L’ACIDO FENICO


Helga Schneider


– Brano tratto dal romanzo Lasciami andare, madre



(…) Mia madre sta rimuginando su qualcosa.

«Peter scostò la faccia» ripete assorta. «Chi era Peter?».

«Tuo figlio» le spiego ancora una volta. È passata poco più di un'ora da quando ne abbiamo parlato, ma già lei lo ha completamente rimosso. E dì nuovo vaga, ha lo sguardo annebbiato.

«Quale? ». Rovista nella memoria, aggrotta la fronte. «Hai un solo figlio maschio».

«È vero...» ammette con voce fioca. Ma si vede che non è convinta, che brancola nella sua zona d'ombra.

«Non pensi mai a lui?» mi arrischio. «Non pensi mai a tuo figlio?».

Lei china il capo. «Non so... E poi è morto da tanto tempo… ».

Anche adesso, però, il suo tono è incerto, quasi in­terrogativo. Memore di quanto è accaduto prima, te­mo la sua reazione, ma vorrei spingerla ad accettare la realtà. Ignoro la gomitata con cui Eva tenta di indurmi a desistere.

«Tuo figlio è vivo» le dico dolcemente, con tono persuasivo, come se parlassi a una bambina.

Le si svuota lo sguardo. «Non è vero» risponde cupa. E la scena, come nelle mie peggiori previsioni, si ripete. Mia madre affonda il viso tra le mani, quindi comincia a gemere: «Mio figlio è morto da tanto tem­po:. Non devi dirmi bugie... Non devi spaventarmi...».

E così vecchia, così fragile. Ancora una volta, mio malgrado, mi intenerisce. Sto per andarmene, e ho paura che non riuscirò a spezzare il legame che mi unisce a lei. E dire che ho tentato di farlo mille volte, in mille modi diversi. Perfino rinnegando la mia ma­drelingua.

Qualche tempo dopo la visita a Vienna del 1971, incontrai a Bologna una connazionale che, naturalmen­te, cominciò a parlarmi in tedesco. Mi bastarono po­che frasi per rendermi conto che non ero più in grado di parlare correntemente e correttamente la mia lingua. Rimasi atterrita. Fu come accorgersi di aver perso un arto senza aver sentito alcun dolore. Un po' come in guerra, quando salta via una gamba e il ferito continua a correre finché non cade, e solo allora comprende il motivo per cui non sta più in piedi.

Solo dopo aver cercato e ritrovato, dopo oltre cin­quant'anni, mia cugina Eva, che non parla l'italiano, sono stata costretta a recuperare la mia madrelingua. Ma non si è trattato di un'impresa di poco conto: è stato come risalire, gradino per gradino, carponi, una scala alta e scoscesa.

Guardo mia madre: così lontana, così sconosciuta, così incomprensibile, così irritante. Così disarmante, a tratti.

Alza il capo e comincia a implorare: «Non lasciarmi più sola, mai più. Devi ritornare. Devi ritornare ogni giorno. Sono la tua Mutti e nessuno mi vuole bene. Nessuno mi dà mai un bacio. Tu mi hai dato un bacio e io voglio che ritorni. Perché tu sei la mia Mausi». E mi guarda con un lampo negli occhi che in qualunque altra donna non esiterei a definire amorevole.

«La mia piccola Mausi» ripete, e sorride dolce, af­fettuosa. Ma è un attimo. Eccola di nuovo scaltra, perfida.

«Peccato che sei così vecchia» sibila. «Non mi piace avere una figlia vecchia. Mi fa sembrare decrepita. Per fortuna Peter è morto, non avrei sopportato di avere due figli già così vecchi!».

Sospira. «Ma devi ritornare lo stesso, anche se sei vecchia. Le mie compagne qui dentro hanno figlie più giovani. Peccato».

Qualcosa in me si raggela. Ha già tormentato a sufficienza sia me sia Eva con questa storia della vec­chiaia. Ma ora basta, mi dico. Deve smetterla.

Sono offesa e annichilita. Lei non merita nulla, è crudele, insensibile, bugiarda. E semplicemente volgare. Non dovevo venire. Non dovevo dare ascolto alle parole di Frau Freihorst.

Perché mi sono precipitata a Vienna? Forse perché malgrado tutto non riesco a odiarla, questa madre non madre?

Fatti odiare, madre!

Fatti odiare. Sarebbe la soluzione giusta. Di' qualco­sa di immondo su quelle ebree che a Birkenau erano sotto la tua custodia, quelle ebree che comandavi a bacchetta, sulle quali avevi facoltà di vita e di morte. Il demone che mi possiede mi suggerisce la mossa giu­sta. Sbircio vistosamente l'orologio.

«Non vorrai già andare via?» abbocca.

«Fra poco termina l'orario di visita».

«Voglio che tu rimanga!».

Brava, perfetto. Replico con falso rammarico: «Avrei voluto sapere ancora molte cose di te, ma tu non parli molto. Non parli molto e interrompi sempre i discorsi. Non è bello fare visita alla propria madre e non poter parlare con lei».

Si inquieta, si alza, gesticola.

«Ma io voglio parlare!».

«Ormai è tardi...».

«Se ti dico altre cose resterai ancora?». Mi fissa im­plorante.

«Forse» concedo vaga.

«Che cosa vuoi sapere?».

Deve arrivarci da sola.

«Di Birkenau?» insinua. Ma in fondo è anche l'ar­gomento che più la attrae. La sua carriera, la sua fede, le sue ferree convinzioni...

«Se vuoi» rispondo in tono innocente. «Ad esem­pio... sì, vorrei sapere che rapporto avevi con le prigio­niere del tuo blocco».

Esita solo qualche secondo. Lo sguardo, per un atti­mo guardingo, diventa gelido.

«Che rapporto vuoi che avessi con soggetti che il nostro governo considerava inferiori? Inferiori e peri­colosi, per questo erano stati rinchiusi nei campi. Nes­sun rapporto, se non quello che si può avere con un nemico odioso».

Così va bene, mi dico, ma non è ancora abbastanza.

«Lo pensavi solo perché così ti imponevano di pen­sare?» mi avventuro. «O eri anche personalmente convinta che gli ebrei fossero esseri inferiori?».

Esita, mi guarda negli occhi.

»Vuoi la verità?».

«Si".

Per qualche istante resta immobile e in silenzio, poi si sporge verso di me e mi sorride. «Mausi...» mormora quasi con deferenza.

E troppo vicina, mi da un senso di disagio. Di schifo, devo ammettere. Sento il suo alito, alito di vecchia. Lie­vemente acido.

Per fortuna si ritrae, incrocia le mani sulle ginoc­chia appuntite e dice tutto d'un fiato: «Se vuoi sapere la verità, io quelle ebree le detestavo. Mi davano un fa­stidio quasi fisico, mi veniva il voltastomaco a vedere tutte quelle facce perverse, facce da razza inferiore. E come erano unite, come si proteggevano a vicenda! Arrivavano a coprire le malate per evitare che finissero da Klahr. Sì, mia piccola Mausi, io le odiavo quelle ma­ledette ebree. Brutta razza, credimi. Pfui».

Ho avuto quello che volevo. Sono impietrita, e forse melo si legge in faccia. Lei mi guarda incerta.

«Sono stata sincera,» dichiara «non devi pensare male di me. Odiare gli ebrei era un dovere imprescin­dibile per un membro delle SS, capisci?». Cerca di spiegare l'inspiegabile.

«Perché, si può odiare a comando?» chiedo con una sorta di dolorosa ironia.

«Se si è convinti della motivazione, certamente» ri­sponde serissima.

«Quale motivazione?».

«Quella per la quale il popolo ebraico doveva essere liquidato».

Rinuncio ad approfondire. Le domando invece: «Perché le prigioniere avevano paura di finire da quel... Klahr, hai detto?».

Con rinnovata durezza asserisce: «Sì, ho detto Klahr. Oh, tutti temevano Klahr, ne avevano un sacro terrore».

«Chi era?».

«Un sanitario. Diciamo... un infermiere specializzato».

«E perché lo temevano?».

«Era quello delle iniezioni».

«Quali iniezioni?».

Fa un gesto secco e deciso, come di chi trafigga qualcuno in pieno petto.

«Che cosa vuoi dire?».

Lei inspira e risponde con aria indifferente: «Se una prigioniera finiva al Revier, l'infermeria, o al bloc­co-ospedale, e le si riscontrava una malattia grave, non si facevano tante storie».

«Ossia? Spiegati meglio».

«Si faceva l'iniezione».

«Quale?».

«Una punturina di acido fenico direttamente nel cuore. Zac!». E ripete l'orribile gesto. «Lo sai che cos'è l'acido fenico?». (…)



( Brano tratto dal romanzo – scritto originalmente in Italiano – Lasciami andare, madre , Adelphi edizioni, Milano, 2001.)





Helga Schneider
č nata in Polonia e ha vissuto in Germania e in Austria. Dal 1963 risiede in Italia. Oltre a Lasciamo andare, madre ha pubblicato Porta di Brandeburgo, Il rogo di Berlino e Il piccolo Adolf non aveva le ciglia.

 


      
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