QUELLA VOLTA CHE ANDAI A BOLOGNA E MI BAGNAI

Daniele Pierotti


Iniziò a piovere proprio quando mi trovavo in mezzo alla piazza. Uno scroscio violento, fitto, fatto di goccioloni freddi e grossi così, che facevano male tanto erano pesanti e uno bastava a farti sentire zuppo; figuriamoci tutti insieme quelli che mi stavo beccando. Ma poiché ormai ero a metà strada: che senso avrebbe avuto tornare indietro? Così proseguii; solo mi misi a correre.
Non sapevo che ad una ragazza piaci o non piaci e, se le piaci, ogni dettaglio, persino il più anomalo, è perfetto; se invece non le piaci non c'è particolare, per quanto curato, che tenga. E' il sentimento che assegna i voti, ed il sentimento non giudica i dettagli. Ma io, allora, ero ancora abbastanza giovane per dare cura apprensiva a particolari di per sé del tutto insignificanti, come la mia pettinatura, il mio look e gli accessori. Per questo non avevo l'ombrello. L'ombrello era decisamente anti-glamour.
Se fossi stato un distinto signore, di quelli che popolano talvolta i vecchi film musicali americani, o meglio ancora di quelli che ci immaginiamo debbano passeggiare sicuri e spediti lungo le vie di Londra, vestiti di blu o grigio, con la camicia candida, due scarpe sempre lucide che non si sa come facciano, e magari la bombetta… allora l'ombrello sarebbe stato un particolare di bon ton, prezioso, quasi obbligatorio. Ma io ero un giovane italiano della fine degli anni settanta. Avevo ventun anni, un giubbotto di pelle, jeans e stivali alla texana. Che c'entrava un ombrello?
Così arrivai davanti al campanello che ero già fradicio.
Mi sentivo un anatroccolo appena uscito dal guscio. E lo so che è un'espressione logora, ma non ci posso far niente: era proprio così che mi sentivo. Un brutto anatroccolo, bagnato zuppo e con un cuore bizzoso che, lasciato il suo logico posto, cioè il petto, si era messo a battermi in gola.
Il campanello l'avevo davanti ed era quello giusto: c'era scritto Amelia Bianchi. Avevo fatto cento chilometri, con la macchina di mio padre - me l'ero fatta prestare apposta, ma con una scusa, s'intende - ed ora che ero arrivato mi bastava alzare il braccio, protendere l'indice ed appoggiarlo sul piccolo bottone rotondo e trasparente del campanello, e la porta si sarebbe aperta.
Io, invece, continuavo a starmene lì impalato sotto la pioggia che, è vero, nel frattempo aveva calato di intensità, ma mica poi così tanto.
Cercate di capirmi: ero terrorizzato.
Tutto ad un tratto, senza alcuna lucida ragione, ero disperatamente convinto che da dietro la porta sarebbe apparsa, anziché la bella faccia di Amelia, quella terribile di un omone grande, grosso e peloso. Un superstite degli orchi delle fiabe, di quelli che avevano rovinato molte, forse troppe, notti della mia infanzia. Non sarebbe stato suo padre - abitava a Caserta - e neanche un compagno di corso - sapevo che Amelia divideva l'appartamento con altre tre ragazze - allora, era evidente, non avrebbe potuto essere che il suo amante. Un amante energumeno, con la barba ispida, duri capelli neri, sopracciglia folte e larghe due dita. Un gigante capace di guardarmi dall'alto verso il basso con un'espressione che mi avrebbe fatto sentire uno scarafaggio. Da dietro la sua mole avrebbe fatto capolino il sorriso di lei che, forse imbarazzata, forse sorpresa, schiudendo le labbra mi avrebbe chiesto: "E tu che ci fai qui?" ed a me non sarebbe rimasto altro che balbettare, come in quella canzone di Battisti: "scusa, credevo non ci fosse nessuno… credevo di volare e non volo…" e, idiota che non ero altro, me la canticchiavo davvero, in testa, la canzone di Battisti, e non mi decidevo a suonare il campanello.
Il giubbotto di pelle, intanto, s'era dato per vinto e non teneva più l'acqua. Avevo tutta la schiena gelida ma solo quando sentii il rigagnolo d'acqua iniziare a scorrermi in mezzo alle natiche, mi decisi e, stoicamente, poggiai il dito sul pulsante che mi stava di fronte.
Suonai prima timidamente, poi, nell'ordine: con coraggio, speranza, forza, rabbia, disperazione.
Suonai e suonai e suonai fino a che non fu evidente che non mi avrebbe aperto nessuno: né Amelia, né una qualsiasi delle sue tre coinquiline, e nemmeno l'amante irsuto, l'orco famelico ed orribile che, per una volta nella vita che aveva qualcosa di utile da fare, si era dato alla latitanza.
"Apri! Maledetto stronzo! Ma dove cazzo sei? Apri! Almeno tu apri, che ti do un pugno in faccia!"
Suonai e suonai e suonai, fino a che non fu chiaro anche a me stesso che avevo già suonato almeno il doppio del tempo necessario a rassegnarsi e togliersi da sotto la pioggia. Suonai e suonai e suonai fino a raggiungere il doppio del doppio. Suonai e suonai e suonai fino a quando, dopo giubbotto, maglietta, calzoni e mutande, anche i calzini non si furono ridotti fradici e solo allora, finalmente, mi decisi a voltarmi e andarmene, con i piedi, dentro gli stivali, che facevano ciak-ciak ad ogni passo.

Quella sera, quando entrai in casa, dissi che ero rimasto senza benzina. Chissà perché mi sembrò che una scusa tanto idiota bastasse a farmi fare una figura meno da fesso che se avessi confessato: "Sono andato fino a Bologna per incontrare la ragazza più bella della mia vita e lei non era in casa." Forse, inconsciamente, sapevo già allora che non esiste una "ragazza più bella della vita" ma che, come la squadra di calcio campione del mondo, cambia continuamente, solo a scadenze un po' meno regolari. Però quella era di certo la ragazza più bella dei miei primi ventun anni e siccome ciò rappresentava, sul momento, tutta la mia vita, magari non avrei neanche detto una cosa sbagliata. Comunque sia: nemmeno accennai all'argomento. Mi limitai a spogliarmi ed asciugarmi in silenzio, presi due aspirine, mi infilai il pigiama e me ne andai sotto le coperte. Il termometro ufficializzò: trentotto e mezzo.
Passai la notte scacciando orchi ed inseguendo fanciulle che, nella corsa, si voltavano un attimo per sorridermi e poi svanivano.
Non tornai più a Bologna. Amelia la rividi l'anno successivo, di nuovo al mare. Stava con un tipo insignificante. Era bruttino - certo più brutto di me - e piccoletto - certo più piccolo di me - sul naso aveva due lenti da miope e sotto un sorriso da ebete. Ebbi voglia di dirle: "Ma, allora…" ed invece non dissi niente. Mi limitai a fingere di essere contento di vederla e, per riuscirci meglio, cercai di convincermi che per me lei era stata sempre e solo un'amica.



Daniele Pierotti nasce a Pietrasanta nel 1959 ma si avvicina alla scrittura solo nella seconda metà degli anni novanta. Nel 1999 si iscrive alla neo-nata scuola di scrittura Sagarana e nel 2000 una sua opera La vera storia di John Fake McCoyrientra tra i dieci finalisti del Premio Calvino. Sempre nel 2000 vince il Premio Morante per la sezione romanzo di genere con il romanzo giallo Tre Casi irrisolti che è stato successivamente pubblicato da Proposte Editoriali, Roma.




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