allacci del telefono, come quasi tutti quelli nei cortili interni.

“Dovrei forse dare un’occhiata alla centralina del palazzo”. Si inginocchiò nuovamente, posò il bicchiere per terra, si infilò la sigaretta in un angolo della bocca e richiuse il coperchio della cassetta. Diede un ultimo tiro alla sigaretta, quindi la spiaccicò sulla latta della stufa.

“Dai, andiamo su. Ti faccio vedere la baracca.”

“Va bene, cominciamo il saccheggio.”

Salimmo le scale consunte fino al piano superiore. Al legno mancava qualsivoglia rivestimento. Arrivati sulla porta Sebastian si fermò di colpo.

“Aspetta, ho dimenticato le chiavi.” Tornò giù a grandi balzi, la sua porta era solo socchiusa. Dopo pochi minuti entrammo e Sebastian accese la luce. L’appartamento offriva un’impressione caotica. Abbandonato da un momento all’altro, come molti altri. La tendina di carta alla finestra della cucina era abbassata. In corridoio erano appesi vestiti e cappotti, in cucina mucchi di stoviglie sporche.

“Credo che mi sarebbe piaciuta” dissi io.

“Lo credo anch’io” affermò Sebastian. “Era proprio un bel tipino.” Era evidente che gli sorrideva l’idea di disporre dell’appartamento.

“Andiamocene” dissi io. “Forse una volta o l’altra passerò a saccheggiare i cosmetici.”

“Ah, su quelli avevo già messo gli occhi io” affermò Sebastian. “Guarda qua.” Aprì un flacone e se lo portò al naso, poi lo richiuse e lo posò sopra la lavatrice in cucina. Scendemmo nuovamente di sotto. Io mi versai nuovamente del vino.

“E così ora hai due piani a disposizione” constatai.

“Eh sì, sono in piena ascesa sociale.” I suoi occhi luccicarono divertiti.

”Se gli appartamenti di fronte non fossero così malandati, mi espanderei anche in quella direzione. Ma in fondo” disse stirandosi all’indietro e allargando le braccia. “Mi sento il proprietario di tutto il palazzo.”

“Oppure il portinaio” replicai io, bagnandomi le labbra. Sebastian afferrò la bottiglia e si versò del vino. Non ne rimaneva più molto. Dopo qualche minuto la bottiglia fu vuota e io mi alzai.

“Non ci si può fare niente. È ora che me ne vada. E grazie per il vino.”

“Il piacere è stato tutto mio.”

Sebastian si alzò e mi accompagnò alla porta.



Traduzione di Antonello Piana

 






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