IL '68 ED IL PROBLEMA DELLA VIOLENZA

Toni Negri

 



Il '68 - quello europeo, quello tedesco-francese oppure tantopiù quello americano, Easy Rider - in Italia non c'è. C'è un lungo periodo, dal '67 al '79, che vede l'esplodere e l'espandersi di una insubordinazione proletaria, operaia e studentesca, popolare ed intellettuale (si tratta, fondamentalmente, di strati medio-alti del ceto medio al nord e medio-bassi al sud) che sfocia nella rivolta aperta contro il duopolio repubblicano Dc-Pc e la continuità delle strutture statali ereditate dal Risorgimento e dal fascismo. Questa rivolta identifica come suo nemico il modello di sviluppo impostosi nel secondo dopoguerra. Un modello di sviluppo capitalistico, ad altissima valenza fordista, giocato su un compromesso politico reazionario, capace talvolta di scelte riformiste (ma sempre di debole intensità), puramente riproduttive del sistema - condotto da una classe politica incapace di ascolto reale. L'egemonia su questo sviluppo di lotte è della classe operaia delle grandi fabbriche: questa classe operaia si è resa relativamente indipendente dalla direzione sindacale e dei partiti del Movimento Operaio, così come relativamente indipendenti sono i movimenti migratori del proletariato del sud. Sono insomma le lotte operaie e i movimenti proletari che, rompendo la scorza dura della società italiana, aprono la strada all'espressione più o meno modernizzatrice, più o meno rivoluzionaria di altre forze sociali - studentesche, femministe, religiose, genericamente civili. Il '68 vede ancora la classe operaia come educatrice del genere umano. Se vogliamo esaltare o almeno evidenziare un momento centrale del '68 italiano dobbiamo quindi vederlo nelle giornate del luglio '69 a Torino : è la rivolta degli operai FIAT, a Corso Traiano, che si estende in guerriglia urbana per un giorno ed una notte da Mirafiori fino al Nichelino. Dopo essersi formata e diffusa per mesi sulle linee, dopo aver prodotto prima cortei d'avanguardia militanti e poi di massa, sabotaggi, blocchi, sequestri di dirigenti, questa rivolta produce una jacquerie industriale che riassumeva analoghe esperienze condotte in molte altre fabbriche italiane. Non a caso, qui a Torino, confluiscono le avanguardie studentesche dal Nord e dal Sud. La cosa interessante da sottolineare è che questa centralità operaia del '68 italiano non rappresenta uno dei tanti elementi anomali della storia italiana rispetto alla crisi sessantottesca della modernità capitalistica: rappresenta piuttosto, in questo caso, la medietà di quest'ultima. E' questo punto medio che serve di riferimento alla scienza ed alle pratiche politiche dell'avversario del '68: è infatti a fronte della rivolta operaia che si stende su tutti i punti alti dello sviluppo capitalistico e dei movimenti migratori del proletariato del Sud globale, che si dà la risposta politica del capitale più maturo. Due sono gli imperativi che il comando capitalistico, alla ricerca del controllo di quel passaggio storico e per il superamento della crisi, propone. Esso li avanza dunque in risposta a quel '68 antagonista, radicalmente impiantato nella contestazione del modo di produrre, di cui l'Italia rappresenta uno dei luoghi tipici : a) bisogna togliere la classe operaia dal centro del sistema produttivo; b) bisogna "limitare la democrazia" come spazio istituzionale sul quale le lotte possono affermarsi ed esercitare la loro efficacia. Nel linguaggio di Huntington, documento della Trilaterale del 1973: "neri, indiani, chicanos, operai bianchi e gruppi etnici diversi, studenti e donne domandano cose che risultano impossibili per la riproduzione capitalistica, e che la misura democratica non può assumere: essi così determinano crisi fiscali, costruiscono disequilibri economici e sociali ma soprattutto, gravissima, l'impossibilità di controllo". La rivoluzione tecnologica degli anni '70-'80 e le correzioni del metodo democratico prescritte dalla Trilaterale ed applicate da Thatcher-Reagan qualche anno dopo saranno la figura nella quale la restaurazione capitalistica si realizza.

Ma ritorniamo a noi. Se la rivolta operaia di corso Traiano nel luglio '69 è il '68 italiano ed ha inizio "l'autunno caldo", il 12 dicembre '69 (la strage di Piazza Fontana) - solo quattro mesi dopo - apre in Italia il terrorismo. Continuerà fino agli anni '80, direttamente gestito dallo Stato e dalle bande fasciste e mafiose che ne accompagnano l'azione. Si apre qui dunque il problema della violenza. Parliamoci chiaro: fino alla fine del '69 le lotte studentesche - diversamente da quelle che talora erano state le lotte operaie e contadine- sfiorano solamente la violenza vera, quella che Spinoza comunque considerava degna risposta ad azioni turpi del potere e proclamava effetto della indignazione multitudinaria. In ogni caso quelle lotte non potevano essere assimilate, in qualità ed intensità, alla reazione degli organi statuali. Bisogna ricordare che, lungo tutti gli anni Sessanta, continuano (da Reggio Emilia ad Avola, a Battaglia etc) uccisioni e stragi esemplari da parte delle forze dell'ordine della Repubblica. Non possiamo dunque assimilare a quella statale la violenza delle lotte operaie e studentesche, a meno di non volere chiamare terrorismo anche quelle espressioni di resistenza che il '68 studentesco talora mostra. Ma non saranno certo i chierichetti, cattolici o stalinisti, delle università di Milano, né i giovani architetti di Valle Giulia, tanto sprezzati da Pasolini, a costituire l'evento fatale del riapparire della violenza in Italia. Chi comincia è lo Stato, nella continuità anche biografica dei suoi apparati di repressione monarchici e fascisti. La novità consiste piuttosto nel consenso, o nell'astensione dalla critica aperta, che da subito larghe parti della direzione del movimento operaio concedono a questo schema capitalistico globale di contenimento delle lotte. Su questa congiuntura, si può senz'altro affermare che il "compromesso storico" comincia dalla fine del '69.

Il paradosso della situazione consiste nel fatto che la classe politica italiana finge una totale inconsapevolezza (e se non è inconsapevole, è comunque impotente a reagire) dei progetti e delle forzature che vengono prodotti dal capitale globale, a livello internazionale, cioè delle poste in gioco della ristrutturazione capitalistica e del remodelage della democrazia liberale. In effetti due rotture possono reciprocamente nascondersi: quella determinata dalla repressione, da un lato (che riprende vecchi modelli e rinnova vocazioni borboniche) e quella determinata dalla trasformazione dei modi di produzione che utilizza la rivolta studentesca contro quella operaia e dispone le tecnologie del lavoro intellettuale/immateriale contro le strutture e la disciplina del lavoro manuale/operaio. Si dà dunque un'asimmetria tra lo sviluppo delle lotte che hanno un effetto reale ("antropologico" - ma si potrebbe forse aggiungere "ontologico") di trasformazione dei soggetti, delle loro forme di vita (è questo il livello della critica? Vuole la critica chiarire, cioè prendere coscienza e farsi responsabile dei nuovi processi di soggettivazione che vengono sviluppandosi?) - un'asimmetria tra lo sviluppo delle lotte, dunque, e la reazione del potere, la gestione (più o meno legittima, anche se spesso illegale) delle forme tradizionali del governo. Questo, cioè questa asimmetria, è il punto sul quale si apre la violenza, quando cioè non c'è più possibilità che la critica tocchi la vicenda del potere.

Dentro questa asimmetria tutti perdono. E' certo infatti che, quando la critica e la forza non riescono più ad incrociarsi e a costruire nuovi comportamenti istituzionali, l'orizzonte è quello della violenza. Quando le BR giustiziano Moro, non è né la ghigliottina dell'ultimo dei Capeti nè la fucilazione dell'ultimo Romanov. Tuttavia non è neppure una semplice parodia: è un vuoto, un abisso di insensatezza che porta con sé e rappresenta in sé la crisi di un'epoca. Non a caso, d'altro lato, la violenza esercitata (più o meno legalmente) dal sistema politico è altrettanto tragica e distruttiva. Il sistema politico è messo in crisi. Dopo il lungo '68 italiano non si darà più sistema, e neppure passione di egemonia, né fascino per la trasformazione. Italia da bere! Il cinismo e la leggerezza, il conformismo e l'impotenza giacciono sotto la stessa coperta. In particolare il PC (quella grande, antica forza democratica) si sfascia. "Muoia Sansone con tutti i filistei", sembra essere questo il grido che risuona da Berlinguer fino alla Bolognina, per non parlare del dopo ... Ecco lo scontro con Craxi : poi non resta più nulla della sinistra. Pietà per quella magistratura che così pensava di rinnovare l'Italia! L'idiota e l'ingenuo mai sono stati rappresentati così tragicamente. Ma tutto ciò era stato prefigurato dalla terribile vicenda dell'intransigenza nella trattativa Moro e rappresentato nella grottesca cerimonia funebre a Santa Maria Maggiore, in assenza di entrambi i corpi del re, quello fisico e quello sovrano.

Di nuovo, ritorniamo a noi. Con il '68 e a partire dal '68 si scontrano una repressione, talora terroristica, di tipo fascista (gestita direttamente dallo Stato) ed una risposta "resistenziale" - carica di comportamenti "estremisti", ma infine sempre più disorientata e disorientante. La figura dell'anomalia italiana, cioè la tragica storia dell'imbroglio risorgimentale e del lungo fascismo, l'intelligenza timida della resistenza antifascista e la prudenza inetta del compromesso sociale rioccupano il centro della vicenda politica. La ripetizione la vince sulla differenza, l'habitus trionfa. Siamo, a questo punto, davanti a comportamenti - sia quelli governativi, sia quelli del movimento - ancora del tutto interni alla modernità, ovvero alle strategie moderne della governamentalità borghese ed alla tradizione del movimento socialista. Ma intanto tutto cambia.

D'altro lato, infatti, a livello internazionale, come abbiamo già detto, ormai estraneo alla vicenda italica, si svolge il vero '68. Si svela inizialmente (ma resterà definitiva) la sua nuova sigla: originali genealogie del lavoro (e/o della liberazione del/dal lavoro) e nuove forme del potere. Il post-moderno comincia qui: quando cioè la sovranità deve cominciare a fare i conti con contropoteri sociali diffusi (oh, quanto diversamente da quel che vorrebbero i compromessi istituzionali italici!) ed i governi devono finalmente dimenticare ogni presunzione di assolutezza: il governo si trasforma in management, in governance - nel mentre si realizza un vero e proprio cataclisma nel modo di produrre. Il capitale risolve infatti la crisi-'68 sviluppando una rivoluzione produttiva che passa attraverso la distruzione del ruolo centrale del lavoro diretto o immediato nella produzione ed impone conseguentemente la messa al lavoro della società intera (automazione nell'industria, informatizzazione del territorio, terziarizzazione e precarizzazione della forza lavoro, biopolitica del dominio). In effetti il capitale insegue la nuova antropologia del lavoro che si era formata nella vicenda sessantottesca, la nuova figura dell'attività produttiva sociale: intellettuale piuttosto che manuale, femminilizzata e flessibile, globalizzata e mobile. Ora, anche la critica dovrebbe seguire questa nuova condizione materiale della società e dello spirito. Avrebbe già dovuto seguirla nel decennio sessantottesco. Non lo ha fatto. Nei così detti laboratori politici che allora si fondano, i più intelligenti riproducono vecchie ideologie, reinventano la teologica e schmittiana "autonomia del politico", inseguono immagini spengleriane del tramonto dell'occidente, spargono illusioni tanatopolitiche ed altre facezie del genere. Così si costituisce la cultura della droga e del riflusso. Aveva in realtà ragione Michel Crozier quando, dal cenacolo della Trilaterale, descriveva "maggio" come "le dernier grand cinéma", l'ultimo spettacolo della storia del movimento operaio. Aveva ragione: il sessantotto è la fine della storia del movimento operaio, perché è la fine, insieme di un modello di crescita capitalistica e di potere del movimento socialista. E' finito il dopoguerra. E' finita la modernità. A ricostruzione terminata, il movimento socialista non ha più nulla da raccontarci. Ma anche i valori della modernità capitalista (e qui Crozier passa dalla parte del torto e svela la sua volontà di mistificare) sono ormai diventati caduchi. E', certo, la fine del "secolo breve", che era cominciato con la rivoluzione bolscevica. Ma è anche la fine di quell'abbraccio nel quale direzione capitalista e movimento socialista, nel bene o nel male, si stringevano, si dipingevano l'un l'altro, si sostenevano a vicenda. Ora sembra che s'abbraccino due morti. Chiediamoci: se con il '68 il processo della modernità capitalista è definitivamente interrotto, se ne apre forse un altro che cerca in altro modo di reinventare il comunismo? Non lo so. Talora credo di sì, altre volte ne dubito. Non si tratta tuttavia dell'"ultimo grande spettacolo", il '68 fu invece un tornante, meglio, un evento decisivo- ovvero, ed è lo stesso, un'esperienza cruciale- perché il '68 introduce ovunque un irriducibile elemento di libertà e lo porta fin nel dispositivo biopolitico del lavoro. Critica ed armi ricominciano a lavorare insieme. In fondo Crozier e i suoi amici avevano ragione dal loro punto di vista, ed erano ben più intelligenti di tutti quelli che allora rispolveravano "l'autonomia del politico". Era nella rivoluzione dei modi di produrre che il capitalismo poteva ritrovarsi come potere egemone. Era, per lui, compito improbo ma necessario risolvere questo problema, uno sforzo enorme. Credete fosse facile per il "capitalista collettivo" riconoscere che gli strumenti di cui si era servito per disciplinare lungo un paio di secoli il mondo del lavoro, e per sfruttarlo, si erano evaporati? Da allora il capitalismo ha cercato di modificarsi. C'è mal riuscito e la crisi continua. Ma il perdurare del comando capitalistico sta nella continua apologia che esso fa della sua coscienza critica. Quanto al movimento socialista non si è neppure posto il problema- quando era invece proprio nella rivoluzione delle forme di vita promossa dal '68 che il desiderio del comune poteva riapparire. Ritornando a noi, diciamolo di nuovo, critica e forza possono e debbono trovarsi insieme. Per costruire istituzioni. Machiavelli l'esprimeva, che meglio non si può, quando prescriveva - come traccia della costituzione democratica - la sintesi di leggi e forza, di denaro e di armi. In effetti, quando critica e forza non si incontrano, divengono l'una e l'altra violenza, la forza cioè diviene ragion di Stato o terrorismo, la critica diviene libertinaggio cinico o progetto catastrofico, insomma cieco pessimismo della ragione o nudo ottimismo della volontà. E' così che il '68, la rivoluzione interrotta mostra una scissione ontologica insuperabile ed apre a nessuna soluzione, che non sia l'esodo.

Ma che cos'è quest'esodo? Esso è nato con il '68, nel '68. Talvolta inerme, talvolta difeso dai katanga, è la consapevolezza di un non-ritorno, di una riforma del paradigma della vita comune. Sarà allora riconoscere che dopo il '68 le istituzioni della democrazia liberale non possono riprodursi. Lo dichiaravano già gli Huntington e i Crozier- ed innumerevoli altri- quando intervenivano per cancellare ogni possibilità di ripresa delle lotte operaie attraverso la riforma del sistema dello sfruttamento e - insieme - del sistema di governo. Lo riconosciamo noi, che stiamo dall'altra parte, e che nel desiderio- con cupiditas- continuiamo quel '68. Quando lo ricordiamo, lo teniamo come un evento che ha fatto tutto cambiare, che ha cioè prodotto una metamorfosi del nostro essere. E' strano che si ritorni tanto a San Paolo, in questo periodo di rimembranze: lo si fa tuttavia a ragione per sottolineare un passaggio che probabilmente è stato da troppi vissuto, ma anche da troppi, piuttosto che dimenticato, messo a lato, refoulè. Una conversione dell'essere, questa maniera di Paolo di proclamare: "ero giudeo, sono divenuto cristiano, ma non ho abbandonato una religione per l'altra, è il mio essere che è cambiato". E' in questo senso che non si può dimenticare il '68, perché non si può più pensare, né vivere, come si pensava o si viveva prima. "Gli anni '60 erano stati straordinari, dice Stephen King: essi sono esistiti non solo perché li si racconta ancora ma perché ci sono veramente stati". Ce li ritroviamo nella testa e nelle gambe. Si è trattato appunto di una conversione reale, della perdita di un'identità e dell'apertura ad altra identità - o, meglio, finalmente a nessuna identità. Senza il '68 la seconda metà del ventesimo secolo sarebbe stata solo triste, come in buona parte è stata .. Ma non è triste per chi sa riconoscere quel '68 come un'origine - un'origine che è un avvenire. Forse le nuove generazioni non hanno neppure bisogno di ricordarselo, il sessantotto sta nel loro DNA, ils ont '68 au corps. La traduzione della critica nelle armi, con il '68, l'ha fatta compiutamente solo la classe dirigente. Gli effetti di questa transizione sono dubbi, incerti. Molti, anche fra i protagonisti, rifiutano di considerare il '68 come un momento nel quale il tema delle armi sia stato posto in maniera centrale. Da Dany Cohn-Bendit ai "nuovi filosofi" è stato tutto un fare a chi mentiva di più per sdrammatizzare, ad esempio, il Maggio francese: Maggio gioioso, rivoluzione sessuale, Bernando Bertolucci e Philippe Garrel.Ma allora perchè un De Gaulle va all'estero per organizzare militarmente la reazione e rimettere ordine in Francia? Un vero e proprio appello reazionario alle armi chiude il '68 francese. Ma nessuno vuole ricordarlo. L'ipocrisia è diventata così regina nel ricordo del '68. Di contro, come non ricordare, nella civile Germania del secondo dopoguerra, il tentativo di assassinio di Rudy Dutschke? Comunque, a vanificare l'ipocrisia, dopo il '68 prendono vigore quelle pratiche che vedono "nella politica la continuazione della guerra". Un altro erede del '68, Glucksman, reinventava questo slogan già all'inizio degli anni '70 e continua a ripeterlo in cattiva compagnia con i conservatori e i reazionari di entrambi i lati dell'Atlantico. La neutralizzazione o la continuità della colpevolizzazione del '68 vanno assieme con l'apologia delle politiche militari del neoliberalismo. Dubito tuttavia che esse possano ripetere la dubbia, ambigua efficacia che ebbero le resipiscenze reazionarie della scienza politica e della filosofia romantiche al termine delle Rivoluzione francese. Quelle rinacquero in maniera parassitaria attraverso i nazionalismi rivoluzionari dell' 8-900; queste si nascondono nelle idiosincrasie identitarie e nei fondamentalismi eurocentrici del nuovo millennio. Ebbene, no! La "critica delle armi" di parte moltitudinaria, dinanzi allo sviluppo della storia europea e mondiale dopo il '68, non sembra proprio potersi presentare come colpa e neppure come causa di impotenza. La si potrà piuttosto ancora sviluppare, la critica delle armi, rispondendo alla questione: quanta forza ci vuole per realizzare quel che la critica ha solo cominciato a mostrarci nel dispositivo del '68? Con tutta probabilità, da questo punto di vista, il '68 è stato la penultima rivoluzione...




(Intervento al Festival della filosofia, Roma 17.04.08. Tavola Rotonda con Marramao, Esposito, Negt, Schneider.)







Antonio (Toni) Negri, nato a Padova nel 1933, è stato uno dei soci fondatori di "Potere Operaio" e, successivamente, del gruppo Autonomia. Ha lavorato al fianco di molti altri autonomisti famosi, studenti e femministe degli anni 60 e 70, inclusi Raniero Panzieri, Mario Tronti, Sergio Bologna, Romano Alquati, Mariarosa Dalla Costa e François Berardi. Inoltre, ha scritto per Futur Antérieur con persone del calibro di Paolo Virno.
Meglio conosciuto come il co-autore, con Michael Hardt, di Impero (Rizzoli, Milano 2002), Negri è libero (ma non gli è permesso di prendere parte alle elezioni, né di insegnare) dalla primavera del 2003, dopo aver trascorso un periodo in carcere per propositi criminosi, con l'accusa che egli e i suoi scritti fossero 'moralmente colpevoli' in atti di violenza che erano causati dal suo sostegno all' 'insurrezione armata' contro lo stato italiano durante gli anni 60 e 70. Nel 1997, Negri è ritornato volontariamente da un esilio di quattordici anni in Francia, dopo essere stato eletto nel 1983 al corpo legislativo, mentre veniva imprigionato e poi rilasciato per immunità parlamentare.
Le sue opere prolifiche, iconoclastiche, cosmopolite, altamente originali e spesso di densa e difficile filosofia tentano di attuare una critica nei confronti della maggior parte dei principali movimenti intellettuali degli ultimi cinquant'anni, in difesa di una nuova analisi marxista del capitalismo.





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