LA MORTE DI CLARICE LISPECTOR

– Benedetta tu sia fra le blatte –


Angelo Morino

 


Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Per sei giorni lavorerai e completerai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato, in onore di Jahve, Dio tuo. Non farai, perciò, alcun genere di lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che dimora dentro le tue porte. In sei giorni, infatti, Jahve ha creato il cielo e la terra, il mare e tutto quello che vi si trova; e si è riposato nel settimo giorno. Per questo Jahve ha benedetto il giorno di sabato e lo ha santificato (Esodo, 20. 8-II)... Figlia di ebrei emigrati dall'Ucraina in Brasile negli anni '20 del secolo, Clarice Lispector si è allontanata presto dalla religione di origine. Si racconta, tuttavia, che i suoi ultimi giorni di vita siano stati segnati dal timore di morire di venerdì. Se così fosse succes­so, le esequie sarebbero state celebrate solo la domenica, perché la famiglia - rimasta praticante - non avrebbe potuto turbare il giorno festivo del sabato con le cerimonie della morte. Il timore era destinato a rivelarsi premonizione: il cancro avrebbe compiu­to il suo lavorio venerdì 9 dicembre 1977, alle dieci e mezza del mattino. Così, mentre la famiglia osservava secondo le consuetu­dini il rito sabbatico, il cadavere rimaneva esposto nel cimitero di Rio de Janeiro per tutta la giornata... Ancora poche ore prima della fine, Clarice Lispector - consumata nel corpo, ma lucida nella mente - scriveva con l'aiuto dell'amica Olga Borelli: «Sono un oggetto amato da Dio. E questo mi fa sbocciare fiori nel petto. Lui mi ha creata così come adesso io scrivo: "sono un og­getto amato da Dio" e lui si è compiaciuto nell'avermi creata così come io mi sono compiaciuta nello scrivere la frase. E quanto più spirito possiede l'oggetto umano, tanto più Dio ne è soddisfatto». E poi, con linguaggio fra luce e ombra: "Il mio futuro è la notte scura ed eterna. Ma vibrante di elettroni, protoni, neutroni, mesoni - ma non so neppure che è nel perdono che mi trovo. Io sarò l'impalpabile sostanza di cui neanche il ricordo dell'anno passato ha sostanza». Queste frasi - tra le ultime - esplicitano la fidu­cia estrema in un principio di vita al di là dell'aderenza a una par­ticolare pratica di fede, pur essendo comunque inseribile fra contorni cristiani. Ma il timore dell'esposizione protratta del proprio cadavere sembra indicare il persistere di credenze legate a un cul­to preciso: quello nella cui ombra Clarice Lispector ha vissuto du­rante l'infanzia. Più a fondo, l'atteggiamento duplice - invece che esaurirsi nella testimonianza di un generico spirito religioso - suggerisce l'itinerario di un vivere e di uno scrivere che si sono avventurati lungo un percorso di superamento...

 

Chiunque tocca un morto, qualsiasi cadavere umano, sarà impu­ro per sette giorni. Egli si purificherà il terzo giorno e il settimo sarà puro; ma se non si sarà purificato nel terzo giorno, nel settimo non diverrà puro. Chiunque tocchi un morto, il cadavere di un uomo morto, e non si purificherà, egli contamina il tabernacolo di Jahve; dovrà, perciò, essere reciso, quell'individuo da Israele; poiché le acque di im­purità non sono state sparse sopra di lui, egli è ancora impuro e la sua impurità resta su di lui (Numeri, 19. II-13)... Segno della tran­sizione dal soggetto all'oggetto, dall'animato all'inanimato, dalla forma all'informe, il cadavere viene percepito dalla cultura ebrai­ca come residuo contaminante più di ogni altro fenomeno: sinte­tizza il terrore del disfacimento. Nella spoglia ormai vuota di vita si manifesta la materia primordiale, il plasma neutro da cui il mondo è emerso nella separazione e nell'ordine dei suoi elementi. Il cadavere sta lì a ricordare l'esistenza di un tempo dei primordi, quan­do nessuna gerarchia delimitava l'individuo nel rispetto delle di­cotomie fondatrici di legge: cosmo/caos, cultura/natura, sacro/pro­fano, puro/impuro, soggetto/oggetto, sé/altro. L'ansia di Clarice Lispector al pensiero del suo corpo insepolto, troppo a lungo esi­bito nella luce del giorno, tradurrebbe, allora, un ancoraggio alla norma che - per quanto saldamente radicata fino ad apparire na­turale - è stata in principio sancita dalla parola biblica. Quasi che il timore fosse di insozzare con l'infinitudine del cadavere il ricor­do del momento in cui il dio, abbandonandosi al riposo, ha voluto significare la raggiunta finitudine della sua opera. Ma un simile atteggiamento presuppone il desiderio di mantenersi dentro i confini rigorosi di un'identità individuale e, in questo, contrasta con l'ultimo messaggio di dissolvenza. Sulla soglia della morte, definendosi «un oggetto amato da Dio», Clarice Lispector sigillava il suo percorso nella gioia di una perdita di identità, di un eclissarsi della frontiera dal suo corpo alla materia originale. Così, nel mo­mento del distacco, due istanze si sovrappongono in antitesi: la per­sistenza della norma e il suo superamento... Dal vivere allo scrivere, A paixão segundo G. H. - apparso nel 1964, quando l'autrice aveva alle spalle un'opera già bene avviata, con un importante ro­manzo di debutto, Perto do coração selvagem (1944), la bella raccol­ta di racconti Laços de família (1961) e un altro romanzo inaggira­bile, A maçã no escuro (1961) - si inserisce nel quadro della stes­sa antitesi. Riferisce il rigetto dell'identità prescritta dalla parola biblica e la ricerca di una fusione che permetta all'individuo di smar­rirsi come soggetto per esistere, senza più disagi, oggetto fra gli og­getti del mondo. In altri termini, A paixão segundo G. H . è sintesi della traversia vissuta in prima persona da Clarice Lispector. E lo è pure della traversia individuabile nelle zone più feconde della let­teratura del Novecento, essendo tentativo di oggettivare l'inogget­tivabile. Nella trama di una scrittura sorretta da nessun sapere ri­conosciuto, viene narrata la storia di una discesa agli inferi che è infrazione della norma posta a separare l'individuo dal luogo di smar­rimento - ai limiti dell'ominità - dove le forme collaudate e ras­sicuranti si dissolvono nel contatto con l'indicibile. L'avventura della creatività moderna parla spesso della deriva in un altrove senza nomi, dove è possibile sperimentare versanti sfuggiti al controllo della legge. E a questa avventura interdetta - durante il cui percor­so vita e opera dell'individuo corrono il rischio di ferite insanabili - che si sono abbandonati in vario modo scrittori come Joyce, Kafka, Céline e Bataille. Ma, nel caso di A paixão segundo G. H ., l'impresa possiede forte dose di esemplarità. Toccando esplicitamente la parola biblica, infrange la frontiera della Norma stessa che è stata posta a fondamento della nostra cultura e si spinge fino a dissotterrare le radici di cui si nutre il nostro disagio. Come se, in questo tentativo, l'appartenenza in origine all'ebraismo avesse permesso a Clarice Lispector di compiere l'impresa con chiarezza e im­mediatezza maggiori, lavorando a disgregare il Codice generatore dei codici del mondo occidentale...

 

Qualunque animale che striscia sul suo ventre o che cammina su quattro piedi o su più zampe; tutte le bestie che strisciano sulla terra; voi non ne mangerete, sono cose abominevoli. Non vi renderete anche voi abominevoli a causa di queste bestie; non vi contaminerete a causa loro, altrimenti anche voi sarete impuri. Io sono Jahve vostro Dio, voi vi santificherete e sarete santi, poiché io sono santo; voi non vi renderne impuri, per mezzo di qualunque bestia che striscia sulla terra. Sì, io sono Jahve che vi ho fatto uscire dalla terra d'Egitto per diventare vostro Dio. Voi sarete santi, poiché io sono santo (Levitico, II. 32-45)... All'inizio di A paixão segundo G. H. , la perdita di identità si configura subito come rigetto della santità che l'An­tico Testamento addita quale modello di comportamento. Pene­trata nella camera della domestica con l'intento di riordinarla, ag­gredita dalla consistenza uniforme di oggetti sottratti alle maschere della forma, avanzata in uno spazio di luce dirotta, G. H. - solo due iniziali dietro cui piace scorgere il viso di Clarice Lispector - si avvia verso la dissoluzione. I segni sacrali della sua soggetti­vità - la casa fresca e umida, fra colori e superfici addomesticate nel culto dell'ordine e della bellezza - scompaiono presto alla vista di un ambito inatteso, dove respira il silenzio duro e riarso della materia bruta, ignara di distinzioni e artifici. Nel passaggio rapido eppure scandito da annunci premonitori - il disegno piatto sulla parete, soprattutto, tracciato con mano primitiva -, questa donna, che all'avvio si ritraeva sicura nei gesti e nei pensieri, si ritrova ad affrontare d'improvviso la cosa precedente il gesto ge­neratore del dio: un frammento esemplare di vita preumana. Per-ché, sotto il suo sguardo in raccapriccio, emerge dal fondo buio di un armadio e si affaccia dall'anta dischiusa una blatta, enorme e lenta. Sconvolta dalla prima ripugnanza, G. H. tenta di uccidere la bestia immonda, che si muove verso di lei dal caos primige­nio in una marcia di secoli tutti uguali. Ucciderla equivarrebbe a negarle ogni possibilità di contatto, a respingerla e ad annullarla nel seno indistinto della natura. Tuttavia, l'impulso si esaurisce in un tentativo fallito. La blatta, sopravvissuta al colpo, continua a fronteggiare G. H. nel ribrezzo della sua materia esplosa dallo squarcio della ferita. Ora, dinanzi all'ineluttabilità dell'avvicina­mento all'abietto, superato il primo assalto del terrore, si formula la consapevolezza di infrangere la legge sancita nel Levitico, di az­zardarsi nei territori interdetti dalla norma rinchiusa nella dicoto­mia dal puro all'impuro. E, insieme all'infrazione della legge antica e tenace, c'è la gioia della scoperta: «Io ero in procinto di sapere che l'animale immondo della Bibbia è proibito perché l'immon­do è l'origine - esistono infatti cose create che non si sono mai alterate e si sono conservate identiche a quando sono state create, e soltanto quelle hanno seguitato a essere l'origine, tuttora com­pleta. E siccome sono l'origine non se ne poteva mangiare, il frut­to del bene e del male - mangiare la materia viva mi scaccereb­be da un paradiso di orpelli e mi porterebbe per sempre a cammi­nare con un bastone per il deserto. E parecchi erano stati coloro che avevano camminato con un bastone per il deserto»... E stato fatto notare da Mary Douglas, in Purity and Danger (1966), che la radice ebraica - k-d-sh - della parola biblica che viene in gene-re tradotta con santo si fonda sul concetto di separazione. L'impu­rità, allora, ricade su quelle creature la cui forma appare sfuggita all'opera separatrice del dio, ancora soggetta a un'imperfettibilità suscettibile di rendere ambiguo il disegno dell'universo. Il pesce senza pinne o squame, il quadrupede provvisto di ali, l'insetto bru­licante sul suolo: tutti gli animali stigmatizzati presentano nel lo­ro corpo membra il cui uso contribuisce a confondere i limiti trac­ciati fra terra, acqua e cielo. Essere santo, invece, equivale a essere uno, a essere separato e contraddistinto rispetto alla materia. Così, la santità che G. H. viola lasciandosi contaminare dall'im­puro - esemplarmente sintetizzato nella blatta - si delinea come atto di recupero del plasma neutro, non ancora modellato da quella volontà di scindere gli elementi che ha presieduto alla nascita del mondo. Ora, l'immondo non si esaurisce più nella funzione di termine contrapposto al mondo. E il suo precedente da esorciz­zare senza tregua, è il punto di passaggio - porta interdetta - per il regresso alla natura indifferenziata da cui si è voluto recidere la vita dell'individuo. Dinanzi alla blatta squarciata, al dirompere dell'immondo esploso sotto i suoi occhi, G. H. rifletterà: «Come chiamare altrimenti quell'orribile e crudele materia prima che se ne stava lì, mentre io indietreggiavo verso il fondo di me stessa in una nausea asciutta, io che sprofondavo secoli e secoli dentro un fango - era davvero fango e neppure fango già secco, ma fango ancora umido e vivo, era un fango dove, con insopportabile len­tezza, si muovevano le radici della mia identità». Toccando la blatta G. H. riannoda il cordone ombelicale e ristabilisce il flusso di contatto con le zone di oblio, là dove la carne umana - ignara degli oneri dell'identità - ha riposato nell'utero amorfo della madre-materia. Toccando la blatta, G. H. ripete e riscatta il gesto di Eva al mordere nella polpa del frutto dell'albero del bene e del male...

 

E Jahve Elohim disse alla donna: «Perché hai fatto questo?». E la donna rispose: «II serpente mi ha sedotta e io ho mangiato». E]ah­ve Elohim disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sii maledetto fra tutti gli animali domestici e fra tutti gli animali del campo. Camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. E porrò inimicizia tra te e la donna e tra il seme tuo e il seme di lei; esso ti colpirà nel capo e tu tenterai di colpirlo al calcagno». E alla donna disse: «Moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e quelle della tua gravidanza. Con travaglio partorirai i figli e verso l'uomo sarà il tuo desiderio. Egli dominerà su dite» (Genesi, 3. 13-16)... Con la sanzione dell'inimicizia fra Eva e il rettile, i termini di una remo­ta ierofania vengono disgiunti: quella attraverso cui si vuole che, in epoca pre-patriarcale, l'alleanza donna-luna-serpente rinviasse ai poteri sovrani della Grande Dea Madre. Al contempo, con la sudditanza al maschio decretata dal dio, veniva allontanato dalla storia a venire il ricordo di un tempo - ormai facile a colorarsi di luminescenze da leggenda - in cui l'identità umana ignorava la frattura netta dalla materia. Sarebbe stato il tempo delle madri dal corpo fecondo, detentrici del mistero della procreazione. Così, le caligini dei primordi esorcizzati, confinati nella luce rarefatta del nulla, sembrerebbero più un vuoto creato dalla parola biblica, che un vuoto reale. E quanto G. H. intuisce allorché, in preghiera di­nanzi alla blatta ferita, ne fa scivolare l'immagine fino a sostituirla a quella della madre consolatrice del dio fatto uomo: «Mamma, io non ho fatto altro che voler uccidere, ma guarda un po' che cosa ho spezzato: io ho spezzato un involucro! Anche uccidere è proi­bito dal momento che si spezza l'involucro duro e ciò che ne resta è la vita pastosa. Da dentro l'involucro è in procinto di uscire un cuore grosso e bianco e vivo come pus, mamma, benedetta tu sia fra le blatte, adesso e nell'ora di questa tua mia morte, blatta e gioiello »... Al cuore dolente, trafitto di strati, della madre-vergine - Maria senza macchia chiamata a redimere l'audacia di Eva e a schiacciare sotto il suo piede il serpente - si sostituisce un cuore palpitante di materia viva in metamorfosi perenne, fertile di una putredine che è vita e morte, che è sostanza ribelle al verdetto di separazione. Nel deserto in cui G. H. si trova precipitata, freschezze inattese si rivelano e, insieme alle freschezze, immagini sfocate dal tempo che suggeriscono altre simbologie e altra identità. Così, il luogo di smarrimento diviene spazio il cui recupero permette di toccare quella terra - di tutti e di nessuno - dove preesistono se­gni dimenticati. Qui, la sopravvivenza di una blatta immutata nel trascorrere dei secoli è la cosa minima e massima in cui riposa la traccia di un sapere antico. Ma la blatta è in prima istanza, quan­do il transito da un campo all'altro non si è ancora prodotto, quando perdura la frontiera del corpo, l'immondo: forza del nostro orrore e garanzia della nostra identità. Ed è ricongiungendosi all'immon­do che G. H. si ricongiunge, in esultanza, al sapere dimenticato di Eva estranea alla sentenza di vassallaggio e triboli emessa dal dio-padre. Scandagliando nel significato profondo dell'infrazione della norma biblica, Clarice Lispector raggiunge quanto si cela dietro il timore fobico dell'immondo. Ciò facendo, indica un'equivalen­za che riporta sulla scena il rimosso della nostra cultura...

 

Se una donna ha le mestruazioni, il sangue cioè fluisce dal suo corpo, sarà impura sette giorni. Colui che la toccherà sarà impuro fi­no a sera. Ogni cosa su cui lei giacerà durante la sua mestruazione, sarà impura, ogni mobile su cui si siederà sarà impuro. Chiunque toc­cherà il suo letto si laverà le vesti, si bagnerà nell'acqua e sarà impuro fino a sera. Se un uomo dormirà con lei, sarà partecipe della sua im­purità, egli sarà impuro per sette giorni, ogni letto su cui egli dormirà sarà impuro (Levitico, 15. 19-24)... Nel luogo di smarrimento flui­sce il sangue mestruale. E contro questo, innanzitutto, che la vo­lontà di separare è intervenuta. Se la blatta è l'immondo e, attra­verso l'immondo della blatta, si profila la madre, la madre è l'im­mondo da esorcizzare. Del resto, G. H. stessa non riesce a vedere la blatta se non in termini al femminile: «Tuttavia, eccola la blat­ta neutra, senza nome di amore o di dolore. La sua unica differen­za di vita è che doveva essere maschio o femmina. Io l'avevo pen­sata solamente come femmina». Ricettacolo di vita e di morte, il corpo materno è testimonianza - sempre occultata dal peso delle proibizioni - che, per vivere, l'individuo ha dormito nel grembo della natura: nell'utero dove un comune flusso di sangue ha unito il figlio alla madre senza iniziali confini fra soggetto e oggetto. La norma biblica, allora, come schermo dietro cui domina il fantasma del corpo da cui l'uomo ha dovuto distaccarsi per acquistare identità. O forse, più a fondo, come codificazione di una lontana vittoria dell'uomo sulla donna e come confino nel nulla delle ere precedenti questa vittoria. Ma l'orrore - e il suo superamento gioioso - che Clarice Lispector riferisce, se è un'esperienza acces­sibile senza troppe distinzioni di sesso, non dimentica mai di collocarsi specificamente dalla parte di lei... Anche G. H. si è sentita invasa, in passato, dalla ripugnanza per il corpo materno, al punto da scegliere l'aborto piuttosto che accettare in sé la gestazione della materia viva: »Durante quelle interminabili ore in cui ho vagato per le strade decidendo sull'aborto, d'altronde già deciso con lei, dottore, durante quelle ore anche i miei occhi dovevano essere in­sipidi. In strada, anch'io non ero altro che migliaia di ciglia di pro­tozoo che sbattevano, io che conoscevo in me stessa lo sguardo lucido di una blatta catturata a metà corpo. Avevo vagato per le strade con quelle mie labbra riarse, e vivere, dottore, era per me il rovescio di un crimine. Gravidanza: ero stata lanciata nel gioio­so orrore della vita neutra che vive e si muove». Il rigetto del materno è stato predisposto nel vigore di tali dispositivi, da impedire spesso persino alla donna - che del materno 'e depositaria - di viversi senza colpevolizzazione. La madre vergine e dolente che pren­de il posto della madre fertile nel libero godimento, per l'appun­to. Se, vissuto da un uomo, il regresso all'immondo della materia si risolve in una riconciliazione col corpo materno e nella scoperta di un'identità che supera le dicotomie imposte dalla norma, quan­do è la donna a percorrere questo cammino il regresso diviene anche recupero di una memoria sopita ma saldamente radicata nella sua carne. L'avventura di G. H. è senza dubbio esemplare di un'an­sia che, nella sua intensità, sintetizza le più arrischiate esperienze della letteratura del Novecento. Tuttavia, essendo vissuta in cor­po femminile, si ricollega pure a un'altra tradizione, localizzata nel passato, che testimonia un desiderio simile di superare il disagio del vivere sul confine fragile tra il mondo e l'immondo. Da Eva a Clarice, altre donne hanno vissuto il desiderio di scendere nel paradiso-inferno della materia. Altre donne hanno anticipato in povertà di mezzi e in ricchezza di effetti il ritorno all'essere-uno. A loro Clarice Lispector si ricongiunge e, attraverso di loro, si ri­congiunge a una delle poche tradizioni di letteratura al femminile: la letteratura mistica...

E avendo di nuovo chiamato la folla, Gesù diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete! Non c'è nulla al di fuori dell'uomo che, en­trando in lui, lo possa rendere impuro. Ma le cose che escono dall'uo­mo, sono quelle che rendono l'uomo impuro. Chi ha orecchi per intendere, intenda (Marco, 7. 14-16 )... Sceso poi dal monte, lo seguiro­no numerose folle. Ed ecco, un lebbroso, avvicinatosi, gli si prostrò dinanzi dicendo: «Signore, se tu vuoi, puoi mondarmi». Ed egli, ste­sa la mano, lo toccò dicendo: «Si, lo voglio; sii mondato», e subito la lebbra fu mondata (Matteo, 8. I-3)... Caterina da Siena raccon­ta come, per vincere la ripugnanza delle piaghe sul corpo dei ma-lati che assisteva, si fosse costretta a ingoiare una ciotola colma di liquido purulento. Aneddoti simili sono facilmente rintracciabili negli scritti che molte sante hanno lasciato a illustrazione della loro esperienza di vita. C'è Angela da Foligno che beve l'acqua in cui ha lavato le mani e i piedi dei lebbrosi, c'è Margherita Maria Alacoque che pulisce con la lingua il vomito di un malato, c'è Madame Guyon che si piega a mangiare uno sputo catarroso. Tutte, riferiscono di avere provato nella loro carne, dopo la violenza del primo disgusto, sensazioni di delizia inesprimibile. Non diverso è il caso di G. H., che, nel suo contatto con l'immondo, si spin­gerà fino a mangiare la sostanza emersa dalla ferita della blatta. Con questo gesto estremo, Clarice Lispector si mostra - ancora una volta - esplicitamente consapevole di ripercorrere un modello: «Ma baciare il lebbroso non è neppure un atto di bontà. E au­torealtà, è autovita - sebbene significhi anche la salvezza del leb­broso. Ma è soprattutto la propria salvezza. Il più grande benefi­cio del santo è nei confronti di se stesso, il che è del tutto irrile­vante: perché quando lui raggiunge la propria immensa grandez­za, migliaia di persone sono accresciute dalla sua grandezza e ne vivono, e lui ama gli altri così come ama il proprio terribile am­pliamento, lui ama il proprio aumento con empietà nei confronti di se stesso. E che il santo non voglia forse purificarsi dal momen­to che sente la necessità di amare il neutro? di amare ciò che non è ridondanza e di prescindere dal buono e dal bello. La bontà grande del santo - è che tutto gli è uguale. Il santo arde fino a raggiun­gere l'amore del neutro». Ora, comunque, la santità è mutata. Non si tratta più di separare dal corpo la cosa immonda, ma di incorpo­rarla, perché - con questo atto - viene riconosciuta e accettata la propria miseria originale. Esiste, allora, una santità che si compie là dove, prima, si estendevano contrade di abominio. Esiste, allo­ra, un modello là dove la memoria aveva subito uno sfocamento fino a smarrirsi in frammenti difficili da ricomporre in nitidezza di immagini... In realtà, l'ancoraggio è in zone posteriori alla san­zione della norma biblica. Caterina da Siena, Angela da Foligno, Madame Guyon, al momento di spiegare l'impulso che le ha spinte a ricercare il contatto immondo, non esitano a indicare l'esem­pio sulla cui traccia si sono mosse: la vicenda di Gesù di Naza­reth, il redentore dell'umanità mediante il sacrificio del suo essere-uomo. E, similmente, G. H. individua, verso la fine della sua traiet­toria, lo stesso modello: «La condizione umana è la passione di Cristo». Nel transito dall'etica predicata nell'Antico Testamento a quella predicata nel Nuovo - dal credo del Padre a quello del Figlio -, la dicotomia puro/impuro tende a essere sostituita da una nuova: dentro/fuori. Sedendo alla mensa dei pagani, toccan­do il lebbroso, esercitando il suo potere sugli spiriti immondi, Gesù di Nazareth interiorizza l'impurità. E dentro l'uomo che la ma­teria contaminante agisce nel rischio di infrangere la frontiera del corpo e di spandersi al di fuori. L'individuo è, ora, un essere inte­riormente diviso, perfettibile. Né poteva essere altrimenti: la na­tura stessa di Gesù di Nazareth compartecipe di due mondi - uo­mo e dio, mortale e immortale, carne e spirito - si manifesta co-me sintesi ossimorica a sostituire l'antica dicotomia. E vero che, in questa tensione fra l'interno e l'esterno, si frapporrà il concetto cristiano del peccato a trasformare il percorso umano in una lotta per espellere l'impuro e per rendersi, così, degni di ospitare nel proprio cuore il dio di purezza. Ma, al di là del peccato, l'immagi­ne di Gesù di Nazareth si prestava, nella sua familiarità con l'im­mondo, a servire da esempio per itinerari ambigui, al contempo dentro e fuori la norma. E quanto molte donne hanno fatto se­guendo le vie di una santità che, se per alcuni versi può apparire aureolata di luci aberranti, mirava più o meno consapevolmente a utilizzare la parola evangelica per raggiungere contrade anterio­ri alla parola biblica. Di questo lungo, tortuoso viaggio, sempre sul filo di un abisso in fondo al quale le luci celesti sembrano vol­gersi in fiamme demoniache, parla in consapevolezza Clarice Li­spector, ultima mistica solitaria in un secolo che preferisce ricercare le estasi nelle tradizioni esotiche dell'altrove, piuttosto che nelle profondità aspre del proprio passato. E, come tutte le grandi mistiche, Clarice Lispector ripercorre in umiltà un itinerario di amore. Alla fine del suo cammino indugioso, giù nelle viscere buie e palpitanti della materia, paradiso e inferno offrono, nella loro equi-valenza, la scoperta di un'identità illimitatamente umana, libera dalle separazioni che fanno dell'individuo un soggetto incapace di smarrirsi e di viversi smarrito nella gioia dell'altro...


(Saggio tratto dalla raccolta Cose d'America , Sellerio editrice, Palermo, 1995.)




Angelo Morino

ANGELO MORINO TERMINA IL SUO GIRO NELLA LINGUA

– Infaticabile traduttore, esplorò generi al confine tra saggistica, memoir e romanzo. È morto a cinquantasette anni. –

Marco Dotti

Come Manuel Puig e Ricardo Bolaño, due degli autori che più stimava e considerava vicini al suo modo di vivere e sentire, anche Angelo Morino rientra nella schiera di coloro che se ne sono andati troppo presto, all'apice di una maturità creativa raggiunta con disciplina, rigore e fatica. Scomparso ieri, nella sua Torino, all'età di cinquantasette anni, con grande passione Angelo Morino incarnava una figura ormai rara nel desolante panorama intellettuale - e non solo accademico - italiano. Professore di letteratura ispanoamericana all'università di Torino, dopo esserlo stato per alcuni anni in quella dell'Aquila, Morino era un infaticabile traduttore ma, soprattutto, contribuendo alla ricezione e alla diffusione di autori come Héctor Bianciotti, Violette Leduc, Vargas Llosa o José Lezama Lima, oltre ai già citati Bolaño e Puig, di cui fu amico, era riuscito nel non facile compito di realizzare una costante opera di mediazione «alta» e indipendente fra la cultura tout court e il mondo, spesso disattento, dell'editoria. Tra il 1978 e il 1985, assieme a Edda Melon e Elide La Rosa, era stato anche editore (aveva contribuito a fondare le edizioni La Rosa), promuovendo le prime traduzioni di Clarice Lispector in Italia. Negli ultimi anni, la curiosità per le infinite combinazioni del linguaggio lo aveva portato a fornire prove di scrittura dotate di grande sensibilità, spingendolo a lavorare su generi di confine, a cavallo tra la saggistica, la memoria e il romanzo. Se nella Donna marina, edito da Sellerio nel 1984 (ripubblicato in un'edizione rivista e ampliata nel 1992), Morino aveva ricostruito le vicende della conquista del Messico attraverso gli occhi, i pensieri e i piccoli gesti di Marina - la schiava indiana «regalata» a Hernan Cortés che, in poco tempo, diventò la sua traduttrice - nei successivi In viaggio con Junior (2002) e Rosso taranta (2006), editi anch'essi da Sellerio, Morino si era aperto ancora di più alla sfida della forma-romanzo lavorando sulla scrittura diaristica e al tempo stesso trasgredendola. «Organizzando con parole scritte certi momenti della mia vita, selezionandoli, assoggettandoli alle esigenze del raccontare - osservava Morino a proposito di In viaggio con Junior - ho messo una distanza nei confronti di quegli stessi momenti. Li ho depurati, li ho chiusi in una compostezza che all'origine non avevano, li ho spinti dentro una trama più vasta, di ordine generale. È così che mi ritrovo ad avere scritto, in forma di diario, un romanzo». A Morino si devono anche la bella ricostruzione biografica dedicata a Marguerite Duras (Il cinese e Marguerite, Sellerio, 1997) e il curioso e divertito Libro di cucina di Juana Inés de la Cruz (Sellerio, 2000). Dopo avere firmato centinaia di versioni dallo spagnolo e dal francese, la traduzione aveva acquisito per lui un ruolo secondario in un percorso che lo stava portando ad accettare la sfida, e il conseguente rischio, di scrivere in prima persona. «Ho l'impressione che tradurre - dichiarava - «per me sia stato come un lungo giro necessario per arrivare a questo punto: la cessazione del tradurre».

 


        
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