DA A A X


John Berger

 


Mi Guapo,

stai ascoltando le mie parole nella tua cella mentre le scrivo. Me ne sto seduta a letto. Sulle ginocchia ho il taccuino.

Se chiudo gli occhi rivedo le tue orecchie, quella sinistra un po' più sporgente rispetto alla destra. La mia amica del cuore sosteneva che le orecchie umane sono come dizionari e, se uno ne è capace, può andarci a cercare le parole. Limpido, per esempio, la parola Limpido.

È squillato il telefono ed era la voce secca di Yasmina-- è così che cinguettano i fringuelli quando vogliono segnalare che un albero è in pericolo-che mi diceva che un Apache sorvolava la vecchia fabbrica di tabacco nel quartiere di Abor dove si nascondevano sette dei nostri e che le donne del vicinato-ed anche altre donne-si preparavano a formare uno scudo umano attorno alla fabbrica e sul tetto per impedire che venisse bombardata. Le dissi che anch'io ci sarei andata.

Misi giù la cornetta e me ne stavo lì immobile, ma era come se stessi correndo. Un'aria fresca mi accarezzava la fronte. Qualcosa di mio - ma non era il mio corpo, forse il mio nome A'ida-correva, s'impennava, si librava nell'aria per poi precipitare impedendo la vista e la mira. Forse è la stessa sensazione che prova un uccello appena liberato. Una certa limpidezza.

Non ti manderò questa lettera, però vorrei dirti quel che abbiamo fatto l'altro giorno. Forse non la leggerai fino a quando non saremo entrambi morti, no, i morti se ben ricordo, non leggono. I morti sono ciò che rimane di quel che è stato scritto. Di ciò che è stato scritto, molto è stato ridotto in cenere. I morti sono tutti lì nelle parole che restano.

Tempo che sono arrivata alla fabbrica, una ventina di donne s'erano già installate sul tetto e agitavano dei veli bianchi, di quelli che servono a coprire la testa. La fabbrica è a tre piani, proprio come la tua prigione. Al piano terra, tutto l'edificio era circondato da donne che se ne stavano con le schiene contro il muro. Ancora nessuna traccia di carriarmati, jeep o Humvee. Così mi sono unita a loro dopo aver attraversato la landa desolata che separa il paese dalla zona industriale. Alcune delle donne le riconoscevo, altre no. Ci toccavamo e scrutavamo in silenzio, a conferma di quello che avevamo in comune, di quello che condividevamo. La nostra unica occasione per divenire un corpo unico nel tempo che restavamo lì rifiutandoci di spostarci.

Abbiamo sentito l'Apache ritornare. Volava piano e basso per spaventarci ed osservarci, il rotore a quattro pale ricattava l'aria perché lo sostenesse. Sentimmo l'ormai consueto ringhio dell'Apache, il ringhio di chi decide dove colpire e quello della nostra fuga alla ricerca di un riparo, ma oggi no. Si vedevano i due missili Hellfire trattenuti sotto le sue ascelle. Si potevano vedere il pilota e il soldato alla mitragliatrice. Potevamo vedere le mitragliatrici che ci puntavano.

Era probabile che qualcuno di noi venisse ucciso davanti alla montagna rovinata, davanti alla fabbrica abbandonata, utilizzata come ospedale improvvisato durante l'epidemia di dissenteria quattro anni fa. Ognuna di noi era spaventata, ma non per sé stessa.

Altre donne s'affrettavano a scendere percorrendo la stradina a zig zag che portava giù dalle alture del Monte Abor. È davvero ripida - te la ricordi? - e l'elicottero non lo potevano vedere. Scendevano aiutandosi tra di loro, ridacchiando nervosamente. Era strano sentire la loro ilarità mista al ringhio dell'Apache. Diedi un'occhiata alla catena umana delle mie compagne disposte a mo' di scudo, specialmente alle loro fronti e mi feci persuasa che alcune di loro avevano avvertito la mia stessa sensazione. Anche loro avevano fronti limpide. Quando finalmente le ritardatarie del Monte Arbor ci ebbero raggiunto, si misero a posto i vestiti e le abbracciammo con calore e solennità.

Più cresce il nostro numero più grande diventiamo come bersaglio, più grande il bersaglio più forti diventiamo noi. Una logica strana ma limpida! Ognuna di noi impaurita, ma non per la propria incolumità.

L'Apache era sospeso sopra il tetto della fabbrica, ancora tre piani più alto nel cielo, stazionario eppur mai fermo. Ci tenevamo per mano e di tanto in tanto ripetevamo il nome di chi ci stava vicino. Io tenevo la mano di Koto e di Miriam. Koto era una diciannovenne dai denti bianchissimi. Miriam, invece, era una vedova cinquantenne il cui marito era stato ucciso venti anni prima. Sebbene non ti spedirò mai questa lettera, i nomi li cambio lo stesso.

Proprio in quel momento sentimmo arrivare i carriarmati. Ce n'erano quattro. Koto mi accarezzava il polso con un dito. Sentimmo una voce amplificata che ci ordinava di disperderci e di andare dentro. La strada dall'altra parte della landa era affollata di persone, e riuscii ad intravedere diversi cameramen. Qualche decigrammo a nostro favore.

I giganteschi carriarmati adesso si avvicinanavano a gran velocità, e le torrette giravano per scegliere con precisione il bersaglio.

La paura provocata dai suoni è la più difficile da tenere sotto controllo. Lo sferragliare dei cingoli che afferravano e appiattivano tutto ciò che incontravano sulla loro strada, il ruggito dei loro motori piegato dai rumori di aspirazione e l'altoparlante che ci ordinava di disperderci - tutti i tre questi rumori che diventano sempre più forti, fino a quando non si furono fermati anche i carriarmati disposti in fila di fronte a noi, ad una distanza di dodici metri e con le bocche dei cannoni da 105 mm ancor più vicini. Non ci stringemmo insieme per ripararci, anzi ci allontanammo un po' l'una dall'altra, ci toccavamo solo con le mani. Un comandante emerse dal portello del primo carrarmato e stentando a parlare la nostra lingua ci informò che adesso saremmo state costrette a disperderci.

Ma lo sai quanto costa un Apache? Mormorai a Koto, da un angolo della bocca. Lei accennò di no con la testa. Cinquanta milioni di dollari, le dissi a denti stretti. Miriam mi baciò sulla guancia. Mi aspettavo che si aprisse il portello posteriore di uno dei carriarmati e che emergessero i soldati, atterrassero sui piedi e ci portassero via. Non ci avrebbero messo più di un minuto. Ma non lo fecero. Invece i carriarmati si girarono e mettendosi in fila uno dietro l'altro, ad una distanza di 20 metri , e iniziarono a muoversi formando un cerchio attorno a quello che avevamo formato noi .

In quel momento non ci pensai, mi Guapo, ma adesso, in piena notte, mentre ti scrivo, mi viene in mente Erodoto. Erodoto di Alicarnasso che fu il primo a scrivere le storie di tiranni assordati dagli dei con il frastuono delle proprie macchine.

Non avremmo mai potuto resistere ai soldati, ci avrebbero portate via a forza. Nel loro avanzare in circolo, i carriarmati si avvicinavano sempre di più a noi e, deliberatamente, ci stavano stringendo in un nodo scorsoio.

Sai quando un gatto misura la distanza del balzo che sta per compiere e poi atterra con tutte e quattro le zampe raggruppate precisamente nel punto che aveva calcolato? È proprio ciò che ci trovammo a fare noi, misurando, non la distanza del balzo, ma il contrario- la quantità precisa di volontà che ci occorreva per prendere la decisione di starcene lì ferme, nonostante la paura. Niente. Se sottovalutavi la quantità di determinazione che ti serviva, finiva che avresti rotto la catena umana e ti saresti messa a correre prima ancora di renderti conto di ciò che stavi facendo. La paura era costante, ma allo stesso tempo oscillava. Se invece sopravvalutavi, esaurivi le tue energie e saresti stata un peso morto alla fine costringendo le altre a sostenerti. Il nostro tenerci per mano ci era d'aiuto perché l'energia da calcolare passava da mano a mano.

Quando i carriarmati ebbero completato il giro della fabbrica, si trovavano ormai alla distanza di un braccio dai nostri corpi. Attraverso il reticolo che copriva le feritoie, potevamo intravedere elmetti, occhi, mani inguantate.

Ma più terrificante di tutto era la corazzatura del carrarmato vista da una distanza così ravvicinata. Mentre ognuno di essi ci passsava accanto, era questa superficie, la più impermeabile che sia stata mai creata dall'uomo, che non potevamo evitare di vedere, anche se cantavamo - e adesso avevamo iniziato a cantare. Era una superficie bullonata, piena di dadi arrotondati per rivetti ciechi, con la consistenza di pelle d'animale che non è mai lucida, la sua durezza granitica e il suo colore fecale, non il colore di un minerale ma di un qualcosa che si sta decomponendo. Era proprio contro questa superficie che ci aspettavamo di essere schiacciate. E di fronte a questa superficie dobbiamo decidere, attimo dopo attimo, di stare ferme, di non spostarci.

Mio fratello, gridò Koto, mio fratello dice che si può distruggere qualsiasi carrarmato se si trova il punto e il momento giusto!

Come abbiamo fatto - tutte e trecento di noi- a resistere, come siamo state capaci? I cingoli del carrarmato sono ormai a qualche centrimetro dai nostri sandali. Non ci siamo mosse. Abbiamo continuato a tenerci per mano e a cantare per l'un l'altra con le nostre voci da vecchia. È stato proprio così e questo ci ha permesso di fare ciò che abbiamo fatto. Non è che fossimo invecchiate, eravamo semplicemente vecchie, di un migliaio di anni.

Si udì il lungo crepitio di una mitragliatrice nella strada. Dalla posizione che occupavamo non si vedeva bene ciò che stava accadendo, e allora facemmo dei gesti alle nostre sorelle sul tetto che potevano vedere meglio. L'Apache era minacciosamente sospeso sulle loro teste. A gesti anch'esse ci fecero capire che una pattuglia aveva sparato contro delle figure che correvano. Subito dopo si udì il lamento di una sirena.

Il risucchio del carrarmato che veniva dopo e che ci costringeva ad appiattirci contro il muro, faceva alzare e gonfiare le nostre gonne. Non fare niente. Non ci siamo mosse. Eravamo terrorizzate. Con le nostre voci acute da vecchia continuammo a cantare - Da qui non ci muoviamo! Ognuna di noi armata di nient'altro che un utero derelitto.

È stato proprio così.

Poi un carrarmato - non abbiamo creduto immediatamente alla nostra vista annebbiata - smise di girarci intorno dirigendosi invece verso la landa desolata, seguita dal carrarmato dietro di esso e poi da quello successivo e poi dall'ultimo. Le vecchie appostate sul tetto esplosero in urli di gioia, mentre noi tenendoci ancora per mano ma adesso zitte, iniziammo a tracciare un cerchio attorno al perimetro della fabbrica facendo passi laterali alla nostra sinistra, piano piano, come si confaceva ai nostri anni.

Circa un'ora dopo, i nostri sette compagni erano pronti a svignarsela. Noi, le loro nonne, ci siamo disperse ricordando come era sentirsi giovani e poi ritornando giovani. Entro dieci minuti arrivò la notizia, passata di bocca in bocca: Manda, l'insegnante di musica era stata colpita a morte per strada. Stava venendo per unirsi a noi.

Il liuto non è come qualsiasi altro strumento, era solita dire, appena ti sistemi un liuto sulle ginocchia, si trasforma in un uomo! Manda!

Per il resto dei miei giorni, sarò sempre tua, mi Guapo.

 

[lettera non mandata]



From A to X A Story in Letters (Da A a X, - Una storia in lettere) la sua ultima opera, che si avvicina nella forma ad un romanzo epistolare, di 197 pagine, pubblicato dalla casa editrice Verso, nel 2008.

La lettera pubblicata in Sagarana, fa parte di un gruppo di lettere mai inviate, che secondo la cornice del romanzo vengono ritrovate in una cella, di una prigione dismessa, testimonianza di un'accorata corrispondenza tra due amanti, appunto A (A'ida) e X (Xavier) entrambi attivisti politici, separati dalla lunga prigionia di lui, in un angolo di mondo che potrebbe essere il Medio Oriente o l'America Latina.







John Berger
, 78 anni, inglese nato a Londra nel 1926, è noto in tutto il mondo come critico d'arte, poeta, giornalista, romanziere, sceneggiatore cinematografico, autore teatrale e disegnatore. Per la saggistica, spicca il suo libro Ways of Seeing, che la rete televisiva BBC ha trasformato in una serie TV; come romanziere, vince il Booker Price con G nel 1972; come sceneggiatore è noto, tra l'altro, per la sceneggiatura, scritta in collaborazione con il regista svizzero Alain Tanner, di Jonah qui aura 25 ans l'an 2000 e quattro piece teatrali; come giornalista collabora con El Pais, The Guardian, The Independent, Frankfurter Rundschau.
Da quasi trent'anni si è ritirato a vivere a Quincy, un piccolo villaggio alpino.

 


        
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