

Intervento
guidato da Ron Kubati
Il secondo libro: continuità
o rottura?
Vorrei innanzi tutto
precisare che ho cercato di interpretare il titolo di questa discussione.
Per farlo l'ho suddiviso in due parti analizzando separatamente ciò
che garantisce la continuità, che porta a non fermarsi ad una prima
operazione di scrittura e ciò che invece gioca contro la continuazione
di un percorso letterario inducendo, a volte, alla rottura.
Dalla parte della continuità ci possiamo soffermare su una questione
già parzialmente affrontata. Fino a che punto l'immigrazione può
essere un trauma o una ricchezza da cui deriva un nuovo modo di vedere
il mondo e, di conseguenza, un forte stimolo alla scrittura? Ma ancora
dobbiamo chiederci: è un'esperienza che si esaurisce?
Io credo che l'interesse e il bisogno di scrivere da parte di un immigrato
siano dettati in gran misura dalla necessità di partecipare alla
vita pubblica di questa comunità occidentale, ma non solo occidentale,
perché definendoci con un termine amato dal professor Gnisci, meticci
(nel senso di ibridazione), noi immigrati ci rifacciamo sempre ad un contesto
più ampio e allargato. Certo, nella scrittura confluiscono la parte
artistica, quella emotiva, le capacità: ma se il tema da noi affrontato
è la continuità, penso che lo scrittore che ha saputo esprimersi
nel primo lavoro possa rifarlo nelle opere successive.
Ho puntato la mia attenzione sulla spinta intellettuale che motiva noi
immigrati a continuare sulla strada della scrittura, ma certo la nostra
situazione è complicata: a partire dal nostro problema di apolidia
maturiamo una sensibilità maggiore che ci permette, tra l'altro,
di affrontare e leggere tanti altri problemi. La nostra microstoria è
incastrata con la macrostoria: le nostre storie individuali riflettono
una situazione geopolitica alle spalle molto complessa. Attualmente basta
che un decreto si trasformi in una legge o che si radichi un certo orientamento
politico, e la nostra vita, immediatamente, prende un'altra piega. Siamo
dunque sempre molto attenti e il piano esistenziale si lega per noi in
modo più stretto al piano politico, inteso, quest'ultimo, come
partecipazione complessa alla vita pubblica, alle sue problematiche, alla
sua organizzazione. L'immigrazione è dunque un trauma che diviene
un punto di forza perché rende il nostro approccio problematico,
"felicemente scomposto", per utilizzare un'espressione che ultimamente
mi piace molto.
In questo senso penso di essere pragmatico e concreto affermando che tutto
ciò che ho detto è dimostrato dai nostri scritti in cui
sono sempre presenti, pur in modo assolutamente diverso, tematiche socialmente
impegnate. Ma certo non voglio dire che la nostra è solo una letteratura
di denuncia
Ritornando al punto principale penso che le spinte verso la scrittura
non giungano ad un esaurimento e che ci sia la possibilità di una
continuità, "perdurabile", per riprendere un termine
ormai familiare.
Se dunque ritengo probabile la continuità, è pur vero che
esistono degli ostacoli: l'artista, volente o nolente è un intellettuale,
che interviene sulla società . E' questo un ruolo già in
crisi in occidente per vari motivi e mi limito ad accennarne uno: l'intellettuale,
soprattutto umanistico, è sempre più estraneo alla logica
dei mercati. L'unico posto in cui questa figura è prevista è
l'ambito universitario o, semmai, il giornalismo
L'inserimento nel
corpo universitario è oggi per gli intellettuali l'ultima protezione
ma fuori da tali categorie è allo sbaraglio. Figuriamoci se parliamo
di intellettuali immigrati! Se anche mi dovrei informare meglio, so che
ci sono barriere legislative relative a questi ultimi: l'Occidente prevede
l'inserimento di operai qualificati nei settori in cui c'è bisogno,
ma, a quanto pare, non necessita di una potenziale sovversione intellettuale
che potrebbe essere portata proprio da noi intellettuali stranieri. In
tale ambito non è dunque prevista la nostra presenza in occidente
(sembrerebbe quasi non voluta) e non vedo in quale modo inquadrare questa
figura dell'intellettuale immigrato. Se un intellettuale immigrato (che
non venga dalla parte "bene" del mondo e privo di risorse economiche,
casi questi eccezionali), si trova a fare i conti con la sopravvivenza,
se vuole esprimere il proprio essere, la propria anima, le proprie potenzialità,
e rimanere quello che è si cimenta nella scrittura di un libro.
Ora questo è un impegno veramente grande(e penso soprattutto ai
romanzi che richiedono tantissime energie): uno scrittore intraprende
questo faticoso lavoro una prima volta
ma il tempo passa, la disillusione
cresce e, se dopo un po' di tempo decide di investire nuove energie nella
seconda opera, comincia già ad avere la sensazione di giocare alla
roulette russa. Se sbaglia la seconda volta, e molte energie sono state
tolte alla sopravvivenza, lo scrittore è già in difficoltà
si trova costretto a riparare e ha evidenti problemi ad andare oltre:
questo mi sembra un ostacolo realmente grosso.
Un altro impedimento: oggi il talento non è qualcosa che uno ha
e tiene in tasca in attesa del momento giusto: bisogna studiare, informarsi,
esercitarsi
Non è dunque solo il tempo sottratto per scrivere
ma anche quello che serve per tenersi allenati, per leggere, per partecipare
alla vita pubblica. Sempre che il primo libro non abbia avuto un successo
tale da sbaragliare tutti questo problemi. Ma è un caso troppo
raro per prenderlo in considerazione in un'analisi generale
Altre difficoltà: una volta, alla presentazione del mio libro,
un giornalista esordì in questo modo: " La prime cose che
ho letto sono state la quarta di copertina e la biografia dello scrittore.
Ciò mi ha permesso di formulare delle aspettative
Ho letto
il testo e mi sono trovato spiazzato. Mi aspettavo il solito testo dell'immigrato
che denuncia
"
Esiste dunque il luogo comune anche da parte degli intellettuali per cui
la letteratura migrante è questa e basta: denuncia, cronaca, niente
di più. Quando un lettore si trova in libreria può capitare
che apra la quarta di copertina, faccia lo stesso ragionamento di questo
giornalista e, già sufficientemente angosciato dai telegiornali,
decida di comprare qualcos'altro. I valori letterali stupiscono e questo
è grave: non è un caso se veniamo quasi sempre pubblicati
da piccoli editori.
L'ultimo problema a cui voglio accennare, senza dilungarmi, è proprio
quello dell'editoria che, effettivamente ci penalizza parecchio. Capita
che a volte esca un articolo, una bella recensione, ma il testo, distribuito
da un piccolo editore, non si trova sempre in libreria.
D'altra parte la grande editoria, con poche eccezioni, non sembra molto
interessata
e quando pubblica sembra che lo faccia più per
evidenziare uno scoop, un importante caso, che non credendo e puntando
sulle nostre capacità letterarie. E allora si continua a giocare
sulla figura del povero immigrato che sa anche scrivere..[
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