SUD-SUD, GENERE E GENERAZIONI


Renate Siebert







Nel significato che Franco Cassano ha dato al concetto di pensiero meridiano risulta particolarmente rilevante lo sforzo di «restituire al sud l'antica dignità di soggetto del pensiero, interrompere la lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri». Condividendo tale esigenza - nella quale oggi molti intellettuali si riconoscono eticamente e politicamente - vorrei cercare di tematizzare alcuni nodi rilevanti che gli avvenimenti recenti hanno reso incandescenti. L'attacco terroristico dell'undici settembre ha accentuato una scissione ideologica e stereotipata tra Nord e Sud che rischia di vanificare ulteriormente gli sforzi di coloro che cercano di costruire discorsi critici e circostanziati a partire da realtà concrete. Tuttavia, forse, e paradossalmente, tali eventi potrebbero aver messo in moto energie nuove, nostalgie di pace e, finalmente, un vero interesse per tutti quegli 'altri' indistinti e troppo a lungo ignorati. Un effetto di «astuzia della ragione» - entro un contesto che sembra offrire poche vie d'uscita e di riparazione. Donne e uomini, generazioni diverse fanno esperienze differenziate e percepiscono la realtà in modi non omogenei. Appare cruciale - in una prospettiva di pace e di reciproco arricchimento - individuare elementi di affinità, pur riflettendo sulle diversità concrete. Ma non basta la buona volontà; l'idea di una relatività delle culture porta i segni di una dialettica dell'oppressione, è un processo più che un dato univoco, come ha recentemente sottolineato Adriano Sofri: «Com'è cresciuta questa idea di tolleranza e di curiosità rispettosa? Sulla scia della sopraffazione di altre culture, di altre genti, di altri mondi». Non si tratta di ragionare in termini di autaut, ma occorre trovare una misura: «Se non riconosco la misura, il limite, arrivo (ingenuamente, o ottusamente) a proporre che infibulazioni, clitoridectomie eccetera, pratiche preislamiche assai diffuse e anzi anch'esse riattizzate, vengano eseguite presso le nostre Asl, con vantaggio dell'accuratezza, dell'igiene e dell'anestesia». Esiste un modernissimo uso strumentale delle tradizioni che appare funzionale ad un controllo totalizzante su persone e relazioni, dai clan mafiosi alle bande integraliste islamiche. Per tracciare i confini del cosiddetto relativismo culturale dobbiamo di volta in volta cercare di comprendere, guardare dietro le apparenze, ascoltare le voci di coloro in nome dei quali certe violenze vengono perpetrate. E ascoltare noi stessi, i nostri luoghi comuni.

Qui cercherò innanzitutto di ragionare su esperienze di ricerca e in parte personali riguardanti questioni di genere e di generazioni nel contesto meridionale. Solo in un secondo momento proporrò alcuni elementi di riflessione che riguardano costellazioni simili, ma anche diverse, di altri Sud.

Molti sarebbero i temi e le problematiche da affrontare; non posso che sceglierne alcuni. Vorrei quindi mettere a fuoco gli aspetti che mi sembrano rappresentare sia un'eredità, sia una condizione attuale con le quali necessariamente si devono fare i conti:

- l'esperienza storica dell'emigrazione (che oggi andrebbe tematizzata in relazione ai processi di immigrazione)

- la questione dell'emancipazione femminile e delle libertà (che va ripensata alla luce della disoccupazione, ma anche e sempre di più alla luce delle crescenti disparità fra donne del Sud e donne del Nord del mondo)

- l'impegno politico e le conquiste del femminismo (che presentano luci e ombre particolari se declinati sul piano individuale e/o sul piano collettivo e globale).

Parto dal presupposto che donne e uomini di età diverse, appartenenti a generazioni diverse, incontrino tali 'dati' storici e culturali in momenti distinti della loro biografia.

L'emigrazione transoceanica è stata un fenomeno storico dalle mille sfaccettature: innovativo per molti aspetti strutturali, economici e culturali, una valvola di sfogo per conflitti sociali latenti, eccitante nella misura in cui sconvolgeva antiche consuetudini e certezze, devastante sul piano delle relazioni interpersonali e delle emozioni. Per cogliere l'enormità di tali processi occorre senz'altro uno sforzo di fantasia e di immaginazione. Se non altro per poter immedesimarsi - oggi, nell'era della comunicazione a livello planetario - nel vissuto della lontananza: che cosa significasse allora la distanza che separava, ad esempio, la Calabria dall'Argentina. Emigrando le persone care scomparivano, venivano inghiottite dall'ignoto, molte volte per sempre. Si partiva in cerca di beni materiali, lasciando alle spalle un proprio mondo di miseria, ma ricco di beni immateriali, di calore umano, di relazioni e di rassicurazioni. L'assenza e l'attesa generano stati d'animo nuovi che si sostituiscono - nel bene e nel male - ai sentimenti che avevano caratterizzato le relazioni intime in un mondo contadino chiuso e unico. La nostalgia, il rimpianto, il languore romantico diventano sentimenti in cerca di parole per dirsi.

Donne e uomini. Storie diverse.

Dolori. Sofferenze. Responsabilità. Sensi di colpa. Vergogna. Riscatto. Alle donne toccava in sorte di rimanere, di assistere impotenti alla partenza degli uomini, mariti, fratelli, fidanzati o padri che fossero. Anche volendo non erano autorizzate a partire. Per queste donne l'emigrazione rappresentava una rottura luttuosa, un fenomeno comunque più da elaborare attraverso processi psichici che non attraverso il fare. L'assenza prolungata degli uomini richiedeva a chi rimaneva un processo di interiorizzazione per colmare il vuoto materiale lasciato da questi uomini con una presenza e permanenza affettiva, interiore.

Ma l'emigrazione è stata anche una storia densa dei corpi. Corpi violentemente separati: quelli degli uomini che si usurano nella dura fatica del lavoro, quelli delle donne che, dopo le gravidanze, si atrofizzano nell'attesa. Una storia variamente elaborata e riconosciuta nelle singole biografie che, tuttavia, ancora attende un riconoscimento vero collettivo, al di là dei momenti celebrativi. Una storia che riaffiora nei ricordi familiari dei e delle giovani. Racconta oggi la sindaca Elisabetta Carullo: «A volte mi sembra un tragico paradosso: gli uomini pensavano di emigrare perché dovevano guadagnare soldi, migliorare le condizioni della famiglia, far studiare i figli. In realtà il paese si impoveriva, perché al momento in cui partivano, noi perdevamo le menti migliori, le persone migliori, che qui non avevano trovato opportunità».

L'emigrazione è stata storia di tutti, non soltanto di coloro che partivano. L'emigrazione rappresenta un lascito di memoria per le generazioni successive a quelle che l'hanno sperimentata in prima persona: un lascito che può essere elaborato per arricchire il presente, un lascito che rappresenta un capitale sociale per la creazione di relazioni di solidarietà con coloro che oggi arrivano. Affamati e disperati.

Un paese come tanti altri sulla costa ionica della Calabria. Nel 1997, proprio a Natale, giungono dal mare più di 800 profughi kurdi, uomini, donne, bambini stremati e in fuga da un genocidio che non si dice, lasciati alla deriva sull'Ararat, una vecchia e malmessa nave di oltre sessanta metri che si infrange sulla costa sottostante. E Badolato risponde: mette a disposizione un primo centro di accoglienza nella scuola media abbandonata del vecchio borgo, si preoccupa della ricongiunzione delle famiglie smembrate tra vari centri di accoglienza della zona (prima dell'Ararat erano arrivate altre navi e dopo ne arriveranno ancora), propone di alloggiare gli esuli kurdi nelle case abbandonate del centro storico. Oggi molti degli esuli dell'Ararat sono partiti per raggiungere altri familiari nei paesi del nord d'Europa, altri sono arrivati o arriveranno ancora. Eppure nulla sarà più uguale a prima a Badolato. La passata esperienza dell'emigrazione e l'elaborazione della perdita sono diventati un lascito per chi arriva oggi.

Passato, presente, futuro. Pensare il Sud a partire dal Sud richiede un lavoro di ricerca e di presa di coscienza il più possibile centrato sull'esperienza concreta. Anche la questione dell'emancipazione femminile, dei diritti e delle libertà, particolarmente a rischio di generalizzazioni stereotipate, non sfugge a tale esigenza. Donne - famiglia - lavoro per il mercato - cittadinanza. Dietro questa sequenza si cela un groviglio di problemi, contraddizioni e conflitti che coinvolgono, in un modo o nell'altro, ogni singola biografia femminile che si dipana nella tensione tra memoria storica ed espressione soggettiva nel presente. Più un risultato dell'integrazione nella sfera pubblica che non, in senso stretto, nel mercato del lavoro, l'emancipazione si configura per le (giovani) donne meridionali - molto probabilmente per le donne anche di altri Sud del mondo - come un diritto civile. Dalle ricerche emerge un dato inequivocabile: oggi la variabile significativa per l'emancipazione femminile è l'istruzione e non il lavoro retribuito.

Un recente studio di Donatella Barazzetti sul rapporto fra donne e lavoro nella Piana di Gioia Tauro mette bene in luce la complessità del mosaico di relazioni sociali, di condizionamenti strutturali e di elementi di soggettività che confluiscono nella questione dell'emancipazione femminile: i singoli percorsi emancipativi ne tengono conto. A volte questi fattori vengono subiti, a volte, con astuzia ed intelligenza, vengono agiti attivamente.

Il ruolo della famiglia nell'orientamento delle singole biografie è importante. Ma non appare una forma familiare monolitica e unidirezionale nel condizionare i propri membri. S'intuisce in un certo senso una duttilità nell'accogliere le istanze di autonomia delle figlie e delle mogli, come, dall'altra parte, si intuisce anche una capacità delle donne stesse di usare alcune certezze di questo retroterra per affrontare le incertezze delle sfere extrafamiliari, sia quella del lavoro, sia quella dell'ambiente pubblico.

Appare evidente che ciò che per lungo tempo abbiamo chiamato «emancipazione femminile» e che sembrava un processo che si giocava sostanzialmente tra il lavoro familiare e lavoro per il mercato, oggi va ripensato. In condizioni in cui il lavoro non c'è, ma nelle quali, tuttavia, scolarizzazione di massa, modelli culturali e trasformazioni ancora poco indagate delle strutture familiari hanno agevolato percorsi di autonomia, in condizioni in cui le donne nonostante tutto praticano forme di libertà, occorre 'inventare' strade nuove. Anche una breve riflessione sul rapporto fra donne e politica, oggi, nel Mezzogiorno fornisce stimoli che vanno nella medesima direzione.

Dalle analisi sulle donne meridionali emerge in modo inequivocabile che molte, sia giovani che meno giovani, enfatizzano l'apertura su più mondi possibili, introdotta dai mass media, dall'istruzione generalizzata e dal consumo industriale. Ma l'adesione delle donne alla dimensione pubblica non si traduce parimenti alla sfera della politica. È difficile immaginate che oggi, nel Mezzogiorno, le donne collettivamente s'impegnino in politica per conquistare delle libertà. Se le lotte civili hanno una forza trasgressiva (movimenti ecologisti, lotta alla criminalità organizzata), ciò non vale altrettanto per la politica istituzionale. La memoria delle lotte suffragiste, oggi nel Sud d'Italia, appare lontana. Eppure, a poche miglia di navigazione, c'è un Sud dove le donne vengono sgozzate perché rivendicano i diritti politici e civili.

In palese contratendenza, tuttavia, appaiono le donne sindaco elette nella prima metà degli anni Novanta. Sia che arrivino da una militanza partitica, sia - il più delle volte - da un movimento, da un gruppo piuttosto informale, tali donne hanno inteso la propria lotta come emblema e simbolo di una battaglia più ampia: si battono per la legalità, per la qualità della vita, per la costruzione di un tessuto civile. Vengono elette negli anni che seguono le stragi di Capaci e via D'Amelio, è Tangentopoli; clientelismo, corruzione politica e attività criminali di stampo mafioso hanno compromesso la credibilità delle istituzioni e la qualità stessa della vita urbana e civile.

Alla fase entusiasmante degli inizi e al movimento che ha dato il via alle nuove amministrazioni subentra in molti casi una fase di disincanto: si aprono crepe all'interno delle stesse maggioranze, dissentono coloro che vedono ridimensionati i propri privilegi nel nome dei doveri di tutti i cittadini, fanno effetto le minacce, le calunnie e gli attentati da parte degli interessi mafiosi sul territorio.

Tuttavia, ciò che l'esperienza delle 'buone pratiche' delle donne sindaco degli anni Novanta dimostra è che ancora esiste una dimensione alta della politica, un'idea e una prassi che uniscono le attività amministrative quotidiane con gli ideali fondativi della nostra convivenza democratica e civile. È questo lo spirito col quale, in quegli stessi anni Novanta, le donne lottano in Algeria: una battaglia sanguinosa e coraggiosa per la libertà di tutti. Ci sono legami poco visibili fra loro e noi che sta a noi evidenziare.

Ma oggi, qui da noi, tale modo specifico di rapportarsi alla «cosa pubblica» sta per essere sconfitto. Di chi la responsabilità?

Fino adesso abbiamo ragionato sul 'nostro' Sud. È possibile generalizzare, considerando i dati che connotano l'esperienza attuale delle donne meridionali come rappresentativi anche di quella delle donne di altri Sud del mondo, a cominciare dai paesi musulmani dell'altra sponda del Mediterraneo? Non credo, o meglio, penso che ci siano affinità e percorsi paralleli che predispongono ad una buona base di reciproca comprensione, come ci sono, tuttavia, anche elementi di differenza che possono indurci ad assumere posizioni di maggiore distanza critica verso la nostra stessa posizione. Il Meridione d'Italia si trova nella particolarissima posizione di essere un Sud fra altri Sud e, insieme, un Nord per i paesi più al Sud.

Un "pensiero meridiano" teso a costruire ponti fra i diversi Sud non può non mettere a fuoco le palesi nuove disuguaglianze che vengono incessantemente create dai processi di modernizzazione. Sotto questo profilo le donne sono protagoniste e vittime privilegiate. Sara Ongaro, in un recente saggio, ha analizzato la nuova configurazione tra produzione e riproduzione nel contesto della globalizzazione: le donne acquistano una centralità nei nuovi assetti dello sfruttamento globale nei quali le caratteristiche e gerarchie fra produzione e riproduzione, tipiche della fase classica dell'industrializzazione, appaiono rovesciate. Se un tempo, all'insegna del trionfo della merce, la metafora della fabbrica vinse, dando ai processi creativi e della nascita il nome di 'riproduzione', oggi assistiamo ad una ristrutturazione radicale nella quale corpi, frammenti dei corpi e la stessa vita, diventano merci e c'è chi parla della nuova industrializzazione globale come fenomeno che si verifica in un «contesto prostituzionale», Ciò che era classificato come riproduzione, come assetto di particolari capacità riproduttive, diventa ora, a sua volta, produzione. Una produzione con caratteristiche particolari che si ripercuotono anche sul contesto. Tale "contesto prostituzionale" non inquadra soltanto le nuove schiavitù del sesso, ma fa riferimento a «quel piccolo extra in più», quelle capacità e disponibilità individuali - verrebbe da dire private - che la compravendita capitalistica della forza lavoro come merce lasciava fuori dal contratto.

Le forme e le modalità della produzione postfordista d'altronde fanno già larghissimo uso di tali capacità. Sara Ongaro pone dunque o «domande dì genere all'economia globale della riproduzione», e le pone con forza alle altre donne, prime fra tutte alle donne femministe. A noi, donne (femministe) occidentali, emancipate. Il suo sguardo è rivolto alle altre, tutte le donne che non fanno parte di quella sparuta minoranza delle donne privilegiate, «emancipate», dei paesi sovrasviluppari che godono oggi di privilegi e 'libertà' conquistati si attraverso lotte, che tuttavia sono possibili al prezzo di nuove forme di sfruttamento e di schiavitù globali di tutte le 'altre'. Quel tipo di emancipazione, secondo Ongaro, è stato ottenuto attraverso una «alleanza fra il femminismo e il capitalismo» col risultato di una integrazione delle donne nella produzione e una loro liberazione dalla riproduzione. Aver scambiato questo processo per la liberazione ha reso queste stesse donne (cioè noi stesse) cieche e insensibili per il costo di tale operazione: l'asservimento complessivo di tutte le altre donne dei mondi non occidentali e di quelle povere dell'occidente ad attività riproduttive convertite oggi globalmente in produttive.

La crisi attuale, dopo gli attenti terroristici del settembre 2001, ci invita e ci costringe a lavorare più seriamente sulle similitudini e le differenze tra noi, Sud di un ricco Nord, e tutti gli altri Sud. Le affinità, ma anche le disparità fra donne. La questione dei confini del 'relativismo culturale', l'urgenza di trovare una 'misura', la necessità di una reciproca comprensione ancorata a comuni diritti e comuni libertà civili. Siamo noi, donne e uomini occidentali, ad essere in debito e in ritardo. Conosciamo poco le culture e le lingue 'loro', mentre loro, forzati dalla storia del colonialismo e del postcolonialismo, ci conoscono di più. «Pensiero meridiano» vuoi dire questo: pensarci a partire dal Sud in cui viviamo, ma recuperare anche un debito storico nei confronti dei tanti altri Sud. Senza facili cedimenti ideologici: violare e/o violentare i corpi e gli animi è e rimane un delitto, esercitare un totalitario controllo sul territorio ha poco a che fare con il rispetto delle tradizioni e delle religioni, ma denota nuove miserie della modernità, da questa parte del Mediterraneo come dall'altra. Tuttavia, prima di criticare 'gli altri' guardiamoci allo specchio, come recentemente ha sottolineato Adriano Sofri: «Non è passato molto tempo da quando in odio al relativismo culturale a Torino non si affittava a meridionali: di giorni in fabbrica, di notte chissà - come gli immigrati extraeuropei di oggi. In compenso, i codici erano così rispettosi della relatività culturale da contemplare il delitto d'onore, e da fare della mafia un attraente fenomeno antropologico».




(Articolo tratto dalla rivista Mesogea , numero 0, 2002.)




Renate Siebert è nata a Kassel e vive in Calabria. Sociologa, insegna all'università di Cosenza. Studiosa delle conseguenze del colonialismo e delle tematiche di 'genere', È autrice di diversi saggi sulla condizione della donna nel sud, la mafia e i suoi rapporti con la vita quotidiana Consulente editoriale, dirige per Rubbettino la collana' Altera.




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