KAFKA PUÒ FAR PARTE DELLA MEMORIA UMANA


– Un’intervista a Jorge Luis Borges –

 


OSVALDO FERRARI - Prima della sua partenza, vorrei, Borges, che mi parlasse dell'itinerario del suo nuovo viaggio, che comincia dalla Francia, continua in In­ghilterra e poi negli Stati Uniti. Prima la Francia, dunque.

JORGE LUIS BORGES: Prima di tutto la Francia, in occasione di un convegno dedicato a una persona che si sarebbe meravigliata del fatto che si tenesse un convegno su lei: Franz Kafka. Un tema molto bello, un tema infinito, come sono in realtà le opere di Kafka. Opere che presero a modello (così mi disse Carlos Mastronardi) i paradossi di Zenone di Elea, L'idea, per esempio, della corsa infinita della tartaruga, il cui moto non raggiunge mai la sua meta. Eb­bene, Kafka, mi disse Mastronardi con fondate ra­gioni, usò quel modello in modo patetico. Fu la grande invenzione di Kafka,

Dovrò parlare in un'istituzione che, a prima vista, appare molto noiosa ma che non lo è: l'Accademia delle Scienze e delle Lettere. Mi dicono tuttavia che posso scegliere il tema, e cercherò di attuare quello che preferisco, cioè un dialogo col pubblico, che vor­rei somigliasse a questa nostra conversazione, che fosse un dialogo semplice. E poi dovrò ricevere il mio dottorato honoris causa all'Università di Cambridge. Ho già quello di Oxford, mi mancava l'altra grande università inglese. Sono tra le più antiche del mondo, dopo quella di Bologna e prima della Sorbona; mentre, cosa stupefacente, l'Università di Hei­delberg nacque più tardi, e così le altre. Poi dovrò ricevere ancora festeggiamenti o premi a New York, una cosa organizzata dal marchese Ricci, sa, l'editore. Non so precisamente in che cosa consista, ma mi sen­tirò debitamente stupito e grato. Ed è un'occasione per viaggiare e stare in questi paesi, in Francia, in Inghilterra... soprattutto mi piacerebbe passare qualche giorno a Londra sfogliando libri nelle librerie. Poi New York. Perciò un viaggio meno vario di quello che ho da poco effettuato e che mi ha portato in Sicilia, nel Veneto, a Venezia e a Vicenza, e poi in Grecia e a Creta, che sono due paesi diversi. I cretesi naturalmente si sentono molto più antichi dei greci, che trovano alquanto ciarlieri. Dappertutto prospera il nazionalismo; se uno nasce due metri più a destra o più a sinistra ha già sbagliato, perché non è nato al centro come doveva... Queste cose le ho tro­vate anche in Sicilia. Là si ostinano a credersi nor­manni — non so poi perché proprio normanni; ma d'altra parte anch'io ho un po' di sangue normanno.

Nel mio ultimo viaggio sono stato anche in Giap­pone, e ho sorvolato due volte il Polo Nord. È una esperienza strana, che consiste semplicemente nel sen­tire che si vola sul Polo Nord, perché non si nota niente. Sebbene, Maria Kodama mi ha detto che si vede qualche iceberg, ma questo è tutto. E poi, sapere che si sta volando sul Polo Nord, che non sa di esserlo.

Poiché il suo viaggio, Borges, comincia dalla Fran­cia e comincia nel nome di Kafka, mi piacerebbe che parlassimo di lui. Non so se lei ha già un'idea del modo in cui tratterà là il tema. Lei ha scritto più d'una volta su Kafka.

Sì, ma farò il possibile per non plagiarmi, poiché è meglio plagiare gli altri che se stessi. Comunque, è quello che ho sempre fatto, preferisco plagiare al­tri; ma a ottantaquattro anni, siccome non rileggo niente di ciò che scrivo, mi è accaduto di plagiare, a volte male, cose che avevo già dette più o meno bene. Le ho ridette male, come può succedere. Quello che osserverò a proposito di Kafka è il fatto che se uno legge altri grandi scrittori, deve continuamente fare quello che in inglese si dice "make allowances", in spagnolo sarebbe fare concessioni. Bisogna pensare: questo è stato scritto nella tale epoca, occorre te­ner presenti molte circostanze. Prendiamo l'esempio massimo, Shakespeare. Nel caso di Shakespeare, bi­sogna pensare che egli scriveva per un pubblico non sempre scelto; che la sua opera doveva durare per il tempo che ora dividiamo in cinque atti, mentre una volta la rappresentazione era continua. E poi egli rappresentava, doveva prendere come punto di partenza argomenti che erano tradizionali, non inventati, e do­veva adattare i suoi personaggi a quegli argomenti, e a volte si nota il contrasto. Per esempio, io credo ad Amleto, ma non sono sicuro di credere, posso farlo solo con sforzo, al fantasma del padre di Amleto. Non sono sicuro di credere alla corte di Danimarca e ai suoi intrighi, mi sembra di no. Prendiamo il Macbeth: credo a Macbeth, credo a lady Macbeth, son pronto a credere alle parche o streghe, ma non so se credo all'intreccio. L'ho citato come esempio. E così per tutti gli scrittori; bisogna pensare: hanno scritto nella tale epoca, nelle tali condizioni; bisogna collocarli nella storia della letteratura. Così si possono perdonare o tollerare certe cose. Ma il caso di Kafka è diverso; credo che Kafka possa esser letto astraendo dalle sue circostanze storiche. Ce ne sono due, molto importanti: Kafka crea buona parte della sua opera du­rante la guerra del '14, una delle guerre più terribili che ci siano state, e Kafka deve averne sofferto mol­to. Inoltre era ebreo, e già spuntava l'antisemitismo. Visse in Austria, cioè in Boemia, che allora faceva parte dell'Austria. Mori a Berlino, mi sembra. Ebbene, tutte queste circostanze, il fatto di vivere in un paese assediato, un paese che in un primo tempo fu vincitore e poi vinto, tutto ciò si sarebbe dovuto ri­flettere nella sua opera, e tuttavia, se il lettore non Io sapesse non se ne avvedrebbe, poiché tutto fu tramutato da Kafka.

E un'altra cosa, ancora più strana, è ch'egli fu amico personale degli espressionisti. Gli espressionisti dettero vita al movimento estetico più importante di questo secolo; molto più interessante del surrealismo o del cubismo, del futurismo, dell'imagismo. Fu, il lo­ro, una specie di rinnovamento totale delle lettere. E anche della pittura, si pensi a Ernst Barlach o a Kokoschka o ad altri. Kafka era loro amico, ed essi scrivevano, rinnovavano continuamente la lingua, ordivano metafore. Si potrebbe dire che l'opera massima dell'espressionismo fu l'opera di Joyce, sebbene egli non appartenesse a quel movimento e non scri­vesse in tedesco ma in inglese, nel suo inglese, per dir meglio, che è un inglese a sé, fatto unicamente di parole composte. Dunque, ci sono questi due fatti: l'espressionismo, e Kafka che pubblica in una delle due riviste di quel movimento, non so se in "Die Aktion" o in "Sturm". Ricordo che nel '16 o '17 io ero abbonato a quelle riviste e fu allora che lessi per la prima volta un testo di Kafka. Ebbene, non avvertii niente; mi parve solo una cosa quieta, un po' incolore, circondato com'ero da ogni sorta di splendori verbali degli espressionisti. Niente delle sue circostanze dunque affiora nella sua opera; Kafka sa­rebbe perciò il grande scrittore classico di questo no­stro secolo tormentato. E forse sarà letto in futuro e non si saprà con certezza che scrisse all'inizio del secolo Ventesimo, che fu contemporaneo dell'espressio­nismo e della prima guerra mondiale. Tutto questo può essere dimenticato: la sua opera potrebbe essere anonima, e forse col tempo meriterà di esserlo. È il massimo cui un'opera può aspirare, e che pochi libri raggiungono.

Quando si legge Le Mille e una notte , si accetta l'Islam. Si accetta tutto, si accettano quelle fiabe ordite da generazioni come se fossero di un solo autore, o meglio come se non avessero autore. E in realtà l'hanno e non l'hanno, giacché un'opera tanto lavorata, tanto limata dalle generazioni, non appartiene più ad alcun individuo. Ora, nel caso di Kafka, è pos­sibile che i suoi racconti facciano ormai parte della memoria umana. E potrebbe succedere ad esse quello che potrebbe succedere al Don Chisciotte per esem­pio: potrebbero perdersi tutti gli esemplari del Don Chisciotte , in spagnolo e nelle traduzioni; potrebbero perdersi tutti fino all'ultimo, ma la figura di don Chi­sciotte resterebbe a far parte della memoria dell'uma­nità. Quell'idea di un processo terribile, che va cre­scendo, infinito, che è la base dei suoi romanzi, che Kafka non volle pubblicare perché sapeva che erano incompiuti, che avevano il dovere d'essere infiniti... Il castello, Il processo, fan parte della memoria dell'uomo, possono essere riscritti con diversi nomi, con circostanze diverse; ormai l'opera di Kafka fa parte della memoria dell'umanità. Credo che dirò questo in Francia, che metterò in luce la sua condizione di classico e il fatto che lo si possa leggere e dimenti­care le sue circostanze, cosa che succede con ben po­chi scrittori, ch'io sappia.

Il paradossale è che, partecipe com'è di questa condizione di classico, ci viene costantemente ripetuto che Kafka crea un ponte imprescindibile tra le epo­che precedenti e la nostra, insieme a Joyce, a Proust e a Henry James.

Forse Henry James è più vicino a lui. Proust non credo lo avrebbe interessato, e Joyce per niente perché Joyce vuol dire l'espressionismo, cioè l'idea dell'arte sentita con passione ma anche come gioco ver­bale. Insomma, nel caso di Joyce ogni sua riga è im­portante. Ebbene, Kafka viveva circondato da per­sone che erano o cercavano di essere Joyce, senza conoscerlo naturalmente. Eppure quello che Kafka scrive... lui scrive in un tedesco abbastanza sempli­ce, tanto semplice che io, che studiavo il tedesco, potei comprenderlo. Mentre altri autori mi son costati fatica, per esempio gli espressionisti, come Johannes Becher, che ammiro molto e per me è forse il più grande degli espressionisti. Ebbene, io non capivo Becher, e quel ch'è peggio è che non potevo apprez­zare del tutto quello che leggevo a causa dei giochi verbali di cui si serviva.

Si dice che non possiamo dare un'interpretazione fedele della nostra epoca senza l'aiuto di Kafka.

Sì, ma Kafka è più importante della nostra epoca, questo è certo. È una cosa abbastanza deplorevole: Kafka sopravvivrà a questa epoca e alle sue sempli­ficazioni. Questo secolo, noi lo sopportiamo senza esserne troppo orgogliosi. Con una certa nostalgia dell'Ottocento, che avrà sentito nostalgia del Settecento. Forse aveva ragione Spengler: stiamo decli­nando, perciò proviamo nostalgia di... sa, quando si dice: mon vieux temps . C'è qualcosa a questo propo­sito nelle Coplas di Jorge Manrique. Ma è un'osser­vazione ironica; dice: "Come, nel nostro giudizio, / qualunque tempo passato / sia migliore". Migliore, sì, nel nostro giudizio. È quello che diceva Schopen­hauer: che noi vediamo il passato come qualcosa di migliore, ma qualcosa d'immobile, dove noi non sia­mo attori, ma soltanto spettatori. Mentre, in quanto è presente, siamo spettatori ma anche attori, e qui c'è già, associata, un'idea di responsabilità, un'idea di pericolo. Ma nel passato no, per quanto sia terribi­le; possiamo pensare, che so, al tempo di Rosas con una certa nostalgia perché, anche se fu terribile, ormai è passato, è fissato nel tempo, e con esso anche le sue immagini terribili. Mentre il presente può mi­nacciarci, come la vita ci minaccia a ogni istante.

È vero. Un'altra cosa che volevo ricordare a pro­posito di Kafka è questa: una scrittrice che lei cono­sce ha pubblicato un saggio molto significativo su Kafka, che ho riletto di recente. Parlo di Carmen Góndara.

L'ho conosciuta e ho di lei un'ottima opinione. Ho letto un suo racconto che si chiamava L'abitata , mi sembra. Non somiglia un po' a Casa occupata di Cortàzar o, non ricordo bene, si tratta di un tema diverso?

L'ambientazione è diversa.

Ah sì, l'ambientazione.

Riferendosi a Kafka, la Góndara dice una cosa che mi ha colpito: dice che Kafka cercò, in tutta la sua vita, Dio, I'"assente" della nostra epoca.

È una domanda che mi hanno rivolta molte volte. Una domanda che non capisco.

Kafka sarebbe stato, secondo la scrittrice, uno spi­rito religioso, nonostante tutto.

Ma uno spirito religioso può non credere in un dio personale. Per esempio, i mistici buddisti non cre­dono in un dio personale, ma non ha importanza: l'idea di credere in un dio personale non fa necessa­riamente parte dello spirito religioso. I panteisti, per esempio, o Spinoza, che era un uomo essenzialmente mistico e diceva "Deus sive natura", Dio ossia la na­tura: le due idee erano eguali per lui. Invece per un cristiano non è cosl, perché il cristianesimo ha bisogno di credere in un dio personale, in un dio che giudichi le azioni degli uomini. Nel libro Uomini rappresenta­tivi di Emerson, il tipo del mistico è Swedenborg, e Swedenborg credeva sl in un dio personale; ma cre­deva anche che l'uomo sceglie il cielo o l'inferno. Cioè, dopo morta – lo dice chiaramente – una persona si trova in un luogo strano, e lo avvicinano diversi sconosciuti, e di questi alcuni lo attraggono, al­tri no. Egli va con coloro che lo attraggono. E que­sti, se si tratta di un malvagio, sono demoni, ed egli sta più a suo agio coi demoni che con gli angeli. E se è un giusto, si trova a suo agio con gli angeli. Ma è lui a scegliere quella compagnia, e una volta che si

trova in cielo o nell'inferno non vorrebbe stare in altro luogo, perché altrove soffrirebbe. Swedenborg credeva in un dio personale, ma i panteisti in genere no. L'importante è che ci sia un'intenzione morale nell'universo. Se c'è questo fine morale, e lo sentia­mo, si è una mente religiosa. Io credo che dobbiamo sforzarci di credere in un fine morale, quantunque di fatto non esista. Ma questo non dipende da noi. Co­munque, dobbiamo operare seguendo il nostro istin­to morale.


(Brano tratto dalle Conversazioni, tra Jorge Luis Borges e lo scrittore e giornalista Oswaldo Ferrari nel 1984. Bompiani editori, Milano, 1985, traduzione di Francesco Tentori Montalto.)







Jorge Luis Borges (Buenos Aires 1899 – Ginevra 1986) è tra i più grandi scrittori argentini del Novecento.



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