Giovedì 18 luglio - pomeriggio - Lingua e traduzione

Interventi di Mia Lecomte, Julio Monteiro Martins, Brenda Porster, Amor Dekhis, Anilda Ibrahimi, Andrea Sirotti, Sonia Cherbino, Cecilia Rinaldini (giornalista Rai), Carmelo Pizza (regista teatrale), Michele Cecchini (insegnante), Selena Delfino, Eugenia Mazza.

Mia Lecomte-Nel convegno che si è tenuto a Roma durante l'ultima settimana di giugno, dal titolo Diaspore europee, organizzato dal Prof. Armando Gnisci e promosso della Sapienza, dal Goethe, dall'Istituto Svizzero e Austriaco, nella giornata di dibattito con la presenza degli scrittori si sono trattati i grandi temi, in fondo onnicomprensivi, dell'identità e della lingua. Io ho fatto da moderatrice in questa seconda parte. I problemi emersi dal confronto tra gli scrittori durante il dibattito sono stati molti, fra cui: da che cosa scaturisce la scelta di adottare o meno la lingua di accoglienza, e di conseguenza il rapporto che si viene a instaurare con la lingua madre; poi, il problema dei vari livelli d'uso della lingua italiana, e cosa sia definibile veramente come letteratura, un argomento spinoso, su cui ci sono posizioni molto diverse, a Roma sollevato proprio da Anilda; la scelta di mantenere più lingue allo stesso tempo, nata da una poetessa polacca presente, Barbara Serdakowsi, che scrive contemporaneamente in tre quattro lingue, usandole quasi come strumenti musicali, utilizzando quando necessario, quella più adatta alla materia da esprimere. Ci si è chiesti come la lingua italiana accolga queste altre lingue all'interno della propria letteratura, perchè in paragone agli altri paesi europei, in realtà l'italiano è la lingua ideale di accoglienza, perchè è una lingua variegata, ha una grossa tradizione dialettale, ed ha sempre avuto all'interno della propria storia una doppia spinta, conservatrice ed eversiva. Gli ultimi palpiti di questa carica innovativa sono stati portati dalle avanguardie, che adesso non funzionano più, a loro volta sono diventate espressione di "classicità", anche e soprattutto in senso deleterio. Quindi dal punto di vista linguistico, la letteratura della migrazione, può essere intesa come l'ennesima forza che riscompagina la lingua letteraria italiana, e l'arricchisce garantendone la sopravvivenza. Un'altra questione è se c'è una differenza tra la lingua adottata liberamente e la lingua accettata per necessità, come unica possibilità di espressione. E il problema della traduzione e dell'autotraduzione: chi scrive nella lingua di accoglienza subito, chi in un secondo momento autotraducendosi, chi, ancora, scrive nella lingua di accoglienza come Gezim Hajdari, poeta albanese, e poi si autotraduce in albanese, e dunque che cosa comporta questo ritorno nel ventre materno. E a cornice finale, la questione legata all'editing, quello che Gnisci in un suo intervento nell'ultimo numero di Kùmà chiama giustamente doppiaggio , ai gradi di padronanza della lingua, la necessità di intervento sulla lingua italiana, ma dall'interno della lingua dello straniero. Questo per cercare, specialmente nella poesia, di trasferire la musicalità della lingua madre nella lingua di accoglienza.
Neanche a Roma abbiamo finito di discuterne, non si può finire di discuterne: certi argomenti sono rimasti aperti, e visto che oggi abbiamo la presenza di traduttori mi sembrava una cosa interessante da approfondire. Se vuoi, Brenda, puoi iniziare tu a dirci come mai hai scritto pochissimo in italiano, nonostante trent'anni d'Italia, preferendo l'inglese.

Brenda Porster-Non è stata una scelta. Mi vengono e mi venivano pezzetti di cose in inglese. Avevo rapporti e dialoghi soprattutto in inglese, anche se vivevo in Italia. Quando ho ripreso a scrivere, era una specie di dialogo fallito che diventava un monologo continuo. Quando ho cercato di vedere se riuscivo a tradurre le mie cose in italiano, mi rendevo conto che non riuscivo e che non riesco e, per fortuna, c'è chi fa questo per me. Mi sembra che non basti avere una discreta conoscenza della lingua, non ho sicurezza con il linguaggo poetico, con la metrica, con la musicalità dell'italiano, per sentirmi del tutto a mio agio. Nonostante questo, in certe circostanze, scrivo qualcosa in italiano con più spontaneità, ma non è un lavoro di traduzione.

Julio Monteiro Martins - Vorrei domandare a Brenda, se lei non crede che ci sia una sorta di crescente egemonia della lingua inglese sulle altre. Come se l'inglese fosse una prima classe e poi di fosse una seconda classe costituita dalle altre lingue.

Brenda Porster- C'è questo imperialismo linguistico. Muoiono tante lingue, c'è un progressivo impoverimento della specie e delle lingue. Forse si tratta anche di lingue orali e questo mi rende triste. Come insegnante di lingua inglese, ho dovuto confrontarmi anche con questa questione. Io ho studiato negli Stati Uniti e sin da piccola ho letto tanta poesia in lingua inglese. Penso che vivendo in Italia, in questo momento, sarei avvantaggiata se scrivessi in italiano, perchè c'è più interesse in Italia per gli immigrati che usano l'italiano che non viceversa. Personalmente non traggo nessun vantaggio dal fatto di scrivere in inglese. Mi piacerebbe continuare a scrivere di più in italiano, perché in fondo ho passato quasi tutta la mia vita usando l'italiano, anche in famiglia.

Andrea Sirotti- Volevo dire qualcosa sul mestiere del traduttore e dell'editor. Il traduttore, se si occupa di autori contemporanei viventi, può superare la difficoltà data da tutto quello che non è linguistico, semplicemente collaborando con l'autore. Io non traduco da un'altra lingua che non sia l'inglese, però se non devo tradurre un autore morto, è fondamentale la collaborazione con l'autore stesso. Se viene dall'ex-Commonwealth o dalla Scozia o dalla stessa Inghilterra, sicuramente solo lui o lei mi potrà chiarire certi aspetti che capisco benissimo linguisticamente, ma che non afferro da un punto di vista di gap culturale. Io credo che la stessa cosa dovrebbe fare un editor. Ho trodotto poesie autotradotte da un poeta brasiliano che si chiamava Heleno Oliveira, ora è morto, ed ho tradotto poesie di Brenda, ed ho aggiustato poesie di Brenda e di Heleno scritte direttamente in italiano. Uno potrebbe dire che conoscendo io l'inglese deve essere stato facile nel caso di Brenda. Ma in entrambi i casi la conoscenza diretta, questa sensibilità diretta, a pelle, mi ha aiutato tantissimo, e nel caso di Heleno, non conoscendo il portoghese, probabilmente è stato anche meglio, perché non avevo sovrastrutture che mi potessero fuorviare, fare prendere delle cantonate.

(QUI LA REGISTRAZIONE SI E' INTERROTTA, E SI E' PERSA CIRCA UN'ORA.
RIPRENDE CON LE PAROLE DI JULIO MONTEIRO MARTINS)

Julio Monteiro Martins - Quello che voglio dire è che letterature diverse, poetiche diverse, se uno ha talento, scaturiranno da rapporti epistemologici diversi con l'apprendistato della vita. Sono risultati di una determinata epistemologia. Come il bambino impara la parola "bisogno" in italiano, per lui sarà sempre legato alla parola "necessità". Io che a trentotto anni imparo questa parola, che in portoghese, bisonho, significa "grottesco", "esotico", questa parola si arricchisce anche poeticamente dell'idea di grotesco, che non c'entra niente con la lingua italiana.

Mia Lecomte - Tu continui a parlare di contenuti mentre io parlo di suoni.

Julio Monteiro Martins- Io insisto nella creazione di una soggettività linguistica specifica, individuale, personale. Il risultato è un'epifania esterna di quell'accumulo inconscio.

Mia Lecomte- Non voglio fare nomi, ma c'è un poeta straniero che scrive in italiano, un poeta affermato, che ha avuto un libro con un editing da parte di una persona e pochissimo tempo dopo ha avuto un editing di un'altra persona. Hanno detto che era cresciuto come poeta, invece aveva semplicemente cambiato editor, era stato fatto un lavoro più serio di editing.

Julio Monteiro Martins- Quello che ho detto riguardo l'epistemologia è valido per tutta la narrativa migrante. Bisogna capire che in Italia si sta affermando la letteratura di certe persone che hanno avuto un rapporto epistemologico di maturità con quella lingua e quella realtà. Scrittori che hanno in comune il fatto di aver imparato l'italiano appena arrivati.

Sonia Cherbino- A proposito delle parole che suonano strane nella nostra lingua. In italiano voi avete la parola "squisito" che significa, buono, meraviglioso, mentre in portoghese abbiamo la parola esquisito che si significa "strano, schifoso". Tu dicevi che ti senti arricchito da questa doppia valenza, e nel tuo scrivere giochi con questa ambivalenza. Pensi che il lettore possa afferrarla? E poi scrivendo in italiano, che impressione ti fa leggerti in una traduzione in portoghese.

Julio Monteiro Martins- Rispondo molto semplicemente ad entrambe le domande. No, non è possibile trasmettere questo straniamento o ambiguità a chi non è bilingue, anche se tutte le volte che userò in italiano la parola "squisito", non potrò fare a meno di pensare all'ironia che essa suscita in me. Alla seconda risposta non posso risponderti, perchè non è ancora successo. Mai un testo mio è stato tradotto in portoghese. Ogni volta che ci ho pensato mi è venuta una sensazione un po' ironica di autore postumo, nel senso che sono morto e ho perso il controllo della mia opera, che esiste indipendentemente da me e viene anche tradotta in portoghese. Questa sensazione di autore postumo l'ho avuta anche in altre occasioni. È uscito adesso a Lucca un libro di poesie dedicate alla città. Hanno preso un brano di un testo mio di poesia in prosa e lo hanno inserito insieme a scrittori del quattrocento e del seicento, senza dirmi che il libro era uscito e senza inviarmi nemmeno una copia. Ora, magari non mi sento tanto bene, ma postumo non lo sono ancora!

Cecilia Rinaldini- Volevo parlare dell'ambivalenza dei suoni nella poesia tedesca. C'è un poeta tedesco di origine spagnola, José Oliver- l'ho letto nel libro di Chiellino, questo professore di cui ormai aleggia il fantasma tra di noi - che fa un omaggio a Pablo Neruda, alla poesia Verde que te quiero verde. Ora verde, in tedesco, è un ausiliare per formare il futuro, e lui ha costruito tutta la poesia dichiarando questa cosa, creando continui rimandi. Quindi forse questo gioco si può anche fare, se tu lo dichiari, è un gioco che anima la lingua.

Julio Monteiro Martins- Si può guadagnare qualcosa o forse perdere a volte qualcosa, e questo mi dispiace. C'è una poesia di Pessoa i cui versi finali dicono: "Navegar é preciso, viver não é preciso", poi ripreso in un fado famosissimo. Perché la parola portoghese preciso significa allo stesso tempo preciso e necessario. Allora la forza di questi due versi, tradotti sia con un senso sia con un altro, è che sono belli ma totalmente diversi, e cioè: "Navigare è preciso (sai dove devi andare), vivere invece non è preciso (non sai mai dove vai a finire)"; oppure: "Navigare è necessario (lavorare ecc.), vivere non è necessario (puoi anche morire, ma se sei vivo allora devi navigare)". Allora, come si fa in italiano a renderlo bene, o si sceglie preciso o si sceglie necessario, e quindi si ha necessariamente una perdita. Si possono anche inserire delle note, però interrompono il testo, rovina l'effetto. All'università di Pisa insegno traduzione letteraria a Lettere, per il terzo e quarto anno, quindi mi trovo ad affrontare questi problemi. Dico sempre agli allievi del mio corso che tradurre è compiere delle scelte ingrate. Bisogna scegliere il male minore. A volte dopo tanti tentativi insoddisfacenti, vale la pena anche fare un cambiamento radicale, riscrivere una frase in modo totalmente diverso, per rendere l'effetto psicologico.

Brenda Porster - In poesia è molto più difficile.

Julio Monteiro Martins - Forse la traduzione ideale andrebbe fatta in coppia: un traduttore madrelingua nella lingua di partenza e un altro traduttore madrelingua nella lingua di arrivo, e tutti e due poeti, che lavorano entrambi con la sola intenzione di rendere al meglio la poesia dell'autore.

Brenda Porster - Io non credo che per essere un bravo traduttore si debba essere poeta. Altrimenti davvero può diventare un'altra cosa.

Cecilia Rinaldini - Io torno a quanto ho letto nel libro di Chiellino - perché non sono un'esperta - e sugli esiti della poesia tedesca della migrazione. Lui sostiene che gli stranieri che scrivono poesia in tedesco scrivono una poesia di suoni, non visiva. Chiellino ha studiato poeti curdi, turchi e italiani che scrivono in tedesco ed ha scoperto nei loro testi dei rimandi, dei doppi sensi, che sono legati al suono delle parole, che svelano la lingua in modo diverso. E fa l'esempio di due verbi, verlassen e verletzen, uno che vuol dire lasciare, abbandonare, e l'altro ferire, offendere. Nella sua poesia Er nimmt sich meiner im Aufrag an, Chiellino dice di aver costruito un rimando di suoni, piuttosto che visivo, perché ha usato il verbo in terza persona, in realtà, con il suono più vicino a verletzen, offendere. Secondo me, quindi, uno scrittore non madrelingua, specialmente nella poesia, ha una chance in più rispetto agli altri, perché avverte i suoni e riesce con questa ulteriore sensibilità a creare degli spessori nella lingua poetica di estremo interesse, sempre che sia bravo, ovviamente.

Julio Monteiro Martins- Penso alla particella italiana "mica". Per me è un grande arricchimento, noi non abbiamo questa espressione in portoghese. Abbiamo sì, la parola "mica", ma significa un tipo di minerale. Quando sentivo dire le prime volte "mica", vedevo sempre l'immagine di questo minerale, finché non si è diluita nella particella negativa.

Andrea Sirotti -Ma lo sai da cosa deriva "mica"? Significa briciola, da cui michetta, un rafforzativo della negazione che deriva da una quantità piccola.

Julio Monteiro Martins - Quello che Cecilia diceva a proposito del potenziale di arricchimento della letteratura nuova, secondo me è un'oppurtunità per quella lingua e letteratura. Se comincia a scaturire un circolo di buone pubblicazioni, tutto questo potenziale verrà fuori. Non è detto che accadrà, può anche darsi che tutto questo sia un fuoco di paglia, una moda che si spenge dopo pochi anni, ma se ci sarà, sarà importante per il futuro della letteratura. Ci sono posizioni contrapposte a proposito di questa letteratura, ma si raggiungono delle sintesi ricche se ci sono una tesi ed un'antitesi, sfide in cui ci si può confrontare. Diceva Nelson Rodrigues, un drammaturgo brasiliano: "Toda unanimidade é burra", ogni unanimità è stupida, quindi le polemiche mi sembrano una ricchezza.

Carmelo Pizza- Invertiamo un attimo il rapporto con l'opera. Io mi metto dal punto di vista di chi la legge, di chi fruisce quest'opera, e mi chiedo appunto qual'è il grado di libertà di fronte ad un'opera da parte di chi legge. In un certo senso, stiamo dicendo, sappiamo cosa scrivere. Il problema è cercare la parola che indica quello che vogliamo scrivere. Quanto un'imprecisione letteraria può fornire un chiavistello, il buco della serratura attraverso cui illumino la scena dell'opera? Posso entrare in comunicazione, o l'opera mi lascia comunicare perché colgo una sfumatura o un'imprecisone della lingua che fino a quel momento mi sfuggiva? Voglio lanciare uno spunto, se possibile, per la discussione. Che cosa è un uomo che può scrivere una poesia, che cosa è una poesia che può essere scritta da un uomo?

Julio Monteiro Martins- Io tendo a credere che la libertà di chi legge sia totale e assoluta. La sola limitazione è la percezione inconscia. Se una determinata parola che tu leggi ti evoca un trauma vissuto, per ipotesi, nell'infanzia, perché ti fa ricordare un momento drammatico di tanti anni fa, e questo ti fa avere una palpitazione cardiaca specifica, o ti fa abbandonare quel libro perché quel ricordo é troppo doloroso, questo non è tanto sotto il tuo controllo.

Carmelo Pizza- Voglio dire, che cosa è effettivamente, oggi, un'opera letteraria che viaggia in internet? Non è solo un luogo comune. Oggi più che in altri momenti appare questo elemento vivo, la capacità di trasformarsi, di attraversare dei tempi, perché crea un tempo. Questo fino a che punto appartiene a chi la elabora? A questo punto credo che ci sia un esercizio fisico con la lingua, da parte di chi scrive, corporeo direi, e trasferirlo nella scrittura prescinda dall'appartenere o meno ad una lingua madre.

Mia Lecomte- Il comparatista Antonio Prete sostiene che comunque c'è un corpo a corpo con la lingua madre anche nello scrittore unilingue. Nel senso che la lingua madre è una lingua che assimili nell'infanzia ed è una lingua quasi al confine con l'afasia, una lingua di suoni non codificabili, di silenzi, di percezioni sensibili. Queste cose rimangono in contro-trama anche per un autore che poi per tutta la vita continuerà a scrivere, dovrà sempre fare i conti con la propria lingua madre, e quindi il corpo a corpo ci sarà comunque ed è quello che poi, nel caso specifico della poesia, dà effettivamente spessore al verso, .

Julio Monteiro Martins- Quando tu parli di fisicità e corporeità io le vedo proprio. C'è un determinato momento in cui lo scrittore, quando è totalmente dentro la scrittura, cercando l'espressione giusta, oppure è insoddisfatto con un titolo o una metafora, si alza e cammina da un lato all'altro della stanza, sente dolore ai muscoli, suda, è proprio un travaglio, una cosa fisiologica. Nelle lettere scritte a Felice Bauer, durante la stesura della Metamorfosi, Kafka racconta che dopo due o tre paragrafi i muscoli gli si irrigidivano al punto tale che doveva uscire di casa intorno alla mezzanotte e camminare per Praga fino all'alba. Mi sembra che sia proprio vero, allora, quello che dicevi tu, almeno direi per coloro che sono veri creatori che non "fanno" letteratura ma che "sono" letteratura. Che è un essere e non un fare.

Sonia Cherbino- Il lettore, soprattutto nelle traduzioni, deve avere fiducia nel testo e poi ha tutta l'immaginazione a sua disposizione.

Julio Monteiro Martins- C'è forse una caduta della qualità della lettura e del lettore, in tutto il mondo. Magari mi sbaglio, ma il lettore di oggi è molto meno predisposto ad aprirsi al nuovo. E allora cosa fa? Non cerca di conoscere ma di riconoscere qualcosa che conosce già, una determinata visione, che ne so, dell'America Latina come la vede lui, oppure contraria a quella che crede lui. C'è una sorta di lettura chiusa, e questo finisce per riflettersi negativamente nell'industria editoriale.

Michele Cecchini- Io credo che l'opera, una volta uscita, non appartenga più all'autore, e il lettore abbia il diritto di leggerla come vuole, non esiste una buona o una cattiva lettura.

Julio Monteiro Martins - Questo è vero, ma quando pensavo alla chiusura, intendevo dire che un lettore invece di chiedersi: "Che cosa è questa cosa?", fa una affermazione: "Questa non è quella cosa". Senza chiedersi: "E allora cos'è?". Mi pare ci sia una sorta di circuito che si autoalimenta. All'inizio degli anni settanta ho l'impressione ci fosse una predisposizione ad una avventura dello spirito, alla curiosità del diverso ecc., oggi diminuito. Forse perché in quel periodo il mondo era meno soddisfacente, più povero di informazioni, e per reazione erano più aperti. Oggi forse ce n'è così tanta che il circolo si chiude. Direi che c'è una caduta della qualità, della curiosità; quella della mia adolescenza era una curiosità più avventurosa. E l'industria culturale rispetta questi cambiamenti.

Brenda Porster- Era un mondo infinitamente più piccolo, io ero avida...Come fanno i ragazzi oggigiorno ad essere avidi?

Selena Delfino- Io ho un'idea sul fatto che con Internet ci sia un eccesso di informazioni e di stimoli. Ma non sono d'accordo su questo eccesso di stimoli. Credo che l'avidità o ce l'hai o non ce l'hai. In questo momento, con internet, ho più possibilità per soddisfare le mie curiosità. Da quando ho imparato ad usare Internet in maniera piuttosto buona, devo dire che l'avidità non è cessata ed è stata soddisfatta. Penso di essere riuscita a utilizzarlo e non farmi utilizzare dallo strumento. Quindi il discorso dell'avidità secondo me non è legato a maggiori o minori stimoli.

Eugenia Mazza- Secondo me, forse oggi quello che succede è che i nostri interessi sono un po' manipolati. Mentre una volta non c'era questo bombardamento dei mass media, della televisione, oggi ci dicono di cosa dobbiamo essere avidi. I ragazzi si rivolgono verso altre cose, ad Internet ecc. La loro avidità è una forma di curiosità, ma su cose che non piacciono, forse è un'avidità indirizzata.

Andrea Sirotti- Io vissuto con avidità le due fasi, in qualche modo. Nella prima fase sentivo che era un'avidità di approfondimento, direi di rilettura: le poche cose che ci arrivavano le centellinavamo, tipo slow food. I romanzi dell'infanzia e della giovinezza capitava di riconsiderarli. Questo non so se avviene tra i ventenni di oggi. Fanno magari come un quarantenne come me, che, incuriosito dai nuovi mezzi, assaggia tantissime cose, rimane in superficie; incoraggiato dalla facilità d'uso, dal fatto che non deve spostarsi, sicuramente non sente l'esigenza di rigustare, ma vuole ampliare e assaggiare il più possibile.

Amor Dekhis- A proposito dell'avidità della lettura. Io ho letto romanzi da piccolo e poi li ho riletti da adulto: sono state due letture diverse. Da adulto studiavo di più, volevo scoprire i punti nascosti dall'autore. Lo straniero di Camus l'ho letto molte volte, perchè cercavo il meccanismo dell'opera, e così mi rendevo conto delle novità rispetto all'epoca in cui era stato scritto, gli anni trenta o quaranta.

Julio Monteiro Martins- Un altro elemento che vorrei proporre come riflessione, insieme a quello dell'informazione manipolata, è la questione dei sentimenti, delle emozioni. Miguel Torga, un romanziere portoghese che ha esordito negli anni venti, trenta, in un'intervista ha detto che secondo lui la qualità letteraria era il risultato di uno spessore spicologico acquisito. Ora, c'è un modo diretto per acquisire questo spessore psicologico che sono gli eventi della vita stessa, vivere e maturare dentro la vita, e l'altro è l'assorbimento di questo spessore attraverso l'esperienza altrui, trasmessa attraverso l'arte. Quando ho letto Se questo è un uomo e La tregua, di Primo Levi, certe situazioni limite di determinati esseri umani in un preciso momento della storia europea, qualcosa dentro di me è cambiato, magari cresciuto, nel mio personale spessore psicologico acquisito, anche se non ho vissuto direttamente quell'esperienza. Paragonando la narrativa prodotta mondialmente negli anni quaranta, cinquanta, fino agli anni settanta, e quella che è venuta dopo, la narrativa cosiddetta minimalista, postmoderna, vediamo che non c'è un problema di qualità letteraria, ma un problema di mancanza di spessore psicologico acquisito. Mi sembra che in alcuni casi non si sappia proprio cosa scrivere, oppure ci siano delle priorità sballate. Gli scrittori sono diventati più letterari, in senso negativo, meno vitali e più preoccupati di fare bella figura nel mestiere che hanno scelto. Però, dall'altro lato, mi rifiuto di credere che il dramma umano possa perdersi da una generazione all'altra. Forse con la malattia, l'Aids, certi scrittori o drammaturghi hanno scritto opere bellissime, come la pièce teatrale Angels in America dello scrittore Tony Kushner, con cui ha vinto il premio Pulitzer e poi è morto di Aids, ed è stata l'ultima cosa che ha scritto. È stata necessaria questa peste, perché lo spessore si manifestasse. Penso anche ai libri di Heminguay o a La storia di Elsa Morante, dove si vede il dramma del ventesimo secolo, queste vite sbattute qua e là dalla storia.

Anilda Ibrahimi- Volevo riprendere quello che aveva detto Selena. Forse io posso fare da ponte, perchè ho vissuto infanzia e adolescenza senza computer, e nei miei trent'anni, invece, approfitto di questi nuovi mezzi. Resto perplessa nel sentire dire che quest'epoca offre di più, specialmente se uno vuole scegliere delle letture per la formazione. Io ricordo le mie prime letture: avevamo una grande biblioteca in casa, e ricordo a partire dagli undici dodici anni, durante l'estate, mio padre mi dava libri di Jack London, i romanzi della generazione perduta, e Remarque, David Copperfield ecc, per arrivare poi ai sedici anni, in cui leggevo Scott Fitzgerald, i surrealisti, Whitmann ecc. Sicuramente adesso ci sono nuovi autori che io sceglierei per mia figlia. Però c'è una grande differenza, e soprattutto internet non può sostituire queste letture.

Selena Delfino- Anch'io quando avevo dodici anni non stavo davanti al computer, anche perchè non c'era. Vedo però le mie nipoti di quindici che stanno a chattare tutto il pomeriggio. Non lo considero uno strumento di formazione, ma di ricerca, è questo che intendevo dire quando dicevo che mi offre molti spunti. Su Internet trovo spunti che poi approfondisco altrove, in libreria, in biblioteca. Faccio una cernita di quello da leggere e considerare, tipo la rivista Sagarana e poche altre cose. Ho iniziato a usarlo considerandolo uno strumento di ricerca mia, quando una mia formazione generale e letteraria era già stata data. Ho fatto più o meno il tuo stesso percorso. Forse bisognerebbe chiederlo a chi ha oggi diciotto anni, io ne ho dieci di più!

Julio Monteiro Martins- Corrispondo con giovani più o meno di questa età, che scrivono alla rivista. Tutti hanno una formazione letteraria acquisita fuori da Internet, utilizzano questo strumento come dici tu, per fare ricerca, per ottenere informazioni di riferimento, per confrontarsi con persone con gli stessi interessi, esporre quello che dicono o producono. Le fondamenta della loro formazione letteraria non viene da Internet.

 

Nella foto: Julio Monteiro Martins e Brenda Porster