FANTASMI

– Brano tratto dal romanzo Austerlitz


Winfrid Georg Sebald

 



(…) Una volta, credo verso i nove anni, sono stato per qualche tempo con Elias nel Sud del Galles, in una regione in cui i fianchi delle montagne lungo i bordi della strada erano spaccati e i boschi abbattuti e in uno stato di devastazione. Non ricordo più come si chiamasse il pae­se in cui arrivammo al sopraggiungere della notte. Era circondato da enormi cumuli di scorie di carbo­ne, le cui propaggini si spingevano a volte fin nei vicoli. Come alloggio ci avevano procurato una came­ra in casa di un consigliere della Chiesa locale, da dove si poteva vedere una torre d'estrazione munita di una ruota gigantesca, la quale girava ora in un verso ora nell'altro in un'oscurità che andava in­fittendosi, e più in giù, a intervalli regolari di tre o quattro minuti circa, si scorgevano lingue di fuoco e fasci di scintille sprizzare alti nel cielo dai forni di fusione di un'acciaieria. Mentre io ero già a letto, Elias rimase ancora a lungo seduto su uno sgabello accanto alla finestra a guardare fuori in silenzio. il­luminarsi sia stato lo spettacolo della valle,

quel di continuo al chiarore del fuoco per ri­piombare subito dopo nelle tenebre, che ispirò a Elias la predica apocalittica da lui tenuta la mattina successiva, una predica sulla vendetta dell'Altissimo, sulla guerra e la devastazione delle dimore degli uo­mini, con la quale – come gli disse il consigliere al momento del congedo – lui aveva di gran lunga su­perato se stesso. Se durante la predica l'uditorio era rimasto quasi impietrito dal terrore, ai miei occhi nulla avrebbe potuto manifestare in maniera altret­tanto incisiva la potenza divina evocata da Elias quanto il fatto che, nella piccola città allo sbocco della valle dove quella sera stessa egli avrebbe dovu­to presiedere all'ora delle preghiere, una bomba era caduta sul cinematografo in pieno pomeriggio.

Quando arrivammo in centro, le macerie fumavano ancora. La gente era lì per strada a piccoli gruppi, qualcuno ancora con la mano davanti alla bocca per lo spavento. Il carro dei pompieri era passato sopra la rotonda fiorita, e sull'erba erano distesi nei loro abiti domenicali i cadaveri di coloro che, come Elias certo non ebbe bisogno di dirmi, avevano peccato contro il precetto della santificazione delle feste. A poco a poco prese così a configurarsi nella mia mente una sorta di veterotestamentaria mitologia del taglione, il cui pezzo forte del resto è sempre stato per me l'inabissarsi del comune di Llanwddyn nelle acque del lago artificiale di Vyrnwy. Per quel che ricordo, fu al ritorno da uno dei suoi impegni fuori sede, forse a Abertridwr o a Pont Llogel, che Elias fermò il calesse sulla riva del lago e mi condus­se fino a metà della diga, dove mi raccontò della sua casa paterna, che era là sotto nell'acqua scura alla profondità di forse cento piedi, e non fu solo la sua casa paterna, ma furono anche per lo meno una quarantina di altre case e cascine e la chiesa di San Giovanni d'Acri e tre cappelle e tre birrerie a essere sommerse, tutte insieme, dall'acqua a partire dall'autunno del 1888 dopo che l'argine fu completato. Particolarmente noto negli anni precedenti la sua scomparsa, Llanwddyn lo era stato – così, disse Austerlitz, gli aveva raccontato Elias – soprattutto perché sulla piazza del paese, quando d'estate c'era la luna piena, si giocava spesso per l'intera notte a calcio, e ciò con la partecipazione di oltre un centi­naio di ragazzi e uomini di ogni età giunti a volte anche dai paesi vicini. La storia delle partite di pallone a Llanwddyn eccitò a lungo la mia fantasia, dis­se Austerlitz, anzitutto perché con me, della sua vi­ta, Elias non aveva mai fatto parola né prima né do­po. Quell'unica volta in cui, sulla diga di Vyrnwy, Elias mi aprì, di proposito o inavvertitamente, il suo animo di predicatore, io ne condivisi a tal punto i sentimenti che proprio lui, il Giusto, mi apparve come l'unico sopravvissuto alla catastrofe dell'inonda­zione di Llanwddyn, mentre tutti gli altri, i genitori, i fratelli, i parenti, i vicini e in generale gli abitanti del villaggio, li immaginavo ancora sul fondo, dove continuavano a starsene nelle loro case o ad andar­sene in giro per i vicoli, senza poter parlare però e con occhi spalancati, troppo spalancati. A quest'i­dea che mi ero fatto dell'esistenza subacquea della popolazione di Llanwddyn aveva in parte contribui­to anche l'album mostratomi da Elias per la prima volta quella sera al nostro ritorno, album che conte­neva parecchie vedute del suo paese natale inabissato tra i flutti. Poiché in casa del predicatore non c'erano altre immagini, io continuavo a guardare e a riguardare le poche fotografie che in seguito sareb­bero entrate in mio possesso insieme con il calenda­rio calvinista, finché le persone che da quelle mi fissavano: il fabbro con il grembiule di cuoio, il mae­stro di posta già padre di Elias, il pastore che camminava per la strada del villaggio con le pecore, e soprattutto la bambina seduta su una seggiola in giardino con il cagnetto in grembo, mi divennero così familiari come se avessi vissuto con loro sul fondo del lago. Di notte, prima di addormentarmi nella mia stanza gelida, avevo spesso la sensazione di es­sermi inabissato anch'io nell'acqua scura, di dover tenere gli occhi spalancati, non diversamente dalle povere anime di Vyrnwy, per riuscire a cogliere in alto sopra di me un debole chiarore e l'immagine ri­flessa, franta dalle onde, della torre di pietra che si erge così minacciosa e appartata sulla riva lambita dai boschi. Talvolta mi immaginavo persino di aver visto, per le vie di Baia o fuori nei campi, ora l'uno ora l'altro dei personaggi ritratti nelle foto dell'album, e ciò in particolare nelle calde giornate d'estate verso l'ora meridiana, quando non c'era nessuno per strada e l'aria tremolava un poco. Elias mi vietava di parlare di simili argomenti. Trascorrevo perciò ogni attimo libero da Evan, il calzolaio, la cui botte­ga si trovava non lontano dalla casa del predicatore e che godeva fama di visionario. Da Evan ho anche appreso, letteralmente di volata, il gallese, perché trovavo le sue storie di ben più facile accesso rispet­to agli interminabili salmi e versetti della Bibbia, che ero costretto a imparare a memoria per la scuo­la domenicale. A differenza di Elias, il quale stabiliva sempre un collegamento tra malattia e morte da una parte e prova, giusta punizione e colpa dall'altra, Evan raccontava di morti che, colpiti anzitempo dal destino, sapevano di essere stati defraudati di ciò che spettava loro e cercavano quindi di ritornare in vita. Chi aveva occhio per queste cose, non di ra­do riusciva a vederli. A tutta prima sembravano per­sone normali, ma se li si fissava con particolare at­tenzione, i loro volti sparivano o tremolavano un poco ai bordi. Inoltre, erano quasi sempre di una spanna più piccoli di quanto non fossero da vivi, perché l'esperienza della morte, sosteneva Evan, ci rimpicciolisce, esattamente come una stoffa nuova, quando la si lava per la prima volta, si restringe. I morti camminavano in genere da soli, ma talora si muovevano anche in drappelli; vestiti con uniformi multicolori o avvolti in mantelle grigie, li si era già visti avanzare a passo di marcia e al rullio leggero dei tamburi verso le colline oltre il villaggio, mentre incedevano fra i muretti divisori dei campi, che su­peravano di poco con la testa. Di suo nonno, Evan raccontò come una volta, sulla strada da Frongastell a Pyrsau, avesse dovuto scostarsi per cedere il passo a un corteo di fantasmi, simile a quello ora descrit­to, che lo aveva raggiunto e che consisteva di veri e propri nanerottoli. Frettolosi e leggermente piegati in avanti, se la contavano con le loro voci chiocce. Alla parete, sopra il basso banco da lavoro di Evan, disse Austerlitz, pendeva da un gancio il drappo ne­ro portato via dal nonno al feretro quando le figu­rette imbacuccate che lo trasportavano erano passate davanti a lui, ed è certamente stato Evan, disse an­cora Austerlitz, a raccontarmi che è un simile velo di seta, e nulla di più, a separarci dall'aldilà. Effetti­vamente, in tutti quegli anni trascorsi a Baia nella casa del predicatore, non mi sono mai liberato dalla sensazione che qualcosa di assai perspicuo, di per sé manifesto, rimanesse a me celato. A volte era come se cercassi di riconoscere la realtà uscendo da un so­gno; altre volte avevo l'impressione che mi cammi­nasse accanto un invisibile gemello, per così dire l'in­verso di un'ombra. Anche dietro le storie della Bib­bia, che dai sei anni in poi mi assegnarono come lettura alla scuola domenicale, sospettavo l'esistenza di un senso riferito specificamente a me, un senso af­fatto diverso da quello che risultava dalle Scritture mentre io con l'indice seguivo il testo riga per riga. Mi vedo ancora, disse Austerlitz, sillabare continuamente da capo, biascicando fra me e me come in uno scongiuro, la storia di Mosè in un'edizione conce­pita apposta per bambini e a grossi caratteri di stampa, che Miss Parry mi aveva regalato quando per la pri­ma volta ero riuscito a recitare senza errori e con una buona intonazione il capitolo, da imparare a memoria, sulla babele delle lingue. Mi basta sfogliare anche solo qualche pagina di quel libro, disse Au­sterlitz, e torno a rivivere la paura provata allora leg­gendo il passo in cui si raccontava come la figlia di Levi avesse fabbricato un canestro di giunchi, lo avesse spalmato di bitume e pece, per mettervi poi dentro il bambino e deporre il canestro nel canneto sulla riva del fiume – yn yr hesg ar fin yr afon, così, credo, recitava il testo. Più avanti, nella storia di Mosè, disse Austerlitz, fui particolarmente colpito dal brano in cui si racconta come i figli d'Israele attra­versino un deserto spaventoso, vasto in lungo e in largo parecchi giorni di viaggio, nel quale l'occhio, per quanto lontano riesca a vedere, non scorge al­tro che cielo e sabbia. Cercavo di immaginarmi la colonna di nuvola che mostrava il cammino al popolo errante, come veniva detto con una strana espressione, e mi sprofondavo, dimenticando tutto quello che mi stava attorno, in un'illustrazione a doppia pagina, in cui il deserto del Sinai, con le sue dorsali brulle che si incalzano e lo sfondo tratteggiato in grigio, che ho preso a volte per il mare a volte per il cielo, assomigliava in pieno al luogo dove sono cresciuto. In effetti, disse Austerlitz in un'occasione successiva mostrandomi la Bibbia gallese per bambini, mi sentivo come a casa mia tra le figurine che popolavano l'accampamento. Ho esaminato ogni pollice quadrato di quell'illustrazione che, proprio per la sua familiarità, mi appariva inquietante.

In una zona un po' più chiara, contro il fianco ripido della montagna sulla destra, credetti di riconoscere una cava di pietra e, nelle linee regolarmente tracciate al di sotto, i binari di una ferrovia. Ma ciò che più di tutto mi dava da pensare era lo spazio recintato nel mezzo e, sullo sfondo, la costruzione a forma di tenda su cui si libra una bianca nuvola di fumo. Qualsiasi cosa possa essermi passata per la testa allora, l'accampamento degli Ebrei in quelle zone desertiche fra i monti mi era più familiare della vita che conducevo a Baia e che mi risultava di giorno in giorno più incomprensibile – questa almeno, disse Austerlitz, è oggi la mia impressione. Quella

sera, nel bar del Great Eastern Hotel, egli raccontò ancora che nella casa del predicatore a Baia non c'erano né radio né giornali. Non saprei, disse, se Elias e sua moglie Gwendolyn avessero mai fatto cenno alle operazioni militari sul continente euro­peo. Un mondo al di fuori del Galles non riuscivo a immaginarmelo. (…)



(Brano tratto dal romanzo Austerlitz, Adelphi editori, Milano, 2002, traduzione di Ada Vigliano.)








Nato in Germania, Winfrid Georg Sebald (1944 – 2001) è vissuto dal 1970 in Inghilterra, dove ha insegnato Letteratura tedesca contemporanea presso la University of East Anglia a Borwich. Fra le sue opere ricordiamo Vertigini (1990), Die Ausgewanderten (1992), Die Ringe des Saturn (1995) e Storia naturale della distruzione 1999). Austerlitz è stato pubblicato per la prima volta nel 2001.


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