LA GLOBALIZZAZIONE DELLA VIOLENZA

Renato Ortiz


Qualsiasi riflessione a partire da un atto di violenza è sempre polemica e difficile. Di fronte alla brutalità dell'accaduto, la mente oscilla fra la facoltà di comprensione e la condanna etica. Per evitare fraintendimenti, dico subito all'inizio di questo testo: l'attacco al World Trade Center, che ha falciato la vita di migliaia di innocenti, è un atto riprovevole. Come tutti gli attentati contro la popolazione civile (il bombardamento delle città europee durante la Seconda Guerra Mondiale, la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, il napalm in Vietnam, i massacri etnici in Africa) non possiamo restare soltanto a guardare. Ma la condanna morale, malgrado l'intenzione, non ci aiuta a capire ciò che è successo.
L'indignazione non ci può accecare al punto da farci ignorare il significato dell'evento. Perciò qualunque spiegazione del tipo "si tratta dell'opera di...", "fanatismo", "un atto irrazionale", "un comportamento psicotico", non aggiunge niente a ciò che si vuol analizzare. Categorie come queste hanno forse una compensazione psicologica di fronte a ciò che è successo ma difficilmente afferrano il nocciolo della questione. La violenza non è qualcosa di gratuito (come ci piacerebbe che fosse) dato che si inserisce nella logica della società. Come il crimine per Durkheim, essa è un fatto sociale "normale" , cioè un fenomeno sociale significativo e quindi passibile di comprensione. Questa verità dolorosa, scomoda, è corroborata dall'esistenza di una formidabile industria bellica, dai conflitti e dalle guerre.
Molto di ciò che è accaduto può essere analizzato dal punto di vista della globalizzazione. Questa è una chiave importante per capire il quadro della società contemporanea. Durante gli innumerevoli dibattiti a cui ho partecipato negli anni '90 dicevo sempre che, tra la caduta del muro di Berlino e la guerra del Golfo, io preferivo quest'ultima come segno di una nuova epoca. La débacle sovietica ha determinato la fine di un ordine piuttosto che l'inizio di un altro. Già la guerra del Golfo portava i germi di qualcosa di sconosciuto. E' stata una azione militare orchestrata all'interno di una organizzazione internazionale. C'era un nemico chiaro da abbattere e la volontà di un' azione collettiva realizzata in nome di '"tutti" i paesi del pianeta. L'invasione dell'Iraq (non ho la benché minima intenzione di giustificarla) ha contato anche sull'appoggio del mondo arabo e se gli americani non sono riusciti a sconfiggere il regime di Saddam Hussein, è stato perché le stesse regole che avevano dato inizio all'attacco (fare in modo che gli Iracheni ritirassero il proprio esercito al di là di una zona considerata occupata) hanno mantenuto la loro validità. Il conflitto si esaurì quando gli obiettivi furono raggiunti. Ossia, la comunità internazionale aveva circoscritto la sua legittimità a determinate condizioni.
L'attentato al World Trade Center rispecchia il movimento di globalizzazione in modo ancora più perfetto. Ora il nemico non è più uno Stato-Nazione ma un gruppo nomade in grado di controllare ed amministrare su scala amplificata un insieme di tecniche di violenza. Considerando che una delle caratteristiche del processo attuale è l'indebolimento dello Stato-Nazione, ci troviamo davanti ad un evento paradigmatico. Da diversi analisti è già considerato come il vero inizio del XXI° secolo. Fino a poco fa, soprattutto nella letteratura sulle relazioni internazionali, dominava una visione che affermava l'esistenza di un 'disordine mondiale'. Letta in maniera ingenua, tale affermazione portava ad un' interpretazione totalmente errata del secolo scorso. Non si può dimenticare che l' 'ordine' precedente aveva contenuto in sé due guerre mondiali, diverse guerre di decolonizzazione, un primo esperimento nucleare oltre ad innumerevoli massacri di popolazioni civili all'interno delle sfere d' influenza sovietica ed americana. Ciò nonostante, tutto questo aveva un senso nei parametri della Guerra Fredda. La nozione di "ordine" proveniva dall'esistenza di un quadro organizzato delle forze coinvolte ma non aveva niente a che fare con una situazione di pace.

Confini - L' 'ordine' mondiale che inaugura questo ventunesimo secolo non rinuncia alla presenza della violenza, la novità é che questa si organizza su un nuovo modello, diverso dal monopolio che la confinava nei limiti dei territori nazionali. In questo senso i confini fra i paesi, la divisione fra "interno" e "esterno", "noi" e "loro" si diluisce. Era palese la difficoltà di identificare un nemico senza volto e senza territorio, di individuare il centro delle operazioni che ha scatenato l'azione militare. Non esiste un centro, esiste solo l'intenzione violenta sostenuta da una rete discontinua che le dà appoggio materiale. Dall'altra parte, gli Americani si erano abituati a pensare se stessi come "fuori" dal mondo, come se fosse ancora possibile tracciare una linea divisoria netta e sicura tra 'loro' e gli "altri". Quest' illusione nutrita da una politica internazionale isolazionista é svanita (la non partecipazione degli Stati Uniti nell'UNESCO, il loro ritiro dal protocollo di Kyoto, la politica in Medio Oriente, etc.). Ma sarebbe sbagliato pensare che il rimescolamento dei confini riguardi solo "loro": in verità, tutti siamo coinvolti. In questo senso l'attentato non é accaduto negli Stati Uniti ma in una provincia del mondo. In futuro potrà ripetersi in altri luoghi. Il "nuovo ordine" richiede quindi istituzioni che riescano ad arbitrare "la politica interna mondiale". Istituzioni che non siano un mero riflesso delle ambizioni e degli interessi dei paesi più ricchi, riproducendo a livello globale le disuguaglianze esistenti nella realtà.
L'evento del World Trade Center simboleggia anche la fine dell'impero americano. A dire il vero, é stato un dominio di breve durata, che si é esteso dalla Seconda Guerra Mondiale alla fine del XX° secolo. Le analisi economiche lo indicavano già da qualche tempo. L'emergere del Giappone e della Comunità Europea, senza dimenticare lo sviluppo recente della Cina, ha creato nuove zone di produzione e commercio in concorrenza diretta con i prodotti americani. Il capitalismo "flessibile", decentralizzando le unità produttive, ha comportato una ristrutturazione radicale dell'economia degli Stati Uniti. La stessa industria culturale, che fino ad allora regnava senza ostacoli, é stata costretta a ridimensionare le sue ambizioni. Pokemon ha soppiantato Paperino e l'industria del piccolo schermo della comunità europea ed asiatica (e anche di quella latino-americana) ha spostato il predominio delle serie televisive americane verso quelle locali. E' rimasta solo l'egemonia dei film di Hollywood, senza dimenticare però che buona parte delle sue case di produzione é oggi proprietà di capitali giapponesi ed europei.
Difficilmente potremmo scrivere, come ha fatto negli anni '70 Jeremy Thunstall (un ideologo del dominio americano) che i "media are American". In quel momento, la preponderanza degli Stati Uniti era indiscutibile. Non voglio con questo dire che quel paese non abbia più importanza. Sarebbe uno sbaglio. Ma le basi materiali per esercitare il suo dominio si sono sfatte. Tuttavia siamo di fronte ad una contraddizione. Davanti a queste trasformazioni e in contrapposizione, la mentalità imperialista perdura e si manifesta. Nel 1941 la rivista Life, con orgoglio e supponenza, diceva: "L'America è il centro dinamico dei lavoratori dell' umanità. L'America è il buon samaritano. L'America è la fucina degli ideali di Libertà e Giustizia". Versione popolare ed apologetica dell'americanismo.
Oggi il motto: "Chi non è con noi è contro di noi" è di altra natura. La sua funzione è meramente reattiva. Le chiamate alla guerra del presidente Bush, la volontà di contrattaccare a qualunque costo, l'opposizione fra "bene" e "male", il declassamento della civiltà islamica fanno parte di questa mentalità belligerante. Cosa che ci porta alla prima conclusione: gli Stati Uniti sono diventati una minaccia mondiale poiché la ricerca di una compensazione all'attacco subito può mettere in marcia un pericoloso meccanismo per la convivenza planetaria. Detto in termini più astratti: qualsiasi azione imperialista in un mondo globalizzato è fonte potenziale di conflitto. Segue a questo discorso il suo corollario: la ripresa del nazionalismo poiché, del resto, il concetto di imperialismo si basa sull'idea della centralità della nazione. Nella discussione sulla globalizzazione, il nazionalismo è visto molte volte come un freno al processo di integrazione, come se fosse in grado di riaffermare l'autorità dello Stato-Nazione di fronte al suo indebolimento. Esempio: lo sfascio delle vecchie repubbliche sovietiche. In verità, bisogna pensare le cose dal punto di vista inverso. Il nazionalismo statunitense, scatenato dall'evento sanguinoso di New York, non sfugge alla regola. Dinanzi all'impossibilità di un' azione immediata - non si sa dove si trovi il nemico - la retorica nazionale agisce come coscienza collettiva unendo gli individui in preda al panico. Essa ha anche una funzione ideologica: preparare il paese alla guerra e alle misure eccezionali.
Ma non dobbiamo illuderci. Non si tratta del "ritorno" dello Stato-Nazione. Riprendo da Marx una metafora suggestiva che caratterizza bene la nostra situazione. Diceva che durante la Rivoluzione Industriale la borghesia aveva avuto un ruolo "eroico" di rottura rispetto all'ordine sociale precedente. Tuttavia, alla fine del XIX° secolo questa stessa borghesia viveva all'ombra di se stessa. Nel mondo attuale lo Stato-Nazione ha perso il suo lato eroico. La sua riaffermazione svela più la sua fragilità che la sua forza. Esso non crea più come prima società civile e democrazia; la sua intenzione oggi è puramente reattiva. Contrattaccare per affermarsi. Il nazionalismo è sicuramente un capitolo di questo secolo che si apre smentendo la tesi sbrigativa della scomparsa dello Stato-Nazione ma anche il suo volto e il suo significato hanno cambiato senso.

Comunicazione - Infine, la questione dei valori. L'avvento della modernità globalizzata implica la nascita di un territorio pubblico su scala ampliata. Esso trascende e attraversa gli spazi locali e nazionali. Perciò i mezzi di comunicazione che avevano già trasformato la politica nazionale - in particolare la televisione - diventano sempre più importanti. Satelliti, cavi, computer, fibre ottiche, transnazionalizzazione delle imprese di comunicazione sono fattori determinanti nel quadro politico attuale. Non senza ragione le ONG, una sorta di metafora del fare politica in ambito globale, si identificano con l'uso delle "nuove tecnologie" (utilizzazione vista solitamente come "alternativa"). E' sintomatico anche che si inizi in questo XXI° secolo un dibattito su una possibile "democrazia cosmopolita" , una "società civile mondiale", una "cittadinanza mondiale", ossia argomenti estesi al pianeta nel suo insieme e non più ristretti ai confini dello Stato-Nazione. Questo coinvolge attori diversi, ONG, movimento ecologico, religioni. E' significativo constatare come negli ultimi anni la discussione sull'etica sia riemersa in termini planetari.
Negli anni '90, l'UNESCO ha promosso due dibattiti sull' "etica universale" ed il suo rapporto con la questione della globalizzazione (Parigi, marzo 1997; Napoli, dicembre 1997). Il filosofo Karl Apel insiste sulla necessità che i problemi mondiali siano valutati a partire da una base comune di valori condivisi da "tutti". Il libro di Edgar Morin Patria terra esprime lo stesso stato d'animo. Siccome i problemi ambientali attuali hanno un'ampiezza planetaria sarebbe urgente, secondo l'autore, costruire una piattaforma comune di valori eticamente condivisi. Possiamo leggere questo dibattito in vari modi: essere d' accordo o in disaccordo con le opinioni presentate. A volte ho l'impressione che l'enfasi sull'etica significhi mettere da parte la politica; tuttavia ciò che vorrei sottolineare è che, nel quadro attuale, questo dibattito è inquinato. Valori come democrazia, cittadinanza, libertà sono minacciati quando, a livello mondiale, il tema della sicurezza acquisisce una dimensione sproporzionata. Tutto accade come se assistessimo alla comparsa di una "ideologia della sicurezza", non più nazionale, come l' abbiamo conosciuta in Brasile nel periodo della dittatura militare, ma mondiale.
Di fronte ad una violenza illegittima (gli atti terroristici) e ad un'altra orchestrata dal potere militare, gli ideali precedenti hanno poco spazio per manifestarsi. Questo non è solo inquietante ma anche profondamente pericoloso, poiché le questioni legate all'abuso dei diritti individuali, della xenofobia, della discriminazione, della disuguaglianza che viviamo nel quotidiano delle nostre città (dal terzo al primo mondo) sono tradotte in termini di "insicurezza", richiedendo da coloro che hanno gli strumenti di forza, ma non l'autorità, una risposta semplice: la legittimazione della violenza su scala planetaria.


(Traduzione di Julio Monteiro Martins insieme ai suoi studenti dell'Università di Pisa: Chiara, Cristiano Rochetta, Eugenia Ciccarelli, Gherardo Giannarelli, Katia Quaglierini, Lisa Giuliani, Mariapia Caruso, Monica Lupetti e Nina)




Renato Ortiz è ordinario del Dipartimento di Sociologia della Unicamp.


.
.
         Precedente    Successivo          Copertina.